Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

antropologiafilosofica

L’orizzonte delle scelte nell’epoca del coronavirus

di Andrea Zhok

sebastian mattaUn recente articolo dell’Economist (“A Grim Calculus” 02/04/2020) ha sollevato una questione cruciale, questione che circola in forma inesplicita in numerose discussioni politiche in epoca di Covid-19. La domanda che muove l’articolo è sostanzialmente la seguente: “Per quanto tempo saremo in grado di considerare la vita di ogni singolo essere umano, di qualunque età e condizione fisica, al di sopra di ogni considerazione economica?” Possiamo permetterci l’atteggiamento morale di “non dare un prezzo ad una vita?” Dopo tutto “ogni scelta ha un costo” e “il costo del distanziamento potrebbe superare i benefici”.

Gli interrogativi esplicitati dall’Economist sono con noi dall’inizio della crisi. Li abbiamo visti incarnati nelle prese di posizione iniziali di diversi paesi (Usa, UK, Olanda, Svezia) e li continuiamo a sentire come minoranza rumorosa nelle discussioni sui social media.

La forma dell’argomento dell’Economist è caratteristica, e merita un’attenta riflessione. Essa contrappone due tesi, che appartengono a due grandi tradizioni della filosofia morale. Da un lato abbiamo la tesi di origine kantiana per cui nel mondo si devono distinguere le cose che hanno un prezzo da quelle che hanno una dignità. Gli esseri umani, in quanto dotati di ragione hanno una dignità, non un prezzo: essi appartengono per Kant ad una dimensione a sé stante, il cui valore non può essere espresso in maniera comparativa. Gli esseri umani sarebbero ‘fini in sé’ e non dovrebbero essere mai considerati mezzi per fini ulteriori. Questo sottrarrebbe la dignità umana ad ogni considerazione in termini di costi-benefici.

Print Friendly, PDF & Email

il rasoio di occam

“Se pur c’era di questi untori”. Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari

di Luigi Cavallaro

Ciò che vien proposto con il nome di «paradigma immunitario», punto d’annodamento delle semantiche del diritto come della politica, della tecnologia come della medicina, altro non è che il vestimento ideologico dell'alienarsi della sovranità politica nel mercato concorrenziale: il quale ultimo concepisce il legame sociale soltanto nella forma di una indifferenza fra individui che poi rimangono soggiogati dall'interesse economico

filosofia e coronavirus3Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende.

(Leonardo Sciascia, La strega e il capitano, 1986.)

In tempi di pandemia, conviene tornare ai classici. Alla Storia della colonna infame, precisamente, e più ancora a quel magnifico prologo che ne sono il XXXI e il XXXII capitolo dei Promessi Sposi. Perché se aveva ragione Sciascia, quasi cinquant’anni fa, a dolersi che la Storia manzoniana fosse rimasto «un piccolo grande libro tra i meno conosciuti della letteratura italiana»[1], è possibile (e diremmo anche probabile) che questo misconoscimento, che non abbiamo motivo di dubitare perduri, non sia casuale.

La Storia, senz’altro questo si saprà, narra del processo che fu intentato a Milano, durante la tremenda pestilenza del 1630, nei confronti di due presunti “untori”, accusati di aver diffuso la peste «con venefizi e malefizi» e, per ciò, incredibilmente condannati a morte atroce. La credenza che la diffusione delle epidemie si dovesse a malfattori che le spargevano ad arte tra le popolazioni è in effetti antica, ma si prolunga alla nostra modernità: lo stesso Sciascia, chiosando la Storia manzoniana, la attesta almeno fino alla pandemia di “spagnola”, che funestò particolarmente l’Europa alla fine del primo conflitto mondiale, e ne ascrive il periodico, virulento risorgere alla tendenza dei «cattivi governi» di far ricorso al «nemico esterno» quando si trovano ad affrontare situazioni che non sanno o non possono risolvere[2].

Ma più vicini che all’illuminista Sciascia noi ci sentiamo oggi al cattolico Manzoni: e Sciascia non ce ne vorrà se, per dirlo, abbiamo deliberatamente parafrasato parole sue[3].

