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ilsalto

Quattro editoriali per capire i drammi della sinistra in Europa

di Alexander Ricci

Scritti negli ultimi giorni da James F. Downes and Edward Chan, Dani Rodrik, Holland Stuart, Jonathan Rutherford

Tsipras è un eroe, o un poster boy dell’establishment? I socialdemocratici degli anni 80 e 90 sono da considerare degli innovatori, o alla stregua dei neolibersti di Thatcher? E oggi, si deve ricostruire una politica progressista populista, o aprire al tema dell’identità, cara alla destra? Sono le domande chiave che contraddistinguono le riflessioni degli “intellettuali” progressisti di mezza Europa e, più nel dettaglio, quattro editoriali pubblicati, nel corso delle ultime due settimane, su New Statesman, Project Syndicate e sul blog della London School of Economics.

Per iniziare, James F. Downes and Edward Chan descrivono in termini numerici l’entità del crollo dei partiti socialdemocratici, un fenomeno, quest’ultimo, che viene visto come parallelo alla diminuzione di legittimità degli ordini liberal-democratici stessi. Downes e Chan sostengono che i partiti in questione avrebbero «perso il controllo della situazione economica e sociale» dei Paesi di rierimento. Ne consegue che “gli ultimi” non si sentono più rappresentati dalla sinistra. Conseguenza? Le basi elettorali si spostano in maniera radicale.

Sulla scia dell’analisi di Downes e Chan – piuttosto comune, ormai – è Dani Rodrik a trattare con una prospettiva di lungo corso le cause della perdita di consenso del centrosinistra. In un editoriale al veleno, il professore di economia accusa le forze di in questione di aver “abdicato” alla loro missione storica. Non ci sarebbero dubbi: intellettuali quali Jacques Delors e Henri Chavranski e, con essi, tutta la classe dirigente europea (ma anche americana) degli anni 80 e 90 avrebbe fatto spazio al mito della globalizzazione finanziaria e dei benefici della mobilità dei capitali.

Il missile di Rodrik giunge fino agli anni 2000 e post-2010: Syriza in Grecia e Lula in Brasile non sono stati capaci di elaborare alternative concrete e attraenti, capaci di andare oltre al mantra della “redistribuzione”. Tutto nero? No. Recentemente, intellettuali come Admati e Johnson, Piketty e Atkinson, Mazzucato e Chang, Stiglitz e Ocampo, De Long, Sachs e Summers avrebbero proposto riforme credibili, rispettivamente per risolvere i nodi della finanza, delle inuguaglianze, dell’intervento pubblico nell’economia, della governance globale e della mancanza di investimenti.

Eppure, c’è chi non ci sta. Holland Stuart, professore all’Unviersità di Coimbra, esperto di storia e politica dell’integrazione europea, risponde a tono alle spallate di Rodrik. Tecnocrati come Delors avrebbero giocato un ruolo fondamentale nell’opposizione agli interessi ordoliberali che andavano a costituirsi in Europa negli anni 80 (Delors parlava, già allora, di eurobond, per esempio); allo stesso modo, i partiti di sinistra del Sud America sarebbero stati bastioni contro il neolibearlismo di Reagan e propulsori dei movimenti internazionali socialisti. E poi c’è la difesa di Syriza. In particolare, non ci si potrebbe scordare di documenti come il “Modest proposal” elaborato dallo stesso Stuart insieme a Varoufakis e Galbraith durante la crisi del 2015: una proposta di riforma e politiche per salvaguardare in termini progressisti la tenuta dell’Unione e dell’Eurozona (anche qui, sulla base dell’idea di mutualizzare parte del debito e dei rischi finanziari).

Come giustifica allora Stuart il crollo del centro-sinistra? Se ci sono colpevoli, sarebbero da ricercare nella generazione di fine anni 90, ovvero tra i vari Schroeder in Germania, il duo Blair-Brown nel Regno Unito e Gonzales in Spagna: tutti rei non solo di aver ignorato le alternative al modello neoliberale, ma, soprattutto, di aver distrutto la democrazia interna ai partiti stessi ed aver emarginato le voci più radicali.

A ben guardare, le divergenze tra Stuart e Rodrik sono legate soprattutto a quali siano i «bambini che non vanno buttati con l’acqua sporca». Ma sulla sostanza delle proposte necessarie, si troverebbero più o meno d’accordo: servono politiche progressiste moderne, che partano dal malessere popolare, accolgano istanze di populismo economico e siano capaci di imbrigliare i mercati, in modo da garantire welfare e prosperità per la maggioranza dei cittadini. Tutti d’accordo? Non proprio.

In uno dei contirbuti giornalistici più controversi degli ultimi mesi, Jonathan Rutherford, analizza criticamente il cobrynismo e sostiene che il populismo economico non basta. Inutile girarci intorno: o la sinistra trova una risposta alle questioni identitarie, oppure la partita con la destra dei vari Salvini europei sarà persa. L’analisi di Rutherford si concentra sul caso del Labour, ma può essere tranquillamente allargata anche alle altre forze politiche europee: «Il populismo di sinistra del Labour, è orfano di risorse intellettuali che possano affrontare le sfide della destra. È troppo esclusivo in termini di classe e cultura. E non è contraddistinto da pratiche democratiche che riescano a unire diverse classi e gruppi di interesse. Il liberalismo cosmopolita e il relativismo morale [che ne sono alla base] lascia la nazionale e il tema dell’identità culturale in mano alla destra. Né il suo focus sull’ingiustizia economica, né il supporto a forme di democrazia partecipativa sono sufficienti per costruire una coalizione popolare nazionale».

Cosa propone Rutherford? Una sorta di Labour (e, quindi, allargando la prospettiva al Continente, di sinistra) “blu” (“Blue Labour”): una forza progressista che non abbia paura di giocare sul terreno dell’identità e del comunitarismo, anche nazionale. Ancora nelle parole di Rutherford: «Il populismo ha rottamato le regole del gioco. La risposta non sta nel tentare di re-imporne di ‘vecchie’, ma nel forgiare, a partire dal populismo e dalla rottura emotiva che ha comportato, un linguaggio nuovo che sia in grado di toccare il cuore e l’anima della nazione e modificare la struttura della politica del Paese».

Insomma, la posizione di Rutherford va addirittura oltre il corbynismo, instaurando una sorta di modello “peronista” per i Paesi europei. È la via del futuro? Difficile dirlo. Quel che appare chiaro è che a sinistra c’è bisogno di almeno due cose: convergere su un’interpretazione comune della storia ed essere disposti a sfatare qualche tabù in più.

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