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la citta futura

La rivoluzione passiva e il programma minimo

di Pasquale Vecchiarelli

Attraverso la rivoluzione passiva la borghesia punta a dominare col completo consenso dei dominati. La rivoluzione attiva non può rinunciare a conquistare le casematte borghesi e rompere questo meccanismo

6de82430b38b891b92065ef336656616 XLL’umanità, sempre più avvolta nella tenebra del quotidiano in cui l’unica ragione di vita sembra essere quella di guadagnarsi una sopravvivenza dignitosa, produce a tutti gli effetti tutta la ricchezza di questo mondo. Tuttavia non è proprietaria di ciò che essa stessa produce e intuisce, sulla base della propria diretta esperienza, che altri metodi di organizzazione del lavoro, e quindi della società, sarebbero possibili. Irrazionalmente, però, tali alternative non vengono sperimentate in quanto è sempre più forte il freno che la borghesia – interessata solamente al mantenimento dello status quo - oppone allo sviluppo e al progresso dell’umanità.

È sempre più evidente, inoltre, che maggiore è lo sviluppo della scienza e della tecnica e relativamente minore è il suo impatto diretto nel migliorare le condizioni di lavoro della popolazione. Quante volte ci siamo detti che le nuove macchine consentono di risparmiare ore di lavoro: fatto sta che l’orario e i ritmi di lavoro di chi è già occupato aumenta anziché diminuire.

Lo sviluppo delle forze produttive imporrebbe la pianificazione internazionale della produzione basata sulla cooperazione tra i popoli e invece questo non avviene, anzi, in maniera del tutto irrazionale, i lavoratori di una stessa catena produttiva vengono posti in competizione tra loro. Feroci conflitti tra gruppi industriali per la conquista del plusvalore si trasformano in guerre che finiscono per bruciare le ricchezze prodotte con enorme sacrificio, provocando miseria e migrazioni di massa.

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la citta futura

Populismo, punti di partenza

di Roberto Fineschi

Il populismo è una degli anelli della catena degenerativa che confondendo la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce il fascismo

4f3a1b1d386d180ebc31b08a332e29e7 XL1. Populismo ha significato - e significa - varie cose, anche di segno se non opposto, almeno contrastante. Solo guardando al passato se ne riscontrano accezioni potenzialmente progressiste - come nel caso del Populismo russo -, conservatrici - per es. l’americano People’s Party -, ambigue, ambivalenti e problematiche come ad es. il peronismo che in Sudamerica si ritiene di poter coniugare sia da destra che da sinistra. Con il tempo, nel lessico novecentesco, ha sicuramente prevalso un’accezione negativa. Ciò è dovuto assai probabilmente anche al consolidarsi, dopo la seconda guerra mondiale, di organizzazioni politico-istituzionali che valutavano negativamente alcune delle sue caratteristiche salienti: le democrazie parlamentari per un verso, il socialismo reale per un altro consideravano la mancanza di mediazione tra istanze del “popolo” e l’esercizio della funzione politica come un aspetto da evitare, e il ruolo dei partiti come organizzatori, educatori, anello nella catena della pratica e partecipazione politica era qui centrale.

Nel caso del cosiddetto socialismo reale, anche il soggetto cui ci si riferiva presentava probabilmente aspetti problematici, in quanto meglio del popolo, la classe, o i blocchi storici di classi, esprimevano le soggettualità in gioco in maniera più adeguata. Anche i “fronti popolari” erano tali in quanto organizzati, fronti appunto. Aspetti populistici - non popolari - venivano d’altra parte chiaramente individuati nei vari fascismi che, pur non dichiarandosi populisti, sicuramente si sentivano e si autoproclamavano emanazione diretta di un fantomatico “popolo”. Tornano qui alla mente i vari miti millenari, improbabili revival imperiali, il concetto nazionalsocialista di “völkisch” e via dicendo.

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sinistra

Lenin, Rockefeller e la politica-struttura

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

riverapqLa storia pluridecennale della nazione di regola considerata più liberista e antistatalista, e cioè gli Stati Uniti del periodo 1776-1918, serve a supportare concretamente le splendide e geniali tesi leniniste secondo le quali la politica costituisce “l’espressione concentrata dell’economia” (Lenin 1921, “Ancora sui sindacati”) e che quindi di conseguenza, oltre alle sovrastrutture politiche si riproduce costantemente anche una “politica-struttura”, una politica “rinvigorita” con dosi massicce di potenza economica e scelte economiche.