Print Friendly, PDF & Email

coku

Lo Stato di Eccezione - spiegato breve

di Leo Essen

schmittSecondo la definizione, che risale a Bodin, la sovranità è il potere supremo, giuridicamente indipendente e non derivato. Questa definizione, dice Carl Schmitt (Teologia politica), impiega il superlativo «potere supremo» per indicare una grandezza reale, benché nella realtà dominata dalla legge di causalità non possa essere isolato nessun fattore singolo al quale un simile superlativo sia applicabile. Nella realtà politica, dice Schmitt, non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti.

Questa dimostrazione è stata prodotta da Spinoza. Secondo Spinoza (Hegel, Lezioni) il singolare è qualcosa di limitato. Il suo concetto dipende da altro, non esiste per se stesso come qualcosa di vero. Con riguardo a ciò che è determinato, ovvero a ciò che, come dice Schmitt, è una grandezza reale, una forza effettiva, Spinoza stabilisce che «omnis determinatio est negatio». Dunque, è sovrano, ovvero assoluto, solo ciò che non è determinato, singolare. Sovrano è solo ciò che è universale. Solo questo è sostanziale e dunque veramente reale [reale, nel senso dato a questa parola della scolastica]. Al contrario, una forza, un potere, un’istituzione, un’unità territoriale, una burocrazia, eccetera, sono qualcosa di limitato, poiché sono cose singole. Ciò per cui una cosa è singola è negazione. Negazione vuol dire che essa è, solo in quanto è in relazione con ciò che non è – per esempio un'altra forza, un altro Stato, un’altra istanza, un’altra giurisdizione, eccetera.

Print Friendly, PDF & Email

blackblog

«Una nuova politica di classe»?

Note critiche sui discorsi attuali [*1]

di Thomas Meyer

1 Lotta- I -

È da un po' di tempo che la questione sociale e la politica di classe sono sempre più oggetto di discussione. Sebbene le situazioni sociali ecc. siano state discusse fin dal primo decennio del secolo, negli ultimi anni questo discorso ha ricevuto un nuovo impulso. Una delle ragioni, è stata l'elezione di Donald Trump, anche lui eletto dai "lavoratori" [*2][*3]. Inoltre, tutti questi discorsi sono motivati dal fatto che anche la "nuova destra" fa riferimento alla "questione sociale" (o a quello che la destra intende con essa): allo stesso modo in cui lo fa il Front National, o Björn Höcke che fa appello al "patriottismo solidale". Questo discorso è stato alimentato da varie pubblicazioni, in particolar modo dal libro di Didier Eribon, "Ritorno a Reims". [*4]

È vero che per molto tempo la questione sociale è stata del tutto ignorata da vasti settori della sinistra, che aveva smesso di farne un argomento. Questo vale in particolare per la sinistra postmoderna, la quale ha rinunciato a qualsiasi pretesa di verità, attribuendo il totalitarismo a qualsiasi "grande teoria", e considerando tutto come semplicemente un discorso, come un gioco del linguaggio e, pertanto, non era in condizione di poter fare un'analisi attualizzata del presente. Il postmodernismo, non solo ha reso apatica la sinistra, ma con il collasso del blocco dell'Est ha anche portato ad una paralisi permanente. Le reazioni al 1989 sono state di due tipi: o una resa incondizionata, oppure un «continuare così» - in quello che è il passaggio socialista - come se non fosse successo niente. Una crisi del capitalismo, un limite interno alla valorizzazione del valore non poteva esserci! [*5].

Print Friendly, PDF & Email

antiper

Uno si divide in due

di Alain Badiou

In Il secolo, Cap. 6, 7 - aprile 1999

1divides2Il secolo, dunque, non è in alcun modo un secolo di “ideologie” nel senso dell’immaginario e delle utopie. La sua determinazione soggettiva principale è la passione del reale, di ciò che è immediatamente praticabile qui e ora. Abbiamo dimostrato che l’importanza della finzione non è che una conseguenza di tale passione.

