
Lettere dal Sahel XV
di Mauro Armanino
Solo Dio è la mia casa
Niamey, giugno 2024. Lo affermava Joy senza esitazione stamane. Originaria di Benin City, nello stato di Edo, nella Nigeria da cui è partita con il figlio minore nel 2022. Menziona problemi legati alla famiglia e fa allusione pure a morti rituali che l’hanno impaurita e fatta fuggire in Egitto. Passa dal Camerun e, dopo aver attraversato il Ciad e il Sudan, raggiunge la capitale dell’Egitto, Il Cairo. Suo figlio Emanuele ha 17 anni e si separa dalla madre per andare a vivere con alcuni coetanei in un’altra città. Joy trova lavoro come domestica per oltre un anno. Frequenta la chiesa presbiteriana di St John nella capitale dove si sente accolta e rispettata dalla comunità parrocchiale e dal clero straniero. Sente un’attrazione divina del monte Sinai e vorrebbe raggiungerlo per poi stabilirsi in Israele. E’ fermata prima di raggiungere la meta per mancanza di documenti di viaggio idonei ed è riportata al Cairo dove sarà detenuta per tre mesi in una prigione della capitale.
Terminata la pena è deportata a Lagos in Nigeria con un volo speciale assieme ad altri connazionali. Non torna nella sua città di origine perché è convinta che il suo futuro si farà altrove, lontano dall’Africa che ha smesso di sentire come la sua terra.
Solo Dio è la mia casa, dice Joy come parlando a se stessa e guardando lontano. Parte di nuovo per raggiungere un parente che, secondo lei, avrebbe fatto fortuna a Niamey, la capitale del Niger. Naturalmente in città del parente non c’è traccia alcuna e inutili sono stati i tentativi di rintracciarlo tra i membri delle folta comunità nigeriana Ibo che si assicura un ruolo di rilevo nel mercato locale. Joy afferma che il denaro è il suo schiavo e non il suo padrone. Ha osservato come varie nigeriane commerciavano il loro corpo in Egitto mentre altri mendicavano sulle strade, senza vergognarsi. Da quando si trova a Niamey, un paio di settimane, non cerca soldi ma un luogo di ristoro sicuro per passare la notte.
Joy si chiama anche Glory ed è originaria di Benin City, luogo assai noto in Nigeria e in Italia a causa dell’emigrazione femminile che molto spesso assume i connotati della tratta con scopo di prostituzione. Non vuole continuare a vivere in Africa e crede che il suo destino sia quello di abbandonare un continente che per lei è alla deriva. Nel frattempo domanda aiuto per tornare in Nigeria per mettere assieme il denaro sufficiente per il viaggio e l’eventuale visto per un Paese che ancora non sa. Andrà via dall’Africa. ripete ad alta voce congedandosi. Promette di tornare domattina perché Dio è la sua casa.
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Cronache di polvere
Niamey, luglio 2024. Da luglio a luglio fa giusto un anno dall’ultimo colpo di stato nel Niger. Ancora una volta ci sono i militari al potere per la transizione non dichiarata a un regime costituzionale e dunque democratico. Le marce e le ‘oceaniche’ allo stadio, partecipate soprattutto da giovani e bambini. Le bandiere del Paese al volante di tricicli, motociclette e taxi. I presidi notturni gestiti dai comitati di ‘veglia’ attorno alle rotonde principali della capitale. I raduni, le conferenze, le preghiere e l’emozione di aver vinto per la prima volta una battaglia simbolica col la Francia, Paese colonizzatore. L’evacuazione delle basi straniere francesi e americane è andata assieme alla creazione dell’Alleanza degli Stati del Sahel. Poi si annuncia la fuoriuscita di questi Paesi dal consesso degli Stati dell’Africa Occidentale, la CEDEAO. Quanto menzionato è stato scritto sulla polvere che il vento ha disperso perché nulla di nuovo suggerisce a chi non vuole più leggere.