In altri termini l’esperienza concreta degli Stati Uniti dei lunghi decenni compresi tra il 1776 e il 1918, nell’epoca del presunto “liberismo economico” e dei miliardari “creatisi da soli”, quali ad esempio i celebri Vanderbilt e Rockefeller, rappresenta e si dimostra una sorta di pesantissimo stress-test e una verifica empirica particolarmente impegnativa per la sofisticata ma realistica teoria leninista, in questo settore attualmente quasi sconosciuta e quasi mai utilizzata dai marxisti, relativa all’importanza costituita per la sfera produttiva e sui rapporti sociali di produzione e distribuzione dalla politica, da intendersi come politica-struttura ed espressione concreta dell’economia.

Rispetto al preliminare processo di definizione teorico, si è già notato come all’interno della specifica categoria di politica-sovrastruttura, nelle società di classe oppure socialiste, rientrino le teorie, ideologiche e utopie politico-sociali, gli scontri per l’acquisizione o per il mantenimento del potere e del controllo degli apparati statali, l’aspetto strettamente diplomatico e/o militare dei rapporti internazionali tra stati, oltre alle lotte costituzionali e quelle aventi per oggetto la modifica/conservazione delle modalità di relazioni tra i diversi nuclei di potere e apparati statali.

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tempofertile

David Harvey, “Geografia del dominio”

di Alessandro Visalli

harvey fbQuesto piccolo libro di David Harvey raccoglie estratti di “Space of capital: towards a critical geography” del 2001 e contiene un efficace riepilogo di un modello interpretativo del capitalismo unito ad un interessante tentativo di sistematica estensione di questo alle determinanti spaziali. Lo sfondo principale nel quale il libro si colloca è una riflessione sulle meccaniche e le conseguenze del passaggio dal “fordismo” (ovvero catena di montaggio, organizzazione politica di massa e intervento dello stato sociale) alla “accumulazione flessibile” (definita come insieme del perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale della produzione, del ritiro dello Stato-nazione da politiche interventiste, insieme a deregolazione e privatizzazioni). Una transizione alla quale è connessa, come sostiene nella prima parte del testo, quella alle forme postmoderne di pensiero. Ovvero al culto dei frammenti, la perdita della ricerca della verità, e via dicendo.

Questa transizione riguarda l’ampliamento della normale tendenza del capitalismo all’accelerazione e alla riduzione delle barriere spaziali, ovvero a quella che chiama “compressione spazio-temporale” (telecomunicazioni, trasporto con i cargo, containerizzazione, mercati finanziari, information technology, …). Il punto centrale dell’esposizione è che questa accelerazione pone in particolare rilevanza le “rendite di monopolio[1], ovvero quel valore che può essere estratto dal possesso di caratteristiche distintive e speciali. Tutti quei flussi di reddito che possono essere ottenuti grazie ad un controllo esclusivo su un oggetto negoziabile che, però, non sia per qualche ragione replicabile (almeno facilmente). Oppure (effetto indiretto), per le caratteristiche uniche di qualcosa che non viene direttamente commercializzato (ad esempio, il paesaggio senese).

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coku

Marx circuìto da Bellofiore

di Leo Essen

circooloPiù delle teorie della crisi, più dei temi della reificazione e dell’alienazione, dopo un secolo e mezzo di polemiche, di esegesi e confutazioni, l’argomento della discordia è ancora il Plusvalore. Il vero luogo della tempesta, dice Bellofiore (Marx rivisitato), è il Terzo libro del Capitale, con la sua trasformazione dei valori in prezzi. Se questo argomento è ancora al centro di un grande interesse, e se il capitale cerca con ogni mezzo di confutarlo è perché, dice, vuole nascondere la propria origine nel lavoro.