Che cosa dice il secolo, a proposito del secolo? Che, in ogni caso, non si tratta del secolo della promessa, ma del compimento. È il secolo dell’atto, dell’effettivo, del presente assoluto, non quello dell’annuncio e dell’avvenire. Dopo millenni di tentativi e di insuccessi, il secolo vive se stesso come il secolo delle vittorie. È al secolo precedente, all’infelice romanticismo del xix secolo che gli attori del xx riservano il culto del tentativo vano e sublime, e quindi l’asservimento ideologico. Il xx dice: basta con i fallimenti, è l’ora delle vittorie! Questa soggettività vittoriosa sopravvive a tutte le apparenti disfatte, in quanto non è empirica, ma costituente. La vittoria è il motivo trascendentale che organizza il fallimento stesso. Uno dei nomi di tale motivo è “rivoluzione”. La rivoluzione d’Ottobre, le rivoluzioni cinesi e cubana, e poi le vittorie degli algerini e dei vietnamiti nelle lotte di liberazione nazionale valgono tutte come prova empirica del motivo e sconfiggono i fallimenti, riparano i massacri del giugno 1848 o della Comune di Parigi.

Il mezzo della vittoria è la lucidità, teorica e pratica, nei riguardi di uno scontro decisivo, di una guerra finale e totale. Dal fatto che tale guerra sia totale deriva che la vittoria sia veramente vittoriosa.

Print Friendly, PDF & Email

il rasoio di occam

Quale Karl Polanyi?

di Michele Cangiani

Negli ultimi anni, è potentemente ripresa a livello scientifico la discussione sull'eredità di Karl Polanyi. Ma la maggior parte dei suoi interpreti contemporanei elude la questione, fondamentale per lui, delle caratteristiche più generali che distinguono la società contemporanea. È da qui, però, che bisognerebbe ripartire

KARL POLANYI 499Tempo di crisi

A un giornalista, che nel settembre 2007 gli chiedeva quale candidato preferisse per la presidenza degli Stati Uniti, Alan Greenspan, Presidente della Federal Reserve fino all’anno precedente, rispose che non importava molto: «Il mondo è governato dalle forze di mercato»[1]. Con quali risultati? Era in vista la crisi, che tuttora non si può dire superata. Teoria e pratica neoliberali restano in auge, benché dannose per l’ambiente umano e naturale e persino controproducenti rispetto al loro scopo “economico”. Continua, infatti, ad essere stentata e precaria la ripresa dell’accumulazione capitalistica, anche perché la svalutazione globale della forza lavoro e l’aumento della quota di reddito assorbita dalle rendite, finanziarie ma non solo, hanno un vantaggio immediato, ma poi un effetto deflattivo. Inoltre, la “crescita” sempre auspicata si scontra con quei «limiti dello sviluppo»[2], che non sono più una previsione, ma una realtà.

C’è chi parla di crisi ‘sistemica’ e chi ricorre a Karl Marx (Il Capitale, L. III) per spiegarla. Ben più assiduo riferimento viene fatto all’opera di Karl Polanyi, la fortuna del quale ha continuato a crescere nel tempo della nostra sfortuna, a partire dalla crisi degli anni 1970 e soprattutto con il successivo affermarsi della globalizzazione neoliberista.

La sensazione che i tentativi di superare le difficoltà in cui la nostra società si trova siano poco efficaci o addirittura controproducenti porta alla questione cruciale, rappresentabile con una metafora cibernetica: se correggendo la mira l’errore aumenta, è il sistema di puntamento che va modificato. Ma come? In The Great Transformation (1944)[3], Polanyi sostiene che la crisi del capitalismo liberale (ottocentesco, «vittoriano») era inevitabile e definitiva.

Print Friendly, PDF & Email

bollettinoculturale

La rivoluzione culturale e la depoliticizzazione

di Wang Hui

5c63525a24000093024ad040I commentatori cinesi sono stati curiosamente assenti dalle discussioni internazionali sugli anni Sessanta, nonostante il fatto che la Rivoluzione Culturale fosse così centrale in quel tumultuoso decennio. Questo silenzio, direi, rappresenta non solo un rifiuto del pensiero e della pratica radicali della Rivoluzione Culturale, ma una negazione dell'intero "secolo rivoluzionario" della Cina - l'era che si estende dalla Rivoluzione Xinhai nel 1911, che pose fine al dominio monarchico, a intorno al 1976. Il prologo del secolo fu il periodo che va dal fallimento del wuxu o della Riforma dei cento giorni nel 1898, avviato dall'imperatore Guangxu e dai suoi sostenitori, all'insurrezione di Wuchang del 1911, l'evento scatenante della Rivoluzione repubblicana; il suo epilogo fu il decennio tra la fine degli anni '70 e il 1989. Durante tutta questa epoca le rivoluzioni francese e russa furono modelli centrali per la Cina e gli orientamenti verso di loro definirono le divisioni politiche dell'epoca.