La bandiera russa giace accanto a quelle dei tre Paesi del Sahel sopra menzionati. Arrivano armi, istruttori e forse pure militari russi. Si riaprono gradualmente le frontiere chiuse per l’applicazione delle sanzioni in seguito al golpe militare. Rimane ostinatamente chiusa quella col Benin che, assieme a quella della Nigeria, assicurano il passaggio di persone e beni indispensabili a un Paese come il Niger, senza sbocchi sul mare. Persino l’oleodotto di due mila kilometri, appena terminato, è reso inagibile per il contenzioso tra i due Paesi e le minacce da parte dei gruppi armati ‘islamisti’. Questi ultimi perpetrano azioni criminali che hanno costituito uno dei pretesti, se non il principale, per giustificare i colpi di stati nei Paesi citati. Una volta di più, in settimana, sono stati dichiarati tre giorni di lutto nazionale. Quanto accaduto è raccontato dalla polvere che il vento accarezza e che pochi, ormai, desiderano ascoltare.
Il confinante Burkina Faso, secondo il rapporto sull’indice del terrorismo globale del 2024, è il Paese più colpito nel mondo dal terrorismo. Con circa 2000 morti e 442 feriti il Paese ha superato l’Afghanistan come epicentro del terrorismo. Negli altri Paesi le cose non sono molto migliori e la regione delle ‘Tre Frontiere’, Niger, Mali e Burkina Faso, continua a essere uno spazio di violenza e di morte. Torna vero un proverbio del posto che afferma … ’quando la casa del tuo vicino è in fiamme corri a bagnare la tua barba’… Ciò a significare la fragilità e il rischio di contaminazioni terroriste tra Paesi vicini. Rifugiati e sfollati si contano a centinaia di migliaia mentre sono milioni le persone in stato di carestia o in vulnerabilità alimentare. Dovremmo aggiungere le migliaia di migranti, imbarcati in convogli, espulsi e poi detenuti da un sistema umanitario impreparato a tale sfida. Quanto tradito è polvere che migra col vento e non trova occhi che vogliano indignarsi.
E’ passata la festa della Tabasky, memoriale del sacrificio del padre nella fede Abramo. I capri e altro ovini sono stati sacrificati dal popolo e, forse, come il popolo. I prezzi dei generi alimentari di prima necessità hanno raggiunto livelli proibitivi per le famiglie il cui reddito è lasciato nelle mani del Dio che il Sahel ha preso in ostaggio. Trovare un lavoro in questo contesto è una sfida permanente alle raccomandazioni e affiliazioni politiche diverse da quelle del regime precedente. Spenta la vita politica dei partiti rimane quanto della società civile si identifica con la narrazione dominante che il potere tiene ancora in vita. Si fanno preghiere e ci si sposa quando possibile. Ai semafori non mancano i vigili che rappresentano la normalità del traffico e, ignari della situazione politica di impasse nel Paese, i cammelli, gli asini e i ruminanti hanno la priorità nella circolazione. Quanto vive il Paese è polvere gettata nel vento che le prossime piogge trasformerà nel fango dove i bambini, giocando, insegnano ai grandi la pace perduta.
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La sabbia e le religioni del Sahel
Niamey, luglio 2024. Col tempo ci si abitua all’appello del muezzin che, tramite l’altoparlante di mattina presto, invita senza sconti i fedeli alla preghiera. Poi, corrente elettrica permettendo, altri altoparlanti si aggiungono e, per qualche minuto, il silenzio abitato della notte si accende di un mescolio inedito di voci, canti e sonorità. Si prega durante il giorno e poi la sera, nelle moschee e lungo le strade laddove esso è possibile e talvolta impossibile. Le feste musulmane ritmano l’anno civile e all’università statale i luoghi e i tempi di preghiera sono ormai parte del paesaggio accademico.
Il potere, qualunque sia la forma per esercitarlo ha, da sempre, assunto connotati religiosi. Dalle dittature alle monarchie messianiche passando per le repubbliche presidenziali, le nuove autorità sono in genere confermate da Dio tramite i capi religiosi che presumono di rappresentarlo. Quanto alla democrazia, nella quale il popolo sembra sovrano, essa prende i contorni di una divinità in cerca permanente di un piedistallo per giustificarsi.
Non parliamo poi delle rivoluzioni che non raramente rivendicano l’ineluttabile direzione della storia e che pertanto assumono un’aura divina o quantomeno sacralizzata. I sacrifici umani appaiono come strumento e mezzo naturale perché si possa portare a compimento quanto iniziato, spesso in modo casuale. Sembra difficile, agli umani, evitare di prostrarsi dinnanzi agli dei, mutevoli, che caratterizzano ogni epoca dell’umana avventura.
