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"Halt ze German advance"
di Tomasz Konicz
Con la vittoria del campo del Brexit, l'attuale forma dell'UE, dominata dalla Germania, è arrivata di fatto alla fine. La domanda è: cosa viene dopo?
Vorremmo attirare l'attenzione sul testo di Tomasz Konicz sulla crisi dell'Unione Europea, pur avendo delle riserve su alcuni punti; per esempio, sulla valutazione di Konicz circa il fatto che l'Europa starebbe ritornando al "business as usual" nazional-imperialista vecchio di secoli. Qui bisognerebbe tener conto della variegata situazione attuale, determinata dal processo di globalizzazione. Un altro esempio attiene al fatto che, a volte, appare come se il processo di crisi più recente fosse principalmente il risultato di conflitti di interesse e di decisioni politiche. Ciò nonostante, consideriamo corretto l'orientamento generale del testo. Konicz colloca tutti questi conflitti di interesse, ed in particolare il dominio tedesco, nel contesto del processo fondamentale di crisi, con le sue contraddizioni, nel contesto di decadenza del capitalismo. Nel suo insieme, a nostro avviso, viene presentato correttamente lo scenario di crisi dell'Unione Europea, con sullo sfondo le leggi sistemiche della "contraddizione in processo". In questo contesto facciamo riferimento, in tal senso, anche all'Intervista fatta da Telepolis a Robert Kurz nel luglio 2010, ed al testo di Claus Peter Ortlieb del dicembre 2011 [La Redazione di EXIT!].
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I Media e la regia della paura
di Glauco Benigni
#FalseFlag che sventolano nel mainstream. Com'è difficile non essere 'complottisti'. Un saggio di Glauco Benigni su un mondo in cui il Vero e il Falso vanno a braccetto
Il tumulto dei chomsky - 17
A proposito di attentati, narrazioni e ricostruzioni mediatiche, "false flags" e dubbi, credo ci sia bisogno di un'analisi che illumini alcuni aspetti, propriamente tecnici, della comunicazione di massa globalizzata e che consenta pertanto - se condivisa - una maggiore consapevolezza sugli accadimenti di cui affannosamente e tristemente si dibatte.
In alcuni testi e video, alcuni mirabili, che circolano nella Rete, gli autori chiedono ai propri lettori e spettatori di decodificare quel grande puzzle del "terrorismo" con intuito sagace e buon senso (che i media mainstream definiscono "complottismo e dietrologia").
Spesso si tratta di appelli lanciati nell'area di appartenenza a forme pensiero antagoniste e condivise, piuttosto che inoppugnabili dimostrazioni. È pur vero che tali dimostrazioni sono lunghe (l'abbiamo visto nel caso dell'11 settembre 2001), difficili, ostacolate e perversamente commentate dai Guardiani del Potere.
Un contributo al dibattito, di natura più tecnica, credo dunque che sia necessario, al fine di erigere barricate tra vero e falso molto più solide e difendibili e di offrire alla coscienza pubblica elementi sempre più condivisibili, anche se noiosi da gestire.
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Attualità di Adorno*
Per il 50º anniversario della pubblicazione di Dialettica Negativa
di Sandro Dell’Orco
Tra il dichiarato, disumano e anarcoide irrazionalismo dei Post-strutturalisti, e la inconfessata, contraddittoria e socialdemocratica metafisica social-comunicativa di Habermas, non si saprebbe cosa scegliere
Diciamolo subito. Adorno è stato sostanzialmente dimenticato dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica. Il processo è stato graduale ma inesorabile e ha riguardato, oltre lui, Horkheimer, Marcuse, Mitscherlich, Pollock, Schmidt e tanti altri suoi sodali e allievi. Si è salvato dall’oblio solo colui che lo ha rinnegato, sia che non fosse stato più d’accordo con lui, sia che, fiutando la nuova aria, si fosse affrettato a scendere dal carro del marxismo francofortese prima che fosse troppo tardi. Parlo di Habermas, naturalmente. Non conosco ciò che è accaduto nelle istituzioni culturali tedesche a partire dagli anni settanta del secolo scorso, ma se è accaduto lì ciò che è avvenuto in tutto il mondo (e che è rilevato magistralmente dal massimo sociologo italiano Luciano Gallino, purtroppo recentemente scomparso, in Finanzcapitalismo (2011) e L’impresa irresponsabile (2005)) e cioè la colonizzazione di ogni istituzione culturale da parte dell’ideologia neoliberista, l’epurazione progressiva del marxismo francofortese si può spiegare come momento della controffensiva planetaria del capitale finanziario per la riconquista dell’egemonia economica, sociale e spirituale messa in crisi dal proletariato.
Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal 1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità. Adorno, marxista, si eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukàcs, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte dell’imminente riscatto dell’umanità.
