È plausibile una rivoluzione pacifica?
di Renato Caputo
In quali casi è possibile una rivoluzione pacifica? La si deve considerare l’eccezione o la regola?
Lenin, come del resto Marx ed Engels, ritiene che in una situazione particolare – in cui, ad esempio, gli apparati repressivi dello Stato sfuggono al controllo della classe dominante – non si debba ricorrere ai mezzi non pacifici generalmente indispensabili per realizzare una rivoluzione [1]. Tanto più che la forza e la stessa legittimità della violenza rivoluzionaria eventualmente necessaria risiede nel suo essere una “violenza seconda”, ossia una reazione indispensabile al conseguimento di un elevato obiettivo etico-politico – ovvero una società in cui sarà bandito lo sfruttamento – imposta dalle forme di lotta violente che generalmente impiegano gli apparati repressivi volti alla salvaguardia dei privilegi consolidati di una esigua minoranza, fondati sullo sfruttamento della grande maggioranza [2]. La possibilità del confronto con le idee dell’avversario su un piano realmente democratico, proprio in quanto rara e provvisoria – poiché la classe dominante non si lascerà, quasi certamente, scalzare sulla base della sola potenza delle idee, ma finirà per imporre metodi violenti di lotta – va sfruttata, dal momento che la portata universalistica del proprio progetto di società non può che avere la meglio sulla difesa di interessi particolaristici, sempre più in contraddizione con l’ulteriore sviluppo sociale.
Dunque, se si desse la possibilità d’uno sviluppo “pacifico della rivoluzione – possibilità estremamente ed eccezionalmente rara nella storia ed estremamente preziosa”[3], sottolinea Lenin, anche un partito che generalmente considera necessaria la via insurrezionale non dovrebbe lasciarsi sfuggire tale opportunità.
Al punto che Lenin si mostra favorevole, pur di conquistare al fronte rivoluzionario la piccola borghesia, a posticipare gli obiettivi socialisti e a realizzare sino in fondo la rivoluzione borghese, pur di evitare lo scontro aperto senza un fronte così ampio da ridurre al minimo indispensabile la violenza rivoluzionaria. Si tratta certo di scendere a compromessi, ma è necessario accettarli se consentiranno di allargare ulteriormente e consolidare il fronte rivoluzionario. Anche perché, come osserva a ragione Lenin, in tal caso “i bolscevichi vi guadagnerebbero la possibilità di svolgere liberamente l’agitazione per le loro opinioni e di lottare, in condizioni di democrazia veramente completa, per conquistare i Soviet alla loro influenza. A parole ‘tutti’ riconoscono oggi questa libertà ai bolscevichi. In realtà essa è impossibile con un governo borghese o al quale partecipi la borghesia, con un governo diverso da quello sovietico” [4].
Tanto più che Lenin, nei decisivi mesi che intercorrono fra l’aprile e il luglio del 1917, vede delinearsi in Russia una tale situazione “eccezionalmente rara nella storia ed estremamente preziosa”. Essa era resa possibile dalla situazione peculiare che si era creata in Russia in seguito alla Rivoluzione di Febbraio per cui esisteva un vero e proprio dualismo di poteri fra l’assemblea legislativa egemonizzata dalla grande borghesia e i soviet dei contadini, degli operai e dei soldati che, pur ancora dominati dalla piccola-borghesia, controllavano la maggioranza degli apparati militari e repressivi dello Stato. In tale frangente la realtà pratica falsificava le precedenti teorizzazioni politiche dello stesso Lenin che, contro i revisionisti della Seconda Internazionale, aveva insistito sul fatto che di regola una rivoluzione non può essere pacifica. Così, di contro ai dottrinari che rimanevano fermi alla teoria generale, Lenin afferma:
“non bisogna dimenticare che nella pratica a Pietrogrado il potere è nelle mani degli operai e dei soldati e che contro di essi il nuovo governo non ricorre e non può ricorrere alla violenza, perché non esistono né una polizia né un esercito distinti dal popolo e neanche una burocrazia onnipotente al di sopra del popolo. Questo è un fatto. Un fatto che caratterizza appunto uno Stato del tipo della Comune di Parigi. Un fatto che non s’inquadra nei vecchi schemi. Bisogna saper adattare gli schemi alla vita e non ripetere parole prive ormai di senso sulla ‘dittatura del proletariato e dei contadini’ in generale” [5].