Il capitale non è un dato che può essere presupposto, ma è un risultato. Dunque, la sua origine deve essere spiegata. Il capitale non è un fattore della produzione, non è una cosa, non è un’entità intelligibile o una costante. Il capitale ha una storia, ha un inizio e avrà una fine. Ma, soprattutto, il capitale ha un inizio che si reitera ad ogni ciclo. Si tratta di un inizio che non è dato una volta per tutte in una certa epoca determinata, ma è un inizio che si impone e ritorna a ogni ciclo di valorizzazione del capitale. Il denaro non si trasforma in capitale una tantum, ma ha bisogno di alienarsi per l’acquisto di forza-lavoro, ad ogni ciclo, perché solo il capitale variabile ha la potenza di valorizzarlo. Di più, solo il capitale variabile lo vivifica, lo attualizza, lo mette in circolazione, lo fa essere qui o là, in questo o quest'altro investimento effettivo.

Questa sola circostanza – la reiterazione – dovrebbe mettere a tacere ogni pretesa che vorrebbe far ricadere sul genio, sul merito, sulla fortuna, sulla furbizia, eccetera, la causa dei piccoli e grandi patrimoni accumulati da alcuni.

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ragionipolitiche

Le repubbliche monarchiche

di Carlo Galli

ph 324«Non è certo un bene se si è molti al comando; uno sia il capo, uno soltanto il re, a cui dette il figlio di Crono scettro e leggi, perché regni sugli altri». Così, con le parole di Odisseo in assemblea, l’Iliade legittima la figura di Agamennone, re dell’Argolide e per l’occasione re dei re, comandante in capo dei Greci davanti a Troia. La figura del re appare già collegata da una parte a una identità collettiva, e dall’altra alla divinità; inoltre, emerge qui un’altra caratteristica dei re: il loro compito è di esercitare la giustizia, garantire le leggi. Ma, benché sia pastore di popoli, Agamennone non gode di un pieno potere politico. Anche questa è una caratteristica della regalità, la cui essenza sta nella funzione «pontificale» di unione fra l’umano e il divino. Una funzione che ha una connotazione religiosa prima che direttamente politica.

Le principali culture – quelle storiche e quelle «primitive», di Europa, Asia, Africa, America – presentano, in modi diversi, questa costante: il re apre un gruppo umano alla trascendenza, lo sottrae alla contingenza, ai pericoli, alla rovina; funziona (lo ha spiegato René Guénon) come un asse, un albero della vita che unisce cielo e terra, attorno al quale ruota una civiltà. Il re è interno ed esterno alla città, alla tribù, all’Impero: li incorpora in sé e li porta fuori di sé, li apre a leggi cosmiche, e così garantisce che le cose terrene procedano allo stesso ritmo delle cose celesti; grazie al re la giustizia è assicurata, i mostri del caos sono respinti sotto terra, i campi sono fecondi. Come ha scoperto Georges Dumézil, vi è una corrispondenza fra ordine celeste tripartito (gli dèi regnanti, gli dèi guerrieri, gli dèi della fecondità) e tripartizione mondana fra re-sacerdoti, custodi, produttori: il posto del re è il vertice, sporgente verso il cielo, di una società gerarchica, organizzata secondo ritmi naturali e divini di cui egli è il custode.

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sinistra

Riflessioni intorno a “Le nuove melanconie” di Massimo Recalcati

di Paolo Bartolini

Edvard Munch Melancholy 1894Nel confrontarci con l’ultimo libro di Massimo Recalcati, “Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno” (Raffaello Cortina, 2019, € 19,00), non neghiamo di aver avvertito in principio alcune resistenze. L’autore è molto noto e la sua marcata esposizione mediatica può elicitare reazioni automatiche (di ammirazione o di diffidenza) che rischiano di invalidare un esame equilibrato dei contenuti trattati nell’opera. Inoltre, visti i risvolti sociali del tema in questione, non è stato facile mettere tra parentesi lo scarto che esiste tra le nostre rispettive posizioni politiche. Ecco perché abbiamo preso tra le mani il suo nuovo lavoro con un misto di eccitazione e titubanza. Va detto, a scanso di equivoci, che Recalcati, prima ancora di essere una star della cultura italiana, è un ottimo scrittore e uno studioso capace di comunicare in maniera coinvolgente, anche a un pubblico generalista, i concetti chiave della psicoanalisi (soprattutto di taglio lacaniano). Le antipatie che ha saputo suscitare in certi ambienti “critici” forse non sono del tutto innocenti e risentono di una polarizzazione istintiva che si genera ogni qual volta un intellettuale conquista in maniera indiscutibile le luci della ribalta. Il volume di cui stiamo per parlare è profondo e ispirato, un libro necessario che arricchisce la letteratura, non proprio fiorente, sugli intrecci tra psiche e storia, inconscio e politica. Qui offriamo modestamente le nostre prime impressioni, delle riflessioni a caldo su un testo che segnerà probabilmente il dibattito contemporaneo sulla sofferenza mentale ed esistenziale ai tempi del capitalismo finanziario e dei sovranismi populisti. Abbiamo scelto, comunque, di mettere in tensione il discorso dell’autore, evidenziandone lacune e potenzialità degne di ripresa e ulteriori sviluppi.