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Modifiche costituzionali e forma di governo*
di Gianni Ferrara
<<Partiamo da una constatazione auto evidente. La democrazia moderna, quindi la forma democratica di stato, o è rappresentativa o non è. Va di certo integrata, arricchita con istituti di democrazia diretta. Ma il suo fondamento intangibile è la rappresentanza, ne è l’essenza. Deviarla, distorcerla, amputarla è comprimere quel che resta della sovranità popolare dopo l’erosione subita dai trattati Ue.>>
1. Qualche premessa. La prima. La revisione della Costituzione è prevista e regolata dalle norme contenute nella sezione II del titolo VI del suo testo. Le parole che denominano il titolo sono: “Garanzie costituzionali”. Il significato di tale collocazione è di una evidenza solare. La Costituzione intende tutelare se stessa anche quando consente che la si modifichi. Non è un paradosso, è un permettere ed insieme un precludere, permettere innovazioni, impedire deformazioni.
2. È il tributo che, dopo aver acquisito quel che poteva offrirle la storia dalla quale è nata, la Costituzione paga alla storia che verrà. A quella che vivranno le generazioni future, cui la Costituzione italiana non nega affatto il diritto a darsi una loro Costituzione, ma le esorta a meditare sul grado di civilizzazione politica e giuridica già raggiunto con la Costituzione che ereditano e sulle ragioni storiche di ciascuna di quelle conquiste, di ciascuna di quelle istituzioni che ne sono scaturite, di ciascuna delle norme che furono dettate. Esorta a meditare anche, e forse soprattutto, sulle cause delle inadeguatezze, delle storture, delle carenze, delle contraddizioni degli ordinamenti statali precedenti o le regressioni che il costituzionalismo ha subito e subisce per il mai sradicato e implacabile suo opposto dialettico, l’accentramento del potere, qualunque ne sia forma, qualunque il nome che assume. Ovviamente, la normativa sulla revisione costituzionale, con le disposizioni che contiene l’articolo 138 della Costituzione, ha il suo destinatario ordinario, che si pone così come precostituito, legittimo,“naturale”.
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Decadenza capitalistica e crisi di civiltà
di Diego Giachetti
E mi abbandono/ al triste vento
che mi trasporta/ di qua e di là
simile a una/ foglia morta
(Paul Verlaine, Canzone d’autunno)
Nella storia si definisce decadenza il periodo in cui si verifica la crisi di una classe dominante che sta esaurendo la sua funzione all’interno di una formazione economico-sociale. Essa è il sintomo tipico «delle epoche di transizione, dilaniate tra ciò che tarda a morire e ciò che appena sta nascendo»1 . Nel 1919 lo storico olandese Johan Huizinga dava a una sua opera, destinata alla celebrità nel campo della ricerca storica, il titolo Autunno del Medioevo. Così definiva il periodo del Trecento e del Quattrocento del secondo millennio, i secoli che segnavano il tramonto della civiltà medioevale raccontata come un lungo declino, durante il quale emergevano sentimenti di nostalgia per un mondo che andava decadendo, fino a scomparire. Un mondo che stava finendo e che, accanto alla nostalgia, covava sentimenti di precarietà, perdita di senso e di divenire, dal quale si provava ad evadere cercando consolazione nel sogno e nella fantasticheria oppure nella dissolutezza e volgarità gratuite.
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Hayek, Monnet, Robbins: le ragioni incomprese di un successo e la (non) modificabilità dei trattati
di Quarantotto
1. Mi è capitato di constatare, confrontandomi con interlocutori di varie appartenenze politiche, che l'approfondimento storico-economico e storico-istituzionale circa le ragioni e le finalità del federalismo europeo, pur in un momento così drammatico, che appare di "transizione" forzata verso...qualcos'altro, sia tutt'ora trascurato: e ciò in favore di una vulgata semplificata che, più o meno, si incentra sull'esigenza di "tornare alle origini", allo "spirito" iniziale, della costruzione europea che sarebbe stata caratterizzata non solo da alti ideali - la pace e la prosperità dei popoli - ma da una solidarietà e da una volontà di democrazia condivisa che oggi sarebbero andate perse. E che, perciò, andrebbero recuperate. (Ecco il più recente esempio:
«Tutti nel M5S si sentono europei, noi non siamo mai stati una forza che voleva uscire dall' Unione europea pur criticandola molto duramente». D' altra parte l' Europa ha smesso di essere comunità, in nome dell' austerità ha penalizzato i più deboli. Questa Europa della moneta unica, del centralismo burocratico ha tradito i suoi valori fondativi e deve cambiare». Tante citazioni di Jean Monnet, di don Sturzo. Nessuna dell' euroscettico Nigel Farage con cui i 5Stelle hanno avuto un certo feeling.)
In realtà ci siamo già occupati di questa presunta precedente presenza di alti ideali democratici e di solidarietà, mostrando come, nel corso del processo normativo dei trattati, non ve ne sia traccia, né nella fase fondativa, né nella fase evolutiva e tantomeno in quella culminata in Maastricht e sue successive modifiche.