In città si notano le croci delle numerose farmacie e quelle, più nascoste, delle chiese e dei templi. I campanili sono di modesta dimensione e le campane, dove esistono, non suonano neppure il giorno di Pasqua. Quanto alle croci che si portano al collo appaiono e scompaiono secondo le circostanze. Accade infatti che alcuni tassisti rifiutino di imbarcare coloro che le pongono senza troppa discrezione. Indossare un nome che suona come cristiano può creare problemi sul lavoro e a scuola.
Il nazionalismo, che si offre allo sguardo e commento dei politici sotto varie diciture, secondo i contesti, i linguaggi e le applicazioni, si apparenta al sovranismo e, occasionalmente al fascismo. In questi casi è lo Stato che si arroga prerogative divine di vita e morte sui cittadini e che, naturalmente, rivendica il diritto esclusivo di decidere tra verità e menzogna a seconda dell’interesse del momento. Il Leviatano, animale mitico può costringere i sudditi ad abbandonare la propria sovranità in cambio di sicurezza e protezione. Ciò è quanto scrisse a suo tempo il filosofo Thomas Hobbes in un contesto di guerre senza fine tra religioni. Il Leviatano rappresenta lo Stato che si prende per Dio.
Le credenze delle religioni ‘tradizionali’ spesso vivono nell’ombra ma sono vive e vegete. Appaiono e scompaiono a seconda degli avvenimenti cruciali della vita personale e sociale. Malattie, ricerca di un lavoro, matrimonio da definire, decessi da evitare e, specie nei processi elettorali, riemerge quanto rimane sommerso nei tempi ordinari. Consultazioni di tipo magico, mistico, soprannaturale ed ecco che il mondo invisibile ritrova tutta la sua corposa e inevitabile forza persuasiva. Anche in questo caso i sacrifici di animali o umani sono una puntuale e rituale realtà.
Poi abbiamo, naturalizzato, il sistema capitalista, neoliberista, finanziarizzato all’estremo. Tutto e tutti trasforma in mercanzia vendibile sul mercato. Si tratta di una religione nella quale il dio è il denaro e ciò che esso rappresenta, in chiave simbolica e fattuale, per rivestire di potere chi lo possiede e dal quale, in definitiva, è posseduto. Dimmi chi adori e ti dirò chi sei, scrisse il saggio.
Quanto al ruolo della violenza, che si presenta come pervasiva in ogni fase della storia raccontata dei popoli, tramite le vittime,i perpetratori e i martiri, contribuisce a non lasciare abbandonati al loro destino i cimiteri. Le fosse comuni non sono così rare come potrebbe sembrare. Coloro che fabbricano, commerciano e acquistano armi, sono parte integrante del sistema religioso che ha definitivamente assunto la violenza, specie in ambito politico, come sacra.
Infine la sabbia, presenza umile e feriale, ricorda a tutte le religioni, rivelate, inventate o supposte, che tutto parte e tutto torna a lei. A suo modo lei ironizza sui piedistalli, statue, imperi, dominazioni, guerre, templi e palazzi. Sa molto bene come vanno a finire coloro che si prendono per dei o coloro che li fabbricano a loro immagine e somiglianza. Nelle occasionali tempeste che tutto avvolgono nel suo nome, lei contesta le velleità di coloro che svendono la vita e la dignità per darsi un nome eterno. Lei è come uno specchio nel quale si riflette la vanità del prestigio, dei progetti e delle parole che, come polvere, il vento disperderà.
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Silenzi, Sussurri e Grida dal Sahel
Niamey, luglio 2024. C’è la ‘cultura del silenzio’ che fa tacere per consuetudine ciò che dovrebbe essere invece raccontato. Il silenzio, unico e non riproducibile, dei cimiteri. Il silenzio dei più poveri che nessuno si prende la briga di ascoltare. Il silenzio dei padri, in genere incompreso e quello delle madri in attesa. Il silenzio dei complici di iniquità. Il silenzio di chi acconsente a ciò che la maggioranza ha deciso. Il silenzio di chi non vuole esporsi per evitare di incorrere in problemi, critiche o persecuzioni. Il silenzio dell’auto censura di chi dovrebbe scrivere e informare sugli abusi del potere. Il silenzio dei profeti e dei veggenti cooptati dal regime della narrazione unica della verità. Il silenzio degli uomini di Dio che hanno smarrito l’origine e la sacralità della parola. Il silenzio che accoglie e custodisce il dolore della dignità ferita. Il silenzio di chi non ha più nulla da dire perché smarrito dall’abuso della violenza senza un volto. Il silenzio delle lacrime di chi ha visto tradite le speranze di un mondo nuovo.