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bollettinoculturale

Su capitalismo e imperialismo

Michael Hudson 680x496 cMichael Hudson, professore emerito di economia all’Università del Missouri-Kansas City, è uno dei più importanti economisti marxisti del mondo. Intellettuale di classe, attento nell’analisi della storia del capitalismo, fornisce sempre delle chiavi di lettura interessanti per capire il mostro contro cui ci battiamo ogni giorno. Dallo studio dell’imperialismo americano alla storia del debito passando per le sue importanti visite alla Cina, Hudson ci fornisce sempre degli spunti su cui riflettere attentamente. Ha lavorato come analista per Wall Street, scrive sulle principali riviste di economia del mondo come il Financial Times.

Con la speranza di vedere tradotti in italiano i suoi libri, sono orgoglioso di avere avuto l'opportunità di intervistarlo.

Lascio ai lettori il link al suo sito.

* * * *

Professor Michael Hudson, lei è spesso associato al pensiero di illustri economisti marxisti come Samir Amin e Giovanni Arrighi, soprattutto per aver capito che il capitalismo perdura nella sua crisi non dal 2008 ma dagli anni ‘70. Come è centrale nei suoi lavori l’imperialismo e lo sviluppo ineguale, tema fuori dalle agende di molti “compagni” specialmente quando affrontano il problema della crisi migratoria proveniente dall’Africa e dal Medio Oriente.

A suo avviso, oggi, l’imperialismo americano è in crisi oppure è vivo e vegeto come negli anni ‘90?

Gli Stati Uniti possono ancora gestire ad infinitum il passivo del bilancio governativo e della bilancia dei pagamenti. Ciò rimuove i vincoli (che altre nazioni invece continuano ad avere) alla loro spesa, sia militare che per altre porcherie, e alle acquisizioni di società straniere.

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doppiozero

Perché Freud è ancora necessario

a cura di Nicole Janigro

1567460708644.jpg amo freud perche non hamai smesso di cercare Introduzione

di Nicole Janigro

Di Freud oggi sappiamo tantissimo, ogni suo oggetto, lettera, testo, incontro è stato studiato e interpretato. Alla Biblioteca del Congresso, sono ora consultabili tutte le sue carte: ci sono le opere, l’elenco e gli appunti dei libri letti, l’enorme epistolario. Durante la sua esistenza Freud conserva un senso ben preciso di quanto fosse possibile mostrare in pubblico e quanto si dovesse mantenere privato. È forte la sua preoccupazione che gli aspetti intimi, i “tristi segreti”, potessero esser utilizzati contro di lui. Nella sua Autobiografia, malato, convinto di essere prossimo alla fine, dopo la diagnosi di cancro alla mandibola, nel 1924, Freud propone «una nuova combinazione di elementi oggettivi e soggettivi», anche se, scrive, «il pubblico non ha diritto di saperne di più», «né dei miei rapporti personali, né delle mie battaglie, né delle mie delusioni, né dei miei successi». Quello che prevale è il Freud che distrugge le lettere alla fidanzata, che dice «ho parlato di me stesso più del consueto o più del necessario», perché «tutte le mie personali esperienze non hanno alcun interesse se paragonate ai miei rapporti con questa scienza». Il segno e lo stigma della sua vita sono affidati a queste righe: «Anzitutto mi feriva l’idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri».

La sua idea di terapeuta era quella di un analista neutrale, eppure il suo studio era stracolmo di immagini, oggetti, riproduzioni, quadri, tappeti e mobili. Una casa museo, dove era circondato da tutto quello che serviva al suo lavoro, ma anche al suo spirito. Chi arrivava non ci poteva credere: figure archeologiche egiziane, greche, romane, cinesi. Un’atmosfera onirica. Un insieme particolare di casa e studio, di intimità e formalità: un po’ come accade durante un’analisi.