Ciò non toglie che in tale frangente vada realizzata la parola d’ordine lanciata da Lenin di ritorno dall’esilio: “tutto il potere ai soviet!” mediante il passaggio del potere politico dall’assemblea legislativa, dominata dell’alta borghesia, ai soviet sebbene fossero ancora egemonizzati dalla piccola-borghesia rappresentante delle preponderanti masse rurali. In effetti, di contro al revisionismo dei riformisti, in quella condizione, dopo l’affermazione dei “Soviet dei deputati operai”, il ritorno alla repubblica parlamentare, “sarebbe un passo indietro”. Perciò l’obiettivo da raggiungere non può che essere la “repubblica dei Soviet di deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini in tutto il paese, dal basso in alto” [6]. Conseguito tal obiettivo, pur rimanendo sostanzialmente immutati nella sostanza i rapporti di produzione, sarebbe garantita una democrazia reale e non solo formale in cui la prospettiva maggiormente universalista del programma del proletariato urbano avrebbe avuto certamente la meglio sulle concezioni miopi delle masse agricole [7].
D’altra parte se la piccola-borghesia dovesse rifiutare tale compromesso [8], secondo Lenin il proletariato non potrà passare immediatamente alla lotta rivoluzionaria, se prima non avrà conquistato larghi strati delle masse alla propria politica, differenziando nel modo più netto la propria posizione da quella opportunistica piccolo-borghese. Si tratterà, dunque, di
“spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono l’unica forma possibile di governo rivoluzionario e che, pertanto, fino a che questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica” [9].
Proprio perciò è così importante contrastare in questa fase le astratte posizioni dell’estremismo di sinistra, contrario a ogni forma di compromesso, e lo scetticismo di chi ritiene irrealistico trovare un compromesso con le forze della piccola borghesia per la realizzazione della parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” [10]. Del resto, come sottolinea a ragione Lenin, “quei politici della classe operaia che non sanno ‘manovrare, stringere accordi, stipulare compromessi’, pur di evitare una battaglia manifestamente svantaggiosa, non valgono un bel niente” [11].
Perciò, anche dinanzi alla violenta repressione subita, dopo il fallimento dell’improvvisato – e, perciò, denunciato dai bolscevichi come “avventurista” – tentativo insurrezionale del Luglio 1917, Lenin ritiene necessario fare di tutto per trovare un compromesso con le forze piccolo-borghesi. “Un compromesso, da parte nostra”, chiarisce a tal proposito Lenin,
“sta nel tornare alla rivendicazione del periodo precedente le giornate di luglio: tutto il potere ai Soviet, formazione di un governo di socialisti-rivoluzionari e di menscevichi responsabile di fronte ai Soviet. (…) Il compromesso consisterebbe in questo: i bolscevichi, pur non pretendendo di partecipare al governo (cosa impossibile per un internazionalista senza che siano effettivamente assicurate le condizioni della dittatura del proletariato e dei contadini poveri), rinunzierebbero alla rivendicazione immediata del passaggio del potere al proletariato e ai contadini poveri e ai metodi rivoluzionari nella lotta per questa rivendicazione. La condizione del compromesso – di per sé evidente e non nuova per i socialisti-rivoluzionari e per i menscevichi – consisterebbe nella piena libertà di agitazione e nella convocazione dell’Assemblea costituente senza nuovi ritardi e nel più breve termine” [12].
Tanto più che, a parere di Lenin, “l’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato, alla sua seconda fase, che deve dare il potere al proletariato e agli stati poveri dei contadini” [13]. Del resto paradossalmente è solo con la realizzazione di questo compromesso con la piccola borghesia che renderà possibile mettere finalmente “all’ordine del giorno” “un compito diverso, un compito nuovo: la scissione, all’interno di questa dittatura [dei soviet], tra gli elementi proletari (internazionalisti, ‘comunisti’, fautori del passaggio alla Comune) e gli elementi piccolo-proprietari o piccolo-borghesi” [14].
Del resto, Lenin ci tiene a sottolineare che occorre sempre porre una differenza essenziale fra
“il compromesso imposto dalle condizioni oggettive (…) che non pregiudica affatto, negli operai che lo stipulano, la fedeltà alla rivoluzione e la volontà di proseguire la lotta, e il compromesso dei traditori, che scaricano sulle condizioni oggettive il loro abietto egoismo (…), la loro vigliaccheria, il loro desiderio d’ingraziarsi i capitalisti, la loro arrendevolezza di fronte alle intimidazioni, talvolta di fronte alle lusinghe o alle elemosine o all’adulazione dei capitalisti” [15].