C’è il sussurro della brezza del mattino che si avvolge attorno alle preghiere abbandonate nelle mani dei mendicanti. Il sussurro delle parole che tessono ogni giorno una realtà differente. Il sussurro della paziente attesa della pace e la giustizia che tardano ad arrivare. Il sussurro di chi non ha dimenticato di stupirsi della bellezza nel sorrriso di un bimbo. Il sussurro della pioggia che feconda la terra e il seme sparso. Il sussurro del fiume che scorre verso il mare. Il sussurro del segreto di una vita vissuta in pienezza. Il sussurro del passato che suggerisce al futuro come inventare il presente. Il sussurro dei desideri mai formulati e di quelli dimenticati. Il sussurro dell’utopia che resiste alla tentazione di scomparire. Il sussurro dei cospiratori che non abbandonano la follia di un mondo ancora da scoprire. Il sussurro di un’amicizia sincera. Il sussurro del vento che inciampa tra gli i rami degli alberi. Il sussurro, lieve, di una verità liberata dalla paura.
Ci sono, infine, le grida. Le tre grida che risuonano come cori di canti lontani offerti a chi ha gli occhi e orecchie per ascoltare. Le grida di chi è stato forzato a scappare dalla propria terra e dalla propria patria che è la lingua. Le grida di che cerca un rifugio e si trova, di colpo, senza le radici che lo sostenevano per dare una direzione al suo cammino. Le grida di chi, cercando lontano ciò che non trovava accanto, ha smarrito l’orizzonte del suo destino. Le grida di coloro che sono minacciati, feriti, uccisi e abbandonati da chi dovrebbe proteggerli. Le grida di coloro che sono buttati nel deserto o che il mare avvolge e copre per sempre. Le grida dei naufraghi e quelle di coloro che le politiche e le ideologie dominanti hanno estromesso dalla storia. Le prime grida sono di ribellione per una società che ha tradito quanto aveva loro promesso. Le seconde grida sono quelle della sofferenza generata dall’ingiustizia, la violenza e la menzogna. Le ultime grida, infine, sono quelle di un parto che fa nascere un mondo ancora tutto da creare.
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L ‘ultima rivoluzione degna di questo nome
Niamey, luglio 2024. Uno spettro si aggira nel mondo e non è quello annunciato da Karl Marx et Friedrich Engels nel loro ‘Manifesto’. Non si tratta né del comunismo né del proletariato a esso ideologicamente legato che avrebbe conquistato definitivamente il potere. Lo ‘spettro’ che attraversa il mondo odierno non è altro che la mobilità umana. Migranti, rifugiati, sfollati, turisti, operatori economici e culturali solcano lo spazio conosciuto e non ci sono ambiti, zone o luoghi che ne siano immuni. Ad ognuno, peraltro, la sua mobilità e va da sè che queste non siano coincidenti. Quelle considerate ‘pericolose’ sono quelle rappresentate in particolare da migranti e rifugiati.
Questi ultimi, da soli, in compagnia e soprattutto con pochi mezzi a disposizione riescono, spesso a loro insaputa, a creare varchi nei sistemi di contollo, nelle geografie, i governi e le politiche di contenimento o quelle delle migrazioni ‘scelte’. Operano cioè una destabilizzazione della realtà costruita dai potenti a loro immagine e somiglianza nel perpetuare l’attuale segregazione del mondo.
‘Io sono la guerra’, singhiozzava una signora esule dalla Repubblica Democratica del Congo dopo aver subito violenze nel corpo e nello spirito. Mohammed invece mostra con delicatezza alcune immagini registrate sul telefono che raccontano di gratuite violenze nel suo Paese di origine, la Somalia. Lui e la signora sono allo stesso tempo il messaggio, l’esilio e la sofferenza scolpita sui volti. Ciò trasforma la loro vita in una drammatica metafora del nostro tempo.
Sono loro che confiscano le frontiere, aggirano i muri, si feriscono sui fili spinati, scompaiono nei deserti e affogano nei mari. Con paziente fermezza intessono anni prima di raggiungere quanto il destino non aveva contemplato per loro. Appaiono, in questo fragile momento storico, sconosciuti protagonisti dell’unica rivoluzione in atto nel pianeta. Non figurano pertanto casuali i tentativi, destinati al fallimento, di bloccare, fermare, dirottare, negoziare o delocalizzare la destinazione del loro viaggio. Sanno che, come in ogni rivoluzione degna di questo nome, avranno incomprensioni, sofferenze e martiri.