Il movimento per la Nuova Cultura del quarto periodo di maggio (circa 1915-1921), che respinse i valori confuciani a favore di una nuova cultura cinese basata sui principi democratici e scientifici dell'Occidente, sostenne la rivoluzione francese e i suoi valori di libertà, uguaglianza e fraternità ; i membri del Partito Comunista della prima generazione presero come modello la Rivoluzione Russa, criticando il carattere borghese del 1789. Dopo la crisi del socialismo e l'ascesa delle riforme negli anni '80, l'aura della Rivoluzione Russa diminuì e riapparvero gli ideali della Rivoluzione Francese. Ma con l'ultima caduta del sipario sul secolo rivoluzionario della Cina, il radicalismo delle esperienze sia francesi che russe era diventato oggetto di critiche. Il rifiuto cinese degli anni Sessanta non è quindi un episodio storico isolato, ma una componente organica di un processo de-rivoluzionario continuo e totalizzante.

Print Friendly, PDF & Email

dinamopress

Potenzialità, limiti e tecnoutopie dell’intelligenza artificiale

di Benedetto Vecchi

Un lungo saggio di Benedetto Vecchi pubblicato a novembre del 2019 e rilanciato in vista della giornata di studi, organizzata ESC Atelier, Libera Università Metropolitana ed Euronomade, dedicata all’autore e alla sua ricerca sul lavoro e sulla politica nel capitalismo contemporaneo 

42271822770 6d2a1d533f bMachine learning, predittività

Machine learningpredittività. Sono le due espressioni mutuate dall’intelligenza artificiale per indicare la radicalizzazione in atto del processo di automazione del lavoro umano. Non solo le attività manuali sono oggetto di indagine e di formalizzazione matematica da parte di ingegneri, fisici, matematici e manager per ridurre al minimo l’”interferenza” umana nel processo lavorativo; ormai anche le attività cosiddette cognitive – il lavoro impiegatizio ovviamente, ma processi di sostituzione macchinica di questo tipo di mansione sono già in corso da decenni –  vedono programmi informatici, banche dati e macchine in una azione tesa a “rimuovere” la presenza umana in alcune attività, servizi e lavori che hanno avuto sempre come componente imprescindibile la capacità umana di valutare e intervenire in situazioni ritenute sofisticate dal punto di vista cognitivo o complesse. Non si tratta infatti di automatizzare lavori a basso contenuto di abilità, bensì lavori ad alto contenuto di specializzazione, come recitano i manuali aziendali o le brochure dei programmi di intelligenza artificiale ormai venduti come fossero gadget consueti del panorama aziendale.

L’umano è però ancora oggetto di desiderio e ostacolo, limite da rimuovere, come sempre quando si tratta di parlare e affrontare il sistema di macchine nel regime del lavoro salariato. Oggetto di desiderio, perché senza la sua presenza, la sua capacità di sviluppare cooperazione e di agire in accordo con le caratteristiche della specie umana – siamo pur sempre un animale sociale, meglio un essere sociale – è elemento essenziale nella possibilità di immaginare e progettare macchine che sostituiscono abilità umane.

Print Friendly, PDF & Email

asimmetrie

Perchè non possiamo non dirci sovrani

di Carlo Galli*

Trascrizione rivista dall’autore della prolusione alla conferenza Euro, Mercati, Democrazia 2019 – Decommissioning EU, svoltasi a Pescara nei giorni 26 e 27 ottobre 2019

carlo galli sovranità EMD 2019Buon pomeriggio a tutti. Devo parecchi ringraziamenti ad Alberto Bagnai, al presidente Ponti e a tutti coloro che hanno pensato che la mia presenza sarebbe stata utile, oltre che naturalmente a voi che siete qui ad ascoltare.

