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liberazione

Contro lo statalismo liberista

di Emiliano Brancaccio

General motors e Chrysler reclamano 40 miliardi di dollari dall’Amministrazione Obama per non fallire, e proprio al fine di ottenere gli agognati fondi pubblici annunciano quasi 50.000 tagli ai posti di lavoro, la più grande ondata di licenziamenti nella storia americana. E’ proprio il caso di dire che viviamo in tempi gattopardeschi, nei quali il liberismo viene messo sotto accusa solo dalla cintola in su.

Da un lato viene ormai da più parti invocata la protezione statale di singoli settori produttivi o addirittura il passaggio da mani private a mani pubbliche di pezzi importanti del capitale finanziario e industriale. Ma dall’altro lato non abbiamo assistito al minimo ripensamento riguardo ai processi di erosione dello stato sociale o alla completa soggezione alle leggi del mercato nelle quali versa la grande maggioranza dei lavoratori subordinati. Senza nemmeno accorgercene, siamo insomma piombati nell’epoca dello statalismo liberista, un ossimoro niente affatto rassicurante con il quale saremo costretti a misurarci per un tempo non breve.


Cosa possiamo ragionevolmente attenderci da questa nuova combinazione di attente premure pubbliche verso le esigenze del capitale privato e di sempre più feroce indifferenza verso i destini del lavoro? La risposta più probabile è che ci troveremo di fronte a un clamoroso fallimento politico. Cerchiamo di capire il perché indagando sulle forze reali che alimentano questa crisi. E’ di moda a questo riguardo una interpretazione moralistica del tracollo economico, che individua la causa di tutti i mali nel greed, la famigerata avidità dei banchieri e degli speculatori. Ne ha parlato Obama, e con lui molti altri. Questa interpretazione in un certo senso è ovvia e quindi sembra in apparenza corretta. Essa tuttavia non tiene conto di un fatto: per quanto spesso ripugnanti nei loro comportamenti e stili di vita, questi manager hanno quasi sempre agito nel pieno rispetto di due leggi, quella dello stato e quella del profitto. Non dovremmo dimenticare, infatti, che le truffe sono state una goccia nel mare della speculazione legalizzata di questi anni. Inoltre bisognerebbe tener presente che mantenevano le posizioni di comando solo i manager disposti a condurre i rendimenti del capitale al passo con le esplosive medie del mercato. Dunque, se vogliamo realmente capire la natura di questa crisi, non è banalmente di greed che dovremmo parlare ma del capitalismo e delle sue contraddizioni interne. In particolare, occorre comprendere che l’odierno fallimento del capitale è una diretta conseguenza del suo enorme successo nella strategia degli ultimi decenni, finalizzata all’annientamento politico del lavoro. Non è un caso, al riguardo, che questa può essere definita la crisi di un mondo di bassi salari. Per una potente miscela di progresso tecnico e di intensificazione dello sfruttamento, in questi anni abbiamo assistito a un notevole incremento della capacità produttiva dei lavoratori, senza però che la loro capacità di spesa aumentasse di pari passo. I salari direttamente erogati dalle imprese sono rimasti al palo, e anche i redditi indirettamente percepiti tramite lo stato sociale hanno subito una progressiva erosione. Ma se i lavoratori non assorbono le merci che producono il sistema alla lunga finisce in stallo e va in picchiata. Se non si parte da questa evidenza la crisi non troverà una soluzione, e magari passeremo di regime in regime, dallo statalismo liberista dei nostri giorni al liberismo neofascista di domani, in una sempre più oscura spirale di involuzioni sociali e politiche.

Esiste un’alternativa alle funeste prospettive che si affacciano all’orizzonte? Il governo tedesco ha annunciato ieri di volersi dotare del potere di nazionalizzare le banche espropriando, se necessario, gli azionisti privati. Si tratta di un passo nella giusta direzione ma non bisogna illudersi. Per quanto razionali, questi aggiustamenti del sistema rientrano ancora nella logica perversa dello statalismo liberista, e quindi non saranno in grado da soli di garantire il superamento della crisi. Una soluzione credibile, che possa realmente scongiurare una Seconda Grande Depressione, è allora questa: lo stato non deve più limitarsi a fungere da prestatore di ultima istanza per il capitale privato, ma deve diventare un creatore di prima istanza di nuova e stabile occupazione. Di prima istanza, si badi, è cioè non per fini di mera assistenza, ma per la produzione di quei beni collettivi che dovrebbero ritenersi fondamentali per il progresso sociale e culturale dell’umanità, e che da sempre sfuggono alla striminzita logica dell’impresa privata.

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