Ciò che portano al mondo è troppo prezioso per essere abbandonato lungo la strada. Sanno che ci si può consolare della perdita del passato ma non di quella del futuro.
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La porta e l’albero dell’indipendenza
Niamey, 26 luglio 2024. L’attuale capo di stato ha decretato Il 26 luglio come nuova festa nazionale del Niger. Ciò per sottolineare la cesura tra un prima e un dopo l’ultimo colpo di stato militare che ha spodestato il presidente Mohammed Bazoum, a tutt’oggi detenuto nel palazzo presidenziale. Le festività, artisticamente orientate al ricupero delle culture tradizionali, durerà sino alla celebrazione delle festa nazionale, il prossimo 3 agosto. Dal 1975 c’è l’usanza, per l’occasione, di piantare un albero come simbolo e contributo a rallentare l’avanzata del deserto. Si celebra, in qualche modo, l’Indipendenza dall’indipendenza per una nuova dipendenza, quella della ‘sovranità nazionale’. Il Paese è infatti indipendente dal giogo coloniale francese dal 1960, l’anno delle indipendenze per 14 Paesi dell’Africa subsahariana francese. Si aggiunsero il Congo Belga, la Somalia italiana e la Nigeria britannica. L’Etiopia, la Liberia e la Guinea avevano già gustato il frutto, dolce e amaro, della sovranità.
I militari che hanno preso il potere negli stati che hanno scelto di formare ‘l’Allenza del Sahel’, il Mali, il Burkina Faso e il Niger, hanno affermato di aver risposto alle aspirazioni dei rispettivi popoli, stanchi dell’insicurezza, la miseria e la pessima conduzione politica. La modalità scelta dagli autoproclamati capi di stato e secondo il contesto dei Paesi citati è quella di unire i popoli attorno al valore della ‘sovranità nazionale’, come collante e nuova religione del momento. Non è dunque casuale che, in questo spazio saheliano, si punti al ricupero di un passato mitizzato, per così dire ‘imperiale’ per rifondare la sovranità. E’ questa la ‘porta’ che vuole chiudere con 60 anni di ‘democrazia occidentale’ non adatta ai popoli del Sahel e aprire al passato delle tradizioni in grado di rifondare una ‘democrazia africana del Sahel’. Non appare dunque casuale, se questo progetto di ricostruzione politica vuole realizzarsi, la creazione e il mantenimento ‘aggiornato’ di un nemico.
Siano i gruppi armati terroristi, il neocolonialismo, l’imperialismo, l’insieme degli statii dell’Africa occidentale che hanno applicato le sanzioni dopo il colpo di stato, le basi militari straniere sul posto e, in genere, quanti non sono d’accordo con questo progetto di ingegneria politica. Il nemico è insostituibile e varierà nel tempo, nello spazio e a seconda delle necessità del momento. I militari hanno giustificato la presa di potere adducendo come motivi principali la lotta all’insicurezza, la situzione economica e la pessima e corrotta gestione del potere politico. La ‘Salvaguardia della Patria’, missione che il Consiglio Nazionale dei militari si è data, si è gradualmente tradotta nella riappropriazione dell’identità profonda dei popoli del Sahel. Il rischio di assumere, tradurre (o tradire) le attese dei popoli è sempre molto alto quando ci arroga il diritto di rappresentarlo o manipolarlo. Una porta che si chiude e che si apre al passato per illuminare il presente come una sfida.
Esso è costituito, come sempre, dall’ostinatezza della realtà, puntuale e inesorabile nella sua perentorietà. Dal momento del colpo di stato alla data, le persone uccise (militari e civili) si contano a centinaia. Si prende atto che in alcune zone delle ‘Tre Frontiere’ (Mali, Burkina, Niger) lo stato è inesistente e la legge è dettata piuttosto da gruppi armati che manipolano la religione per fini di potere. Il numero di profughi e sfollati non è affatto diminuito. Migliaia di contadini non potranno lavorare la terra e questo aumenterà il numero delle persone in vulnerabiltà alimentare o in carestia che già si conta a milioni. Le condizioni di vita dei cittadini del Paese si sono ulteriormente deteriorate. Per le famiglie assicurare il cibo, la salute, l’educazione e gli affitti, rappresenta una scommessa alla sopravvivenza. Trovare un lavoro decente è come osare intraprendere il percorso di un combattente. La criminalità spicciola e quella più organizzata fanno ormai parte del quotidiano della città.