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azioni parallele

L’alibi della verità

La dialettica vero-falso nel romanzo poliziesco

di Paolo Francesco Pagani

Edgar Allan Poe room1. Prologo. La lettera rubata

Partiamo da quella che potremmo chiamare “la scena primaria” del romanzo poliziesco. Nel racconto La lettera rubata, di Edgar Allan Poe, la verità è sotto gli occhi di tutti. Non ci si fa caso perché è così visibile. La lettera è ben nascosta proprio perché è evidente. Si tratta esattamente di una evidenza cartesiana; con gli occhi della ragione si rende chiara una verità che i sensi non colgono, o meglio: vedono – è lì, in piena vista – ma non capiscono. L’investigatore, Dupin, è colui che smaschera il velo dell'inganno facendo emergere la verità incontrovertibile. Evidente. (Ovviamente, nel suo celebre Seminario su La letterarubata, Lacan ne amplia enormemente il valore metaforico, è l'inconscio che, strutturato come linguaggio, parla. Ma Lacan riconosce che Poe «era stato guidato nella sua finzione da un disegno pari al nostro». Perché l’inconscio, più che nascosto in profondità, parla in superficie. Basta leggerlo, nei giochi di parole, nei Witz). In ogni caso, come scrive Lacan, «se qui c’è una verità, essa si trova ovunque... da un punto qualsiasi alla nostra portata». Che la verità sia un crimine, o un significante, è qui, sotto lo sguardo.

 

2. Sklovskij e Todorov

Una minore fiducia nella verità, per lo meno letteraria, traspare dall’analisi effettuata dai formalisti sui romanzi dei misteri. Viktor Sklovskij, nel suo Teoria della prosa, non è affatto interessato all’evidenza cartesiana, bensì alla struttura interna della narrazione (per esempio di Conan Doyle) e alla coerenza dell’intreccio costruito. Ammette che l’interesse per l’azione ed il mistero è rafforzato dall’ambiguità del problema, più che dalla chiarezza della soluzione. E si spinge fino ad affermare, in una analogia con gli indovinelli, che «un indovinello ammette non una, ma diverse soluzioni». È un gioco, con la possibilità di istituire paralleli diversi, e il detective risolve “per professione” il gioco.

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codicerosso

Sulle necessità di teoria attuali

di Diego Sarri

spinoza opereIl contesto storico attuale sconta una forte necessità di teoria, tanto che appare quasi riduttivo e banale farne pronuncia, poiché il bisogno di riflessione che la sinistra rivoluzionaria ad oggi subisce non solo è profondo, ma anche determinante per la sua sopravvivenza. La riflessione althusseriana, concentrata nel Per Marx sul discorso teorico, oggi si presenta quanto mai di bruciante attualità: la TEORIA, come campo agonistico e politico, come terreno di scontro di classe, come momento di conflitto autentico, non apparente, non meramente sovrastutturale.

Procederemo con alcuni riduzionismi adesso, con delle semplificazioni storiche, dato che la storia si presenta sempre come una semplificazione, come una riduzione al sostanziale (non oggettivo) della narrazione, per poter esprimere un’esigenza dell’attualità. Con atteggiamento filosoficamente forse non originale, guarderemo al passato per affermare le necessità del presente. Per questo, abbiamo diviso la storia della sinistra rivoluzionaria in 3 tappe da considerarsi epocali per la formazione e la decostruzione di assunti teorici, per la spinta rivoluzionaria pratica o la sperimentazione di concetti e forme, anche artistiche, come accade si nel ’68, ma non solo, dato che spesso dimentichiamo quale pullulare di esperienze di avanguardia artistica fu per esempio la Russia rivoluzionaria, presi nel fascino dell’ammirazione dei carri armati dell’armata rossa, atteggiamento che in alcuni ambienti della sinistra, ma non chiamiamola rivoluzionaria, utilizza la nostalgia come maschera per una freudiana invidia del pene, cioè per un’impotenza pratica che denuncia sia la desuetudine di alcuni assunti teorici sia il bisogno concreto di scuoterne nell’analisi la radice, ritrasformando il nostro patrimonio , il nostro abbecedario da bravi rivoluzionari in qualcosa di davvero efficace.