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Terrorismo e guerra infinita
Intervista alla redazione di Il Cuneo Rosso
Trovate qui un’intervista fatta alla redazione del Cuneo rosso da un redattore de “Il pane e le rose” a seguito del documento “Parigi, Bruxelles e la guerra infinita“, riguardo all’islam politico e alla guerra infinita dichiarata dalle potenze occidentali alle masse arabo-islamiche
1) Cominciamo dall’ISIS. In un vostro scritto del mese di aprile, intitolato “Parigi, Bruxelles e la guerra infinita” – pur sottolineandone l’ideologia reazionaria – esprimete l’esigenza di distinguere tra una critica di classe e una borghese a questa componente dell’islam politico…
Risposta – Sì, per noi è fondamentale la più rigorosa separazione dalla campagna di stato contro l’ISIS. Follìa, fanatismo, barbarie, odio per la democrazia, e altre balle del genere sono i temi ripetuti fino alla nausea dai mass media per arruolarci nella guerra che, a dire loro, l’ISIS ci avrebbe dichiarato. Questa propaganda di stato, rilanciata alla grande dagli ultimi attentati a Orlando in Florida e a Dacca, rovescia il rapporto causa-effetto, e nasconde il reale contenuto della lotta dell’ISIS e del jihadismo.
Punto primo: non sono stati né l’ISIS, né il jihadismo ad avere aperto la guerra in corso. È stato l’intero Occidente, con l’avallo morale di Gorbaciov, a scatenarla, se non vogliamo risalire ancor più indietro, dal 1990-’91, con la prima aggressione all’Iraq di Saddam Hussein – la successiva è stata nel 2003. Da allora non c’è stato un solo giorno di tregua: Iraq (straziato anche da uno spietato embargo dell’ONU, che costò la vita a 500.000 bambini), Somalia, Palestina, Libia, Afghanistan, Sudan, Pakistan, Siria, etc., ovunque le armate yankee, europee, israeliane, hanno colpito nel mucchio, facendo montagne di cadaveri (6-8 milioni, si stima) e fiumane di profughi (almeno altrettanti), e producendo distruzioni apocalittiche.
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Governare il vuoto? Neoliberalismo e direzione tecnocratica della società
Alessandro Somma
Recentemente è uscito per Rubbettino "Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti", traduzione in italiano dell'opera incompiuta del prematuramente scomparso Peter Mair, dedicata alla crisi della partecipazione popolare alla vita politica. L'errore dell'autore sta tuttavia nella indebita separazione dell'analisi del livello politico della crisi da quella del livello economico.
Peter Mair, politologo irlandese di fama mondiale, è scomparso prematuramente nel 2011, quando stava lavorando a un volume sulla crisi della partecipazione popolare alla vita democratica come fenomeno tipico delle società occidentali. L’opera è rimasta dunque incompiuta, ma è stata integrata con altri interventi dell’autore e pubblicata su iniziativa della “New Left Review”: il prestigioso periodico della sinistra postmarxista che già aveva ospitato un ampio contributo di Mair anticipatore delle principali tesi poi sviluppate nel libro[1]. Di quest’ultimo è da poco uscita una traduzione italiana per i tipi di Rubbettino[2], la piccola ma vivace casa editrice nota soprattutto come amplificatrice del pensiero neoliberale.
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La redicalizzazione del male
Ovvero il sistema mondiale del terrore
di Sebastiano Isaia
«Il Centro è dappertutto» (Nietzsche). Esattamente come il Dominio
La disputa sulla natura della «Terza guerra mondiale a pezzetti» si fa di giorno in giorno sempre più stucchevole, ma anche sempre più sintomatica della realtà che stiamo vivendo – e subendo. Scrive ad esempio Giuliana Sgrena sul Manifesto:
«Sostenere che quella in corso non è anche una guerra di religione sarebbe come negare la storia, dalle Crociate in poi, e abiurare i testi sacri delle religioni monoteiste. Certo il papa fa il suo mestiere e usa la religione per predicare la pace. Del resto non c’è dubbio che dietro la religione si nascondano altri interessi: economici, geopolitici, di potere. Ma si può dire che la religione è estranea alle lotte di potere? Non lo è e non lo è mai stata, è sempre esistito nella storia un intreccio perverso tra lotta politica e religione. Lo scontro in Medio Oriente tra la corrente sunnita (guidata dai wahabiti sauditi) e quella sciita (con a capo l’Iran) dell’islam non riguarda solo la religione».
Ora, almeno da due millenni a questa parte non c’è stato un solo evento storico e un solo fenomeno socialmente rilevante che non abbiano assunto una più o meno precisa fisionomia politico-ideologica, non importa se a sfondo laico (per parlare solo dell’ultimo secolo: nazionalismo, “socialismo”, nazionalsocialismo, razzismo, ecc.) o religioso.