Io sono qui perché ho pubblicato un libro il cui titolo è Sovranità; libro relativamente facile, divulgativo, che nasce dal fatto che – come studioso, molto più che come politico – non mi sono per nulla sentito a mio agio con l’invenzione lessicale del termine «sovranismo» e con l’uso della parola «sovranista» come un insulto. E quindi ho messo in piedi una riflessione, il cui contenuto in parte adesso vi consegno. Dico «in parte» perché nel libro vi sono molti passaggi storici e filosofici che non è il caso di portare qui; però, alcune questioni è il caso di portarle per un obiettivo – l’obiettivo fondamentale che in questa fase della mia esistenza io mi pongo –: in questo Paese c’è una gravissima questione di egemonia culturale; detto in un altro modo, c’è una gravissima questione di conformismo.

La politica, se vorrà e saprà, potrà fare la sua battaglia, ma sicuramente la intellettualità italiana dovrebbe fare la propria e secondo me non la sta facendo – per una serie di motivi che non voglio neppure enumerare –. La cosa più importante oggi è fare passare l’idea che è possibile un diverso punto di vista sulle cose dell’Italia, dell’Europa e del mondo.

 

Ideologia

Un «diverso punto di vista», ad esempio, rispetto al fatto che già questa frase mi verrebbe contestata, perché potrebbe essere accusata di nascondere l’intento di far nascere e rinascere, inventare, una ideologia nell’epoca in cui le ideologie sono finite. Ora, questa non è l’epoca in cui tutte le ideologie sono finite.

Print Friendly, PDF & Email

tempofertile

Prabhat Patnaik, “Capitale monopolistico, allora ed ora”

di Alessandro Visalli

mb w p2014a002 resterai poli tela 70x100cmSulla Monthly Review del luglio 2016, l’economista indiano Prabhat Patnaik pubblica una interessante recensione[1] del classicissimo saggio di Paul Baran e Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico[2], del 1966. Un libro, come ricorda, che ebbe una enorme influenza sulla sua generazione (anche se lui stava studiando economia a Nuova Delhi) che cercava di comprendere il funzionamento del “sistema” da contestare. L’aspetto strettamente economico, sul quale si concentra l’autore, era che il testo, come i precedenti dei due autori[3], superava a sottovalutazione nella tradizione marxista del problema posto dalla domanda aggregata, e quindi della circolazione. In un certo senso incorporava, come aveva fatto già Kaleki[4], le intuizioni di Keynes al riguardo in una struttura marxista di analisi. Il superamento della Legge di Say, che implica necessariamente l’emergere della domanda come un problema (anziché come una variabile dipendente dell’offerta), era stato posto dallo stesso Marx, ma successivamente disinnescato dalla sua convinzione che le crisi debbano scaturire dall’interno del “laboratorio interno” del capitalismo, ovvero dai rapporti di produzione. A porre la questione della sovrapproduzione generale e permanente, e quindi dell’importanza e centralità della sfera della “riproduzione”, ovvero della “circolazione”, erano stati già la Luxemburg[5] e Bucharin[6], ma relegati ai margini della corrente principale del marxismo che Losurdo chiamerà “occidentale”[7]. Inoltre, c’era una carenza di analisi sull’equilibrio ed i passaggi tra questi in condizioni di carenza di domanda aggregata (cosa che porterebbe verso una concettualizzazione del “moltiplicatore” alla Keynes o alla Kaleki).