Di tutto ciò, nella settimana festiva, probabilmente si dirà poco o nulla. Le danze tradizionali e gli slogans passeranno in fretta. Diceva il saggio, a ragione, che l’albero (della sovranità) si riconosce dai suoi frutti.
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Noi, Popolo nigerino sovrano
Niamey, 2 agosto 2024. Comincia con questa affermazione il preambolo dell’ultima Costituzione del Niger prima che essa fosse sospesa dal colpo di stato militare del 26 luglio dell’anno scorso. Si trattava della carta fondamentale della settima repubblica, adottata il 25 novembre del 2011. Documento nato dopo un anno di transizione seguito a un precedente colpo di stato militare. Il primo articolo, riguardante lo Stato e la sovranità, ricorda che lo Stato del Niger è una Repubblica indipendente e sovrana. Alla veglia della celebrazione dell’anno 64 dell’indipendenza, il prossimo 3 agosto, può essere interessante tentare di mettere in relazione le due proprietà citate. La sovranità nell’indipendenza e l’indipendenza nella sovranità.
Entrambe le caratteristiche citate, da interpretare in chiave dinamica e creativa, si fondano e realizzano ciò che potremmo chiamare la ‘dignità’. In nome della dignità della persona e del popolo, si parlerà di indipendenza come condizione non eludibile alla pratica della sovranità. La dignità è inerente a ogni persona umana. Alla Repubblica incombe il dovere di riconoscerla, proteggerla e promuoverla. Essa precede lo Stato che dovrà creare le condizioni per renderla effettiva e operativa. Ciò accade di solito tramite il diritto che, attraverso le leggi, ha lo scopo di rimuovere quanto potrebbe impedirne l’esercizio. Solo che, lo sappiamo, le leggi funzionano solo se il popolo veglia a non farsi rubare la dignità.
I ladri di dignità esistono davvero e molto spesso si spacciano per benefattori del popolo. Il colonialismo e il neo colonialismo ne sono un esempio eclatante. Il fascismo, il militarismo, la trasformazione del mondo in merci, i mezzi di comunicazione vassalli del denaro, le elites religiose vendute al potere e altri simili amenità scippano la dignità del popolo. Ecco perché il primo compito di ogni persona e comunità dovrebbe consistere nel far crescere la consapevolezza dell’inalienabile dignità di ogni essere umano. Ciò implica dunque il dovere di creare spazi e ambiti nei quali la dignità sia promossa e, quando necessario, difesa. Rivendicare la dignità perduta e ritrovata passa attraverso la cittadinanza attiva del popolo.
L’articolo 4 della soppressa Costituzione ricorda che la sovranità nazionale appartiene al Popolo e che nessuna frazione dello stesso, nessuna organizzazione o individuo può attribuirsene l’esercizio, neppure i militari. Il popolo, ricorda l’articolo 6 della Costituzione, esercita la sua sovranità per mezzo dei rappresentanti eletti e per referendum. Il collante tra l’indipendenza del Paese e la sua Sovranità passa per la dignità. Ciò naturalmente implica che le condizioni di vita dei cittadini siano degne, Cibo, casa, lavoro, salute, educazione e partecipazione politica sono ambiti non negoziabili se si assume come compito il riconoscimento della dignità. Dimenticare questo significa mistificare sia l’indipendenza che la sovranità. Rimarrebbe solo il vuoto di parole buttate nel vento che la polvere seppellirà nel cimitero delle promesse tradite.
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La febbre dell’oro nel Sahel
Niamey, agosto 2024. Appena qualche hanno fa si parlava con enfasi di ‘diamanti di sangue’. Ciò in riferimento al ruolo giocato da questo simbolo di bellezza, prestigio e perennità nella nascita, lo sviluppo e la perpetuazione dei conflitti armati. Alcuni di questi, grazie tra l’altro alla facilità di commercio e trasporto, avevano contribuito a finanziare le ribellioni armate in Sierra Leone, Liberia e Angola. Anche la vendita di tronchi di legno pregiato aveva giocato un ruolo simile seppur in minore misura. In effetti il controllo delle transazioni del legname sembrava più facile e non si è mai parlato seriamente di questo commercio. Charles Taylor, uno dei ‘signori’ della guerra in Liberia, aveva utilizzato entrambe le risorse al tornante del millennio!