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L'autunno degli epistemiarchi
L'Asia sfida i monopoli della conoscenza?
di Domenico Fiormonte*
La questione cruciale è l'intreccio fra ruolo degli oligopoli, ranking dell'università e valutazione della ricerca
La multinazionale dell'editoria Thomson Reuters ha annunciato lo scorso 10 luglio di aver venduto a due fondi di investimento, Onex Corporation e Baring Private Equity Asia, tutte le attività legate all'editoria accademica e scientifica per 3,55 miliardi di dollari. La notizia, soprattutto di questi tempi, non è fra quelle che scuotono gli animi. Eppure si tratta di un evento importante, in grado di mettere in discussione l'assetto dell'editoria globale e aprire nuovi scenari[1]. Ma per comprendere la dimensione del problema, occorre fare un passo indietro.
I primi quattro gruppi editoriali al mondo sono tutti editori scientifico-professionali che vendono soprattutto accesso alle proprie banche dati: Pearson (Regno Unito), Thomson Reuters (Canada), RELX Group (ex Elsevier, Regno Unito, Paesi Bassi e Stati Uniti), Wolters Kluwer (Paesi Bassi). Il quinto in classifica è Penguin Random House, del colosso tedesco Bertelsmann. Tuttavia uno sguardo ai ricavi fa impallidire qualsiasi editore generalista: nel 2014 Pearson è primo con un fatturato di oltre 7 miliardi di dollari, segue Thomson Reuters con 5,7, RELX con 5,3, Wolters Kluwer con 4,4 e finalmente Penguin con 4.
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Mettere le mani nella merda
di Sandro Moiso
Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90
Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da Chiarelettere, ha dovuto immergere più che le mani in un intreccio di interessi ed attività che quasi mai è stato così potentemente indagato e scoperchiato.
Antonio Amorosi, coautore nel 2008-2009 del libro «Tra la via Emilia e il clan» sulla presenza della criminalità organizzata in Emilia Romagna, 1 è stato assessore alle politiche abitative del Comune di Bologna per la giunta Cofferati tra il 2004 e il febbraio 2006. Ruolo da cui si è dimesso dopo aver denunciato2 un sistema illecito nelle assegnazioni delle case popolari del Comune di Bologna. Da anni si dedica al giornalismo di inchiesta e collabora con diversi quotidiani, riviste e radio nazionali.
Occorre qui subito dire che, nel prendere in mano il libro, il lettore si troverà davanti a pagine dense (a volte fin troppo) di dati, nomi, fatti e cifre che rendono il testo paragonabile ad una sorta di Gomorra delle attività lecite o meno della struttura economico-finanziaria sviluppatasi intorno a quel sistema di governo che ha fatto dell’Emilia Romagna, soprattutto, la vetrina della proposta sociale e politica di quello che è stato, prima, il più grande Partito Comunista dell’Occidente e, poi, il successivo PDS-DS-PD.
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Una stagnazione costruita
di Anonimo Keynesiano
Dal 2013 un antico spettro è tornato a percorrere le stanze del Fondo Monetario Internazionale e delle principali istituzioni economiche occidentali: quello della stagnazione secolare. Il concetto, battezzato dall’economista keynesiano Alvin Hansen nel 1939, si riferisce alla possibilità che un rallentamento nella crescita della popolazione e/o nel progresso tecnologico e nella scoperta di nuovi territori fertili ed abitabili possa determinare una tendenza dell’economia alla stagnazione nel lungo periodo.
L’idea che vari fattori di carattere strutturale, al di là della crisi finanziaria scaturita nel 2007-2008, siano all’origine della bassa crescita della produttività registrata negli USA e nell’Eurozona, così come della scarsa crescita del PIL soprattutto in quest’ultima area, è stata recuperata proprio nel 2013 dall’economista Larry Summers, già Segretario al Tesoro degli Stati Uniti per l'ultimo anno e mezzo della presidenza Clinton. Nelle varie occasioni in cui Summers ha trattato il tema della stagnazione secolare, è interessante notare come un esponente di spicco di quel pensiero mainstream che ha contribuito a demonizzare la politica fiscale come possibile strumento di abbattimento della disoccupazione e lotta alle disuguaglianze veda ora in essa l’unica via d’uscita dal tunnel.
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Referendum costituzionale
Tutto quello che devi sapere prima che l'Italia diventi "la Repubblica del TTIP"
di Giorgio Cremaschi
"Bisogna votare No alla controriforma, affinché l'Italia sia ancora una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sulle banche"
Pochi giorni fa George Soros sul Corriere della Sera dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo: la finanza e le banche, quell'1% di super ricchi che oggi ha in mano il potere, hanno diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il SI a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare.
Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.