Print Friendly, PDF & Email

tempofertile

Intervista al prof. Patnaik: capitalismo e sottosviluppo

di Alessandro Visalli

Atilio Boron Jacobin ItaliaAncora su “Bollettino CulturaleFrancesco Barbommel intervista il prof Prabhat Patnaik (vedi anche qui, ndr), un noto economista marxista indiano che ha insegnato al Centro degli studi economici e della pianificazione della Università Jawaharial Nehru di Nuova Delhi dal 1970 al 2010, per ben quaranta anni. Ha anche fatto un’esperienza di amministrazione nel Consiglio di Pianificazione del Kerala e si è laureato e dottorato anche in filosofia ad Oxford. Nel 1969 fu attivo anche all’Università di Cambridge (Clare College) prima di rientrare in india nel 1970. Convinto critico delle politiche neoliberali, dopo la crisi del 2008 ha fatto parte di una commissione dell’Onu per raccomandare misure di riforma del sistema finanziario (con Joseph Stiglitz, Francois Houtart e Pedro Paez). Tra i suoi libri, “A theory of imperialism[1] e “Lenin and imperialism[2] o “The value of money[3], o diversi interventi su decine di riviste[4], o sul suo blog[5].

L’avvio dell’intervista si concentra sulla pianificazione nell’epoca di Nehru. Questi, con l’aiuto di Bettelheim, prese come riferimento il modello sovietico sforzandosi di costruire un forte settore pubblico da elevare come baluardo contro l’influenza delle multinazionali (come ovvio, in uscita dalla dominazione coloniale inglese) e di rendere il paese quanto più possibile autosufficiente. La spinta fu particolarmente diretta all’istruzione tecnica ed alla creazione di industrie di base. Ma fallì nella completa redistribuzione delle terre, e quindi nel rapporto con il grande capitale agrario che rimase dominante, insieme a quello medio “kulako”. Ciò ha finito per limitare il mercato interno e quindi per non creare condizioni per l’autosufficienza industriale.

Print Friendly, PDF & Email

pandora

La cultura tra economia e politica

G.Bottos, L.Mesini e F.Rustichelli intervistano Carlo Galli

Carlo Galli insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna ed è Presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Con questa intervista affrontiamo la questione del legame tra cultura, politica ed economia approfondendone alcuni aspetti: il rapporto tra cultura e mercato, le ricadute del neoliberismo sui modi di intendere la cultura, il ruolo degli intellettuali e la necessità di una cultura critica, i modi in cui si produce oggi l’analisi politica e le responsabilità delle classi dirigenti italiane nel declinare il triangolo cultura-politica-economia

Carlo Galli e1581764853268 700x340Con questa intervista vorremmo approfondire la questione dei nessi tra cultura, politica ed economia. Iniziamo col constatare come il nesso tra cultura e politica appaia oggi in crisi, mentre da più parti si pone l’accento sul legame tra cultura e mondo economico. Un rapporto che si declina sia in termini di ‘utilità’ della cultura – e quindi di giustificazione dell’investimento in cultura – sia di una concezione della cultura intesa come attività economica in senso stretto. Essa deve rivendicare una propria autonomia? Al tempo stesso sembra necessario che essa entri in relazione con queste sfere. Quali sono le forme specifiche in cui questo può avvenire?

Print Friendly, PDF & Email

voxpopuli

Intervista all’economista professor Prabhat Patnaik

di Bollettino Culturale

indian farmerjpgPrabhat Patnaik, nato a Jatani il 19 settembre del 1945, è uno dei principali economisti marxisti dell’India. Tramite una borsa di studio ha la possibilità di studiare al Daly College di Indore ed in seguito si laurea in economia al St. Stephen’s College di Nuova Delhi. Ad Oxford consegue il proprio dottorato per poi tornare in patria nel 1974 per insegnare, fino al pensionamento avvenuto nel 2010, presso il Centre for Economic Studies and Planning (CESP) della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi. Specializzato in macroeconomia ed economia politica, è uno dei più attenti osservatori e critici della politica economica del governo indiano. Feroce critico delle politiche economiche neoliberiste e del nazionalismo hindu, ha pubblicato numerosi articoli e libri in diverse lingue.

Tra i più importanti vorrei ricordare: A Theory of Imperialism, scritto con sua moglie Utsa Patnaik, altra importante economista marxista indiana, The Value of Money, Re-Envisioning Socialism, e Demonetisation Decoded – A Critique of India’s Currency Experiment.

* * * *

1. Professor Patnaik, lei è un marxista in un paese che scivola sempre di più a destra. Il fondamentalismo indù di Modi ha molto in comune con lo sciovinismo di Abe in Giappone, Trump, Orbán e Salvini. Come si materializza questo fondamentalismo indù in economia e che rapporto ha con la gestione dell’ordine neoliberista?