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il rasoio di occam

Il mercato è obsoleto

di Karl Polanyi

È appena uscito, a cura di Michele Cangiani, che ne ha scritto anche l'introduzione, Karl Polanyi, "L’obsoleta mentalità di mercato, Scritti 1922-1957" (Asterios), che fra i 24 saggi, articoli e manoscritti del grande studioso ungherese inclusi nel volume presenta due inediti in italiano, “Marx sul corporativismo” e “Il collasso del sistema internazionale”. Ringraziamo l'editore e il curatore per averci concesso di pubblicare questo estratto

1b3e34fe5a5ac25a64775078341c2e08Marx sul corporativismo[1]

… il costituzionalismo prussiano, cioè l’assolutismo appena camuffato dalla presenza dei cosiddetti stati [Estates, Stände]; Marx auspicava un governo rappresentativo, il voto popolare e l’abolizione dell’antiquata istituzione degli stati. La parte principale delle sue Note[2] è un attacco al tentativo di Hegel di sancire i metodi dell’ancien régime prussiano quale apogeo della libertà umana.

A questo punto vengono prese in considerazione le gilde o corporazioni. Le Korporationen (com’erano chiamate nella Germania del XVIII secolo) formavano una parte importante della costituzione, poiché erano rappresentate negli stati [Estates]. Nel suo attacco contro gli stati, Marx mette in questione l’insistenza di Hegel sull’organizzazione in gilde dell’attività economica e la presunta necessità di assegnare alle gilde una funzione nello Stato.

Possiamo dunque vedere chiaramente perché il ruolo delle gilde fosse un’importante preoccupazione di Marx e perché egli tenesse a opporsi ad esse in quanto sostegno dell’ancien régime; perché, inoltre, nella lotta contro il corporativismo fosse in gioco la causa della democrazia politica.

Lo Stato corporativo del fascismo contemporaneo è effettivamente un tentativo di adottare caratteristiche essenziali del sistema tradizionale delle gilde in circostanze differenti. Vedremo più oltre quanto diverse siano le condizioni, sia dal punto di vista tecnologico che da quello sociale. Una decisiva analogia con il passato è costituita, comunque, dalla funzione antidemocratica, ora come allora, del sistema delle gilde. Marx indaga questo aspetto con una straordinaria capacità di penetrazione, rivelando, fra l’altro, l’alternativa fondamentale che sta alla base dello sviluppo sociale attuale.

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bollettinoculturale

Marxismo, politica, capitalismo, classe operaia

Intervista a Gianfranco La Grassa

lenin rivoluzione 940 1Il professor Gianfranco La Grassa è uno dei più importanti economisti di derivazione marxista del nostro paese. Allievo di Antonio Pesenti e Charles Bettelheim, è stato fortemente influenzato dalla scuola althusseriana. Negli anni ha scritto lavori molto interessanti sul pensiero di Marx e l’analisi del capitalismo. Dal maoismo allo studio del conflitto strategico, emerge dalla sua parabola intellettuale tutta la sua capacità di analisi del capitalismo e del pensiero marxiano. Professore associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia tra il 1979 e il 1996 e alla facoltà di Giurisprudenza di Pisa tra il 1964 e il 1981, negli anni ‘70 ha scritto spesso su Critica Marxista, l’organo teorico del PCI. Negli anni ‘80, con Costanzo Preve, fondò il Centro Studi di Materialismo Storico. Attualmente cura, con l’aiuto di Gianni Petrosillo, il sito Conflitti e Strategie e il proprio canale YouTube.

* * * *

1) Professor La Grassa, lei ha avuto un percorso intellettuale molto interessante. Da maoista, agli studi sulla divisione tecnica come struttura portante del capitalismo per arrivare ai giorni nostri. Esiste un fil rouge che attraversa tutta la sua parabola intellettuale e quanto ha pesato l’influenza dei suoi due maestri Antonio Pesenti e Charles Bettelheim?

R. Dal punto di vista della discussione e interpretazione della teoria marxista (e, in particolare, di Marx), è innegabile che l’influenza maggiore è stata quella del Maestro francese, Bettelheim. Questi divenne di fatto parte della scuola althusseriana (sia pure con sue particolarità) nella seconda metà degli anni ’60. Ci si ricordi che nel 1965 uscì appunto il decisivo volume “Lire le Capital” di Althusser e i suoi allievi principali. Per quanto riguarda Bettelheim il testo più rilevante è “Calcul économique et formes de propriété” (1969), su cui si tenne il corso del 1970-71 all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, cui partecipai interamente.