La legge Boschi sistematizza processi di riduzione dei poteri e dei diritti popolari e del lavoro, di centralizzazione del potere, iniziati negli anni 80 del secolo scorso con i governi di Bettino Craxi. Non a caso è in quegli anni che si comincia a parlare di governabilità e decisionismo. Allora si lanciò il progetto di una "grande riforma" che superasse il sistema costituzionale uscito dalla sconfitta del fascismo e rafforzasse il potere di decidere del governo e del suo capo.
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La sposa occidentale e l'amante orientale
di Pierluigi Fagan
Russia, Iran, curdi, Siria, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Francia, Germania, Unione europea, Stati Uniti d’America, Tutti questi attori sono stati variamente invocati e convocati per spiegare il fallito colpo di stato turco e tutti loro sono sotto esame per capire dove si volgeranno le prossime relazioni internazionali turche. Ma non ci siamo scordati qualcuno?
Tre anni fa, nel mentre la Turchia ribadiva la sua fedeltà atlantica e nel mentre si sottoponeva al decennale corso di idoneità per sposarsi con l’Unione europea, processo kafkiano che dal 2005 ha rinnovato esami e scadenze senza mai approdare a nulla di concreto, la Turchia si faceva l’amante e ad Aprile 2013, entrava come osservatore nella Shanghai Cooperation Organization SCO. La SCO, ha come membri effettivi la Cina, la Russia, i tagiki, i kazaki, i khirghizi e gli uzbeki. Questi ultimi quattro, tutti musulmani e tutti sunniti, sono nazioni della zona da cui -in parte- originano i popoli turchi che non sono indigeni dell’Anatolia. India e Pakistan hanno appena firmato il protocollo formale di adesione alla SCO e quando il processo si concluderà, presumibilmente Giugno dell’anno prossimo (2017), diverranno membri effettivi. Sono gravitanti intorno alla SCO in qualità di membri osservatori: l’Iran, la Mongolia, la Bielorussia e l’Afghanistan. Sono invece partner di dialogo: lo Sri Lanka, il Nepal, la Cambogia, l’Azerbaigian, il Bangladesh e l’Armenia.
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La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano
di Claudio Lucchini
Sia pur in termini generali e sganciata da un’illustrazione particolareggiata di come dovrebbe articolarsi il funzionamento quotidiano di una società comunista, la prefigurazione concretamente utopica, cioè realmente attuabile sulla base di determinate condizioni sociali complessive, di modi di vita e di lavoro trascendenti l’orizzonte storico delle estraniazioni classiste e capitalistiche, è parte integrante ineludibile del pensiero marx-engelsiano, che perderebbe anzi, senza di essa, una propria decisiva componente.
Non è certo un caso che, dopo aver minuziosamente citato il celebre brano marxiano dei Grundrisse relativo alle fondamentali forme storiche occidentali dei legami sociali interumani colti nella loro valenza assiologica rispetto alla formazione della personalità individuale, brano in cui si teorizzano al contempo le condizioni indispensabili al sorgere della libera individualità integrale comunista, Costanzo Preve commenti con piena ragione:
A mio avviso, questa è la più importante citazione filosofica che si possa fare spigolando nelle pagine di Marx. Nessuna altra citazione le è pari, neppure quella del giovane Marx sulla «alienazione». Qui Marx compendia la sua filosofìa della storia, senza la quale le migliaia di pagine sulla crisi capitalistica, sui profitti e sui prezzi, sulle classi ecc. sono assolutamente mute e prive di qualsiasi espressività. Il fatto è che Marx aveva deciso di respingere la conoscenza filosofica […], ma era nello stesso tempo una persona intelligente, acuta e sensibile, e allora la filosofia non poteva fare a meno di tornare comunque nel processo della sua elaborazione di pensiero.
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Il fallimento del multiculturalismo
di Cecilia M. Calamani
Il multiculturalismo, così come l’Europa lo ha pensato e applicato negli ultimi decenni, ha fallito. È questa la tesi che Kenan Malik, filosofo britannico di origine indiana, sviluppa nel suo breve saggio “Il multiculturalismo e i suoi critici – Ripensare la diversità dopo l’11 settembre”, tradotto e pubblicato in Italia (maggio 2016) da Nessun Dogma. Il tema, in questo sanguinario periodo di attacchi terroristici sferrati al cuore laico dell’Europa, è di estrema attenzione e assume il carattere dell’urgenza.
Malik fornisce una chiave di lettura tutt’altro che banale delle politiche europee che, nel nome dell’integrazione sociale e del rispetto della diversità, hanno generato risultati agli antipodi di quelli voluti o quanto meno dichiarati. Come scrive lui stesso nell’introduzione, «Questo libro è una critica al multiculturalismo. È anche una critica ai suoi critici».
Naturalmente bisogna prima intendersi sui termini. E cioè su cosa si intenda per multiculturalismo e cosa per il suo contrario, due categorie di pensiero strettamente connesse a quelle di appartenenza politica. L’idea multiculturale, abbracciata dalla sinistra europea, promuove le iniziative mirate a gestire la diversità definendo e rispettando i bisogni e i diritti di ognuno. Ma ciò secondo l’autore porta necessariamente a inserire le persone in contenitori etnici e a rafforzarne i confini, siano essi fisici o culturali, anziché abolirli.