L’attuale partito al governo del paese è stato istituito dalla RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, Organizzazione Nazionale Patriottica] come suo braccio politico. La RSS è un’organizzazione fascista istituita nel 1925 che aveva inviato un emissario a Mussolini e aveva grande ammirazione per il fascismo tedesco e italiano.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Il declino della politica e l'inizio di un'altra storia

di Domenico Accorinti

gente comizio cinema persone 1200Ritengo che, se partissimo dalla citazione di Giuseppe Mila della Costituzione statunitense: “Ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”; e dall’affermazione di Giuseppe Ladetto secondo cui: “L’intera sinistra da anni è in crisi in Europa, anzi in tutto il mondo. Sarebbe il caso di partire da questa constatazione per cercare di risalirne alle cause”, tralasciando ogni altra considerazione di natura strettamente contingente legata a semplici valutazioni opportunità politica, sarebbe possibile evitare di lasciarsi trascinare da queste ultime su di un terreno impervio che non ci consentirebbe un esame razionalmente approfondito della questione.

Sia la citazione di Mila sia l’affermazione di Ladetto contengono una parte di verità che però, per consentirci di andare oltre le miserie della politica quotidiana e cercare di centrare in profondità il problema che sta alla base del declino qualitativo delle classi politiche occidentali, non solo italiane, e conseguentemente dei Paesi da queste governati, ci impongono di scavare senza pregiudizi nelle visioni filosofiche che, ormai da 250 anni, in occidente ci portano, magari anche solo implicitamente, il che non è certo un’attenuante, anzi, ad affermare senz’ombra di dubbio la persistenza della bontà della corrente visione della natura hominum, concetto che ha portato all’attuale senso di ineluttabilità dell’uomo “a una dimensione”, quella economica.

Print Friendly, PDF & Email

il rasoio di occam

Guerra di posizione e guerra di movimento oggi

di Carlo Formenti

Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006 al golpe di qualche mese fa, è uno dei più grandi intellettuali di sinistra latinoamericani. In "Democrazia, stato, rivoluzione. Presente e futuro del socialismo del XX secolo" (Meltemi, 2020), il lettore trova un’antologia dei suoi interventi più significativi, seguita da una postfazione di Carlo Formenti, che qui ripubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autore

73321866 2640072246222792 770798049533362176 nNel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires (e inserita in questa antologia con il titolo “Presente e futuro del processo rivoluzionario”) Linera ebbe a pronunciare parole che, alla luce del golpe contro il governo socialista boliviano orchestrato da destre e militari nel novembre del 2019, suonano sinistramente profetiche. Il tema della conferenza era il riflusso in atto in diversi Paesi del subcontinente latinoamericano, i quali, dopo un lungo ciclo riformista/rivoluzionario caratterizzato da una radicale svolta postneoliberista, se non socialista, erano teatro di violente controffensive delle forze di destra, spalleggiate dall’imperialismo nordamericano.

Nel suo discorso, Linera prende in esame una serie di concause – limiti oggettivi ed errori soggettivi – che hanno determinato questa brusca inversione di tendenza rispetto agli eventi storici dei due decenni a cavallo della transizione di millennio – eventi che tante speranze in un rilancio degli ideali socialisti avevano alimentato, non solo in Sudamerica ma in tutto il mondo. Sui limiti oggettivi torneremo più avanti. Qui preferisco concentrarmi sugli errori soggettivi. Mi pare che dall’analisi di Linera ne emergano soprattutto tre: 1) la sottovalutazione della difficoltà di cambiare la struttura dello Stato; 2) l’eccessivo ottimismo in merito alla possibilità di integrare i ceti medi nel blocco sociale progressista garantendo, al tempo stesso, l’egemonia politico culturale delle classi subalterne; 3) l’incapacità di risolvere il nodo della convivenza fra socialismo, democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa (ma qui, più che di errore soggettivo, sarebbe più corretto parlare di un problema che nessuno è mai riuscito a risolvere nel corso dell’intera storia mondiale del socialismo).