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sbilanciamoci

Karl Polanyi oggi: un nuovo volume dedicato a suoi scritti editi e inediti

di Michele Cangiani

Karl Polanyi, L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957, a cura di M. Cangiani, Trieste, Asterios Editore, 2019, pp. 330, €19,00

9788893131292 0 0 514 7524 saggi, articoli e manoscritti di Polanyi raccolti in questo volume dal 1922 al 1957 possono giovare alla comprensione di un autore sempre più citato, non senza semplificazioni e distorsioni del suo pensiero. All’analisi della “trasformazione” nel periodo fra le due guerre mondiali è dedicato il paragrafo conclusivo dell’Introduzione, qui in buona parte riprodotto.

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Partendo dalla crisi del capitalismo liberale ottocentesco, Polanyi ci offre una chiave interpretativa dello sviluppo susseguente, fino ai giorni nostri. Una volta escluso il cambiamento in direzione della democrazia socialista, l’inevitabile trasformazione […] non poteva consistere che nel passaggio a un diverso assetto istituzionale del capitalismo. Economia e politica dovevano cessare comunque di fungere da baluardi contrapposti della lotta di classe: dovevano ritrovare una coerenza, un’“integrazione”. Ciò implicava, secondo Polanyi, che la democrazia, anche dove non veniva abolita da regimi fascisti o autoritari, rispettasse i vincoli imposti dall’organizzazione capitalistica del sistema economico. […]

In articoli e manoscritti degli anni Venti e Trenta, e infine nella Grande trasformazione (1944), Polanyi analizza le diverse modalità della trasformazione ovvero “il capitalismo nelle sue forme non liberali, cioè corporative,” che gli consentono di “continuare indenne la sua esistenza assumendo un nuovo aspetto” (Polanyi, “L’essenza del fascismo”, 1935). I due articoli del 1928, tradotti nel cap. 3 di questo libro, analizzano la riorganizzazione corporativa proposta in Inghilterra dal Rapporto della Liberal Industrial Enquiry, commissionato dall’ala sinistra del Liberal Party. Collaborò all’Inchiesta anche Keynes, che ne aveva suggerito alcuni temi nel famoso articolo “La fine del laissez faire” del 1926.

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ospite ingrato

Gramsci e l’idea di critica

di Marco Gatto

antonio gramsci 770x430Nella Italia più culta, e in alcune città della Francia ho cercato ansiosamente il bel mondo ch’io sentiva magnificare con tanta enfasi: ma dappertutto ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle, e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti. Mi sono intanto sfuggiti que’ pochi che vivendo negletti fra il popolo o meditando nella solitudine serbano rilevati i caratteri della loro indole non ancora strofinata.
Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802)

La lezione di Gramsci in materia di critica letteraria e di critica della cultura risiede nel proporre un’alternativa teorica e politica all’idea, non solo romantica e non solo crociana, di un’autonomia dell’arte e della sfera estetica. E la rilevanza – per non dire l’attualità – di questa lezione sta nell’allestimento di una produttiva dialettica tra il riconoscimento della specificità dei problemi letterari e artistici, e dunque della necessità di un terreno di comprensione disciplinare, e il loro inserimento nel quadro di una proposta politica complessiva, che contribuisce a ridefinirne i contorni, se non a potenziarne i presupposti. Lontano dalla logica schematica dei “distinti” di Croce, anche e soprattutto nel processo critico, Gramsci stabilisce una compenetrazione (ovviamente, non pacificata, ma costantemente dinamica) tra una dimensione, per così dire, settoriale dell’agire intellettuale e una dimensione appunto pubblica, dunque ideologica e politica, dell’intrapresa culturale. Cosicché, nei termini restituiti dai Quaderni, il giudizio su un testo, su una categoria estetica o su un problema culturale si muta, al netto di una sua analisi condotta attraverso lo strumentario della disciplina di riferimento (la filologia, ad esempio), nell’occasione politica di una trasformazione: da una nuova idea dell’arte promana un’idea nuova di civiltà, e dunque un nuovo modo di intendere i rapporti sociali.