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Ucraina: popolo in miseria e timori tra i golpisti
di Fabrizio Poggi
La situazione sociale ed economica ucraina è in caduta libera: lo dimostrano alcune cifre pubblicate a Kiev e altre rese disponibili a Langley. I sondaggi del Comitato statale di statistica (ComStat) indicano che il 72% degli ucraini si dichiara “povero” (era il 57% nel 2008, anno di crisi) e solamente lo 0,7% (il 2% nel 2008) ritiene di far parte della “classe media”, mentre è scesa dal 41 al 27% la porzione di popolazione che considera il proprio stato a metà strada tra povertà e “condizione media”. Soltanto il 6,2% delle famiglie considera il proprio reddito sufficiente e riesce a mettere da parte qualcosa. Il ComStat scrive di un 43% di famiglie che rinunciano costantemente all’essenziale, tranne il cibo e un 46% che riesce a far pari, senza però fare risparmi; ma il 4,9% delle famiglie, nel 2015 non ha potuto assicurarsi nemmeno gli alimenti quotidiani e ha dovuto digiunare per 1 o 3 giorni.
La questione, ovviamente, non riguarda oligarchi quali Rinat Akhmetov, Igor Kolomojskij, Gennadij Bogoljubov o Viktor Pinčuk che, con un patrimonio complessivo di 7,2 miliardi di $, detengono poco meno del 30% della ricchezza totale (circa 24 miliardi di $, secondo la classifica di Focus Ucraina: miliardo più, miliardo meno, secondo le diverse classificazioni) dei 100 uomini più ricchi d’Ucraina.
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E se il lavoro fosse senza futuro? (IV Parte)
Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato
Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 6/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Qui, qui, qui le parti precedenti.
Presentazione sesto quaderno di formazione on line
Dopo aver ricostruito la genesi della tesi della fine del lavoro e aver richiamato le critiche che le sono state rivolte, nei quaderni precedenti abbiamo analizzato lo sviluppo del rapporto di lavoro. In particolare ci siamo concentrati sia sulla prima fase, corrispondente all’affermarsi dei rapporti capitalistici, sia alla seconda fase nella quale, sulla base delle politiche keynesiane ha preso corpo lo stato sociale moderno. Nelle pagine che seguono, e in quelle del successivo quaderno ci soffermiamo invece sull’evoluzione recente del rapporto di lavoro salariato, quando né il capitale, né lo stato sociale si sono dimostrati in grado di riprodurlo sulla scala necessaria a garantire un livello fisiologico di occupazione.
Parte sesta
La caduta nel labirinto
Capitolo diciottesimo
Fenomenologia dello smarrimento sociale
“L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria
condizione è l’esigenza di abbandonare una condi-
zione che ha bisogno di illusioni.” (Karl Marx 1843)
Iniziamo il nostro cammino esplorativo sul futuro del lavoro salariato riprendendo alcuni degli interrogativi che avevamo lasciato in sospeso.
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Dove comincia il Sud?
Generazione, questione meridionale ed empatie ribelli al tempo della mobilità europea
di Carla Panico
1. “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà.” (G. Mazzini)
C’è un treno che corre tra gli uliveti pugliesi, attraverso il rosso di una terra riarsa dal sole. È un treno locale, che trasporta per lo più lavoratori e studenti universitari pendolari. È uno dei treni della vergogna, piccolo snodo di un sistema di trasporti che non è di certo un fiore all’occhiello dell’intero Paese, ma che in questo lembo di Italia racconta in particolare una storia di arretratezza, sottosviluppo, mancata modernità. O almeno, questo è il lessico con cui si racconta il Sud.
Il destino a cui è corso incontro quel treno è ormai fin troppo noto, è stato raccontato da immagini ed emozioni e da quella rabbia che, poche ore dopo, già disinnescava per mezzo di una narrazione collettiva l’auto-indulgente versione dell’”errore umano”.
A irrompere sulla scena, invece, è stata una montagna di dati: quelli che snocciolano, cifra dopo cifra, la storia del mancato investimento sul Sud, del 98% delle risorse nazionali riversato sul sistema ferroviario del Nord, dei fondi europei finiti chissà dove, dei binari unici, degli infiniti possibili disastri finora incredibilmente evitati, e non di quello che si è verificato. E poi le storie, quelle di chi su quei treni ci viaggia, perché per farlo bisogna, per certo, avere una buona ragione: bisogna avercela per inseguire i ritmi meridiani delle strade ferrate di questo pigro Italian Sud Est1.