Lo spazio saheliano è ricco di vari minerali e tra questi spicca lo sfruttamento dell’oro. Assieme alle armi, alla droga e alle persone, secondo vari osservatori, contribuisce in modo rilevante al finanziamento dei ‘gruppi armati terroristi’, i GAT, come vengono talvolta definiti. Il fenomeno è conosciuto, studiato eppure, stranamente, non appare alla luce la dicitura ‘oro di sangue’, eppure proprio di questo si tratta. Con lo scopo di finanziare i gruppi armati continuano i rapimenti di persone , specie nelle zone di frontiera con la vicina Nigeria...Ma è l’oro, ormai, a farla da padrone.
L’oro, ‘nervo della guerra nel Sahel’, rileva la rivista ‘l’opinion’ che sottolinea quanto le giunte al potere, i gruppi armati e jihadisti si affrontino per il controlle delle miniere d’oro nello spazio sahelo-sahariano. ‘La corsa all’oro costituisce una nuova manna finanziaria e opportunità di recrutamento per i gruppi armati’, si può leggere nel recente rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, UNODOC. Le multinazionali che sfruttano l’oro del Sahel sono essenzialmente australiane, canadesi, russe e sudafricane, associate ad attori nazionali, Una parte importante dell’oro del Sahel usa circuiti clandestini e passa tramite i libanesi e altri agenti basati in Svizzera, Turchia, Dubai, Singapore e Cina.
Anche in seguito alla desolazione e distruzione della Libia a opera dell’Otan, nel 2011, armi, gruppi bel formati al terrorismo e finanziati da poteri non troppo occulti, hanno seminato morte e distruzione nel Mali e poi nei Paesi adiacenti, il Burkina Faso e il Niger. Quanto alla Nigeria l’impatto nefasto della setta chiamata ‘Boko Haram’, è cominciato ancora prima, provocando l’esodo di milioni di persone al’interno e all’esterno del Paese. Il ruolo poi, di gruppi come Al Qaeda e lo Stato Islamico, ha fatto del Sahel una delle nuove frontiere del terrorismo internazionale. L’oro ha il colore di guerra.
‘Finché c’è guerra c’è speranza’, recitava così il titolo di un film apparso sugli schermi nel 1974. Un’affermazione a prima vista paradossale ma non quanto possa sembrare. Secondo l’istituto per la Pace, basato a Stoccolma in Svezia, praticamente tutti gli stati nei vari continenti hanno aumentato le spese militari. Ciò è vero anche per i Paesi del Sahel più colpiti dalla violenza armata ‘terrorista’. Ciò ha significato, tra le altre cose, un graduale spostamento del baricentro del potere. Passare dal potere politico a quello ‘militare’ non è stato difficile. I colpi di stato dei militari nel Sahel non sono casuali.
La ‘speranza’ della guerra riguarda, evidentemente i gruppi armati, i fabbricanti e i commercianti d’armi e l’apparato militare che, anche grazie a ciò, può giustificare la conquista e la permanenza al potere. Il perdurare del conflitto armato è ben visto anche da quei giovani che, marginalizzati e frustrati dall’esclusione sociale, potranno trovare nelle armi un’identità e posizione che difficilmente avrebbero raggiunto in una situazione ‘normale’. E, infine, la continuità della guerra non può che favorire le imprese che patteggiano coi gruppi armati e, come sempre, il mondo umanitario.
Presto o tardi bisognerà tentare di capire fattori esogeni ed endogeni di questa guerra quotidiana. Ideologhi, mandanti, esecutori e condizioni che continuano a favorire la perpetuazione della violenza armata in questo straordinario spazio umano che nel passato, assieme a conflitti armati, jihad, imperi, colonialismi e esodi, ha saputo creare ambiti di creativa convivialità. Sahel significa in arabo ‘riva, sponda’, riferito naturalmente al grande ‘mare’ chiamato Sahara. Sotto certe condizioni il Sahel potrà offrire una ‘riva d’oro’ differente alla nobile popolazione che l’abita. La prima di queste è la verità.






































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