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Riforma della Costituzione: cronologia di un golpe non perseguibile
di Stefano Alì
Come nasce la riforma della Costituzione che ci viene proposta dal volto rassicurante e sorridente di Maria Etruria Boschi? Una cronologia per inquadrarla nel giusto contesto
Nel post “Riforme renziane: P2, JP Morgan e UBS ordinano. Napolitano esegue” ho iniziato una cronologia di fatti che hanno portato alla proposta di riforma della Costituzione targata Napolitano-Renzi-Boschi-Verdini.
Riassumendola tralasciando il punto di inizio (il piano di rinascita democratica di Licio Gelli) 1.
- 28 Maggio 2013: Documento JP Morgan (Le Costituzioni del sud Europa sono troppo democratiche);
- 10 Giugno 2013: Deposito in Senato del DDL Costituzionale per la temporanea deroga all’art. 138 della Costituzione. Iter velocissimo (altro che pantano del bicameralismo perfetto). Prima lettura al Senato 11 Luglio. Alla Camera 10 Settembre. Seconda lettura al Senato 23 Ottobre. Non è approdata alla Camera per la seconda lettura. Durante l’iter parlamentare l’occupazione del tetto di Montecitorio da parte del Movimento 5 Stelle;
- Dicembre 2013: Enrico Letta rinuncia alla deroga all’art. 138. Napolitano non la prende bene;
- 8 Gennaio 2014: Documento UBS che già incorona Renzi alla Presidenza del Consiglio (a un mese dal fatidico #Enricostaisereno). Con il preciso incarico di portare a termine le riforme;
Il 13 Febbraio Renzi licenziò Letta in Direzione PD e il 17 Febbraio Re Giorgio Napolitano affidò a Renzi l’incarico di formare il Governo. Fin qui ne ho già scritto 1.
Aggiungiamo qualche tassello.
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Quattro volti di Jacques Lacan
di Massimo Recalcati
Il saggio che segue[1] è tratto da Un cammino nella psicoanalisi. Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza (Mimesis), una raccolta di scritti di Massimo Recalcati a cura di Mario Giorgetti Fumel, uscita nelle scorse settimane
Un sogno di Lacan
Mi è capitato poche volte di sognare Lacan. In uno di questi sogni mi appariva come scomposto da uno specchio che rifrangeva la sua immagine in modo che apparissero, stratificati come in un quadro cubista, diversi volti di Lacan.
L’impressione era quella di qualcosa che sfuggiva a una resa identitaria coerente, che il volto di Lacan non si lasciasse catturare mai in uno solo. Lo sognavo attraverso l’oggetto che lo aveva reso celebre (lo specchio, la sua teoria dello “stadio dello specchio”), ma il suo volto si moltiplicava come se la sua testa fosse quella di un alieno. Nel sogno restavo disorientato fi no alla nausea di fronte a questo strano collage. Mi stropicciavo gli occhi chiedendomi se era la mia vista a essere alterata oppure se ciò che vedevo aveva una sua propria consistenza. Ripensando al sogno, una delle mie prime associazioni legò i diversi volti di Lacan ai suoi quattro discorsi.
I volti attraverso i quali mi appariva erano forse quattro come i suoi discorsi?
Una volta il mio amico Rocco Ronchi pose un interrogativo sulla natura del discorso di Lacan; se era uno dei quattro discorsi qual era?
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Brexit come crisi dell’Uem e della globalizzazione
di Domenico Moro
Contrari e favorevoli alla Brexit
L’uscita del Regno Unito dalla Ue, la cosiddetta Brexit, è stata universalmente giudicata come un fatto di notevole rilevanza. Tuttavia, non c’è accordo né sulle cause né sulle implicazioni politiche generali. A parere di chi scrive, la Brexit ha a che fare non solamente con la Ue, ma anche e soprattutto con la Uem, l’unione monetaria europea, essendo una conseguenza della divaricazione dei contrasti tra paesi che appartengono all’area euro e paesi che non appartengono all’area euro. L’allargamento di questa contraddizione è dovuta all’accelerazione del processo di integrazione europea, che si fonda sul suo nocciolo centrale costituito dai 19 Paesi dell’euro.
In effetti, Brexit appare essere il risultato non di una sola causa, ma di molteplici e diversi fattori intrecciati tra loro. Quindi, è necessario individuarli, valutandone il peso e l’importanza relativa. In primo luogo è necessario capire quali classi e settori di classe hanno sostenuto Brexit e quali gli si sono opposti. Contro Brexit era la City di Londra, che, insieme a New York, è una delle due maggiori piazze finanziarie mondiali e che rappresenta il 12% del Pil britannico. Secondo un sondaggio, tra le imprese appartenenti alla CBI, la confindustria britannica, l’80% era contrario all’uscita dalla Ue, il 15% incerto e solamente il 5% favorevole1.
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Porcherie bersaniane
di Leonardo Mazzei
Ecco in pista la legge anti-M5S. Porta la firma di Bersani... sempre fedele alla "Ditta"
Si può fare una legge elettorale più antidemocratica dell'Italicum? Ovviamente sì. Al peggio, si sa, non c'è limite. E la minoranza Pd (per favore non chiamiamola "sinistra") è lì per ricordarcelo.
Ieri l'altro alla Camera il mitico Roberto Speranza, il campione mondiale delle ritirate parlamentari, ha presentato l'ennesima legge elettorale truffa. Se ne sentiva la mancanza... Ma dire truffa è dire poco, perché il cosiddetto "Bersanellum" - dal nome del capo un po' suonato di una corrente sempre più stordita - è il peggio che sia mai stato presentato sull'italica piazza. E sì che nella fiera di questi anni se ne son viste e sentite di tutti i colori.
Diciamo che in un'ipotetica graduatoria, da zero a dieci, sulla democraticità delle varie leggi elettorali, se il voto all'Italicum è due, quello al Bersanellum non può che essere zero.
Ma perché ce ne occupiamo, visto che i bersaniani contano (e meritatamente) come il due di picche quando briscola è denari? La ragione è presto detta: perché costoro hanno alle spalle ben altre forze. Ad oggi la loro proposta è destinata a restare in frigorifero, ma dopo il referendum verrà di certo scongelata.
Quali sono le forze che si muovono dietro l'improbabile Speranza? Ieri mattina, in un'intervista al Foglio, ecco dove va a parare Giorgio Napolitano:
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Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico
di Gioacchino Toni
Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00
Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e da Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come agli sponsor ed ai “creatori di eventi”, un po’ di polemica piace sempre. Ora i media torneranno a parlare di graffiti solo per celebrare qualche associazione impegnata a ripristinare il candido decoro urbano prevandalico, per promuovere qualche nuova mostra dispensatrice di aura ufficiale o per motivi di ordine pubblico. Difficilmente la questione graffiti urbani potrà uscire da questa trattazione schematica.
Al di là della semplificata e rigida partizione con cui se ne occupano i media, sono davvero così impermeabili l’uno all’altro questi diversi fronti? A ricostruire il quadro della situazione viene in aiuto il saggio di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. In tale volume il fenomeno del graffitismo viene trattato dal punto di vista estetico, sociale e culturale a partire dall’analisi tanto delle motivazioni che muovono i giovani writer ad intervenire sulle mura urbane, sfruttando il buio della notte e giocando a guardie e ladri con l’autorità, quanto quelle del fronte antigraffiti. Da un lato gli autori del testo si preoccupano di palesare le contraddizioni che attraversano i diversi schieramenti che non possono essere ricondotti a soli due soggetti, writer e antiwriter. Dall’altro lato il saggio evidenzia come alcune “categorie di pensiero” tendano a travalicare i diversi fronti in campo. Davvero, come evidenziano i due studiosi, parlare «sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (p. 19) e se c’è «un fenomeno culturale che illustra a meraviglia il funzionamento tautologico e circolare dei meccanismi sociali in un mondo complesso, si tratta proprio dei graffiti e delle campagne per cancellarli» (p. 153).
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Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa
di Francesco Ravelli
In questa intervista, che è possibile leggere anche qui, Francesco Ravelli pone una serie di domande a Gianfranco La Grassa. A uno studioso, cioè, che negli ultimi decenni da un ripensamento di Marx, teso alla difesa e all’attualizzazione del suo lascito teorico (sintomatico il titolo del primo blog a cui ha collaborato: «Ripensare Marx»), è approdato, come si dice nel ‘Chi siamo’ del successivo blog «Conflitti e strategie» (divenuto dopo un ultimo, recentissimo, ritocco: «Geopolitica. Conflitti e strategie»), ad «un sistema analitico fondato sulla teoria degli agenti strategici e del conflitto interdominanti a livello geopolitico».
Domande e risposte offrono una buona occasione per interrogarsi su una questione che a me pare tuttora decisiva e per molti versi irrisolta. Semplificando, la formulerei così: la storia fallimentare della costruzione del socialismo nel Novecento ha liquidato anche la teoria di Marx? O, se il suo lascito non è andato del tutto in rovina, vale la pena d’interrogarsi ancora su “tutto Marx” (filosofo-scienziato-organizzatore politico) oppure, come fa La Grassa, salvare solo il “Marx scienziato”, liberandoci del suo “errore”, e cioè della sua « previsione del movimento [della società capitalista] verso il socialismo e comunismo»?
Avendo già letto l’intervista, ho trovato che le domande di Ravelli (ma in parte anche le risposte di La Grassa) sono esposte in un gergo specialistico faticoso da comprendere per chi non abbia dimestichezza col dibattito (spesso scolastico e persino noioso) sulla “crisi del marxismo”. Tuttavia, le questioni affrontate sono importanti e l’intervista merita di essere letta e discussa. E per agevolarne (innanzitutto a me stesso e magari a una parte dei lettori di Poliscritture) la comprensione, corro volentieri il rischio di tradurre in “lingua comune” sia le domande di Ravelli che le risposte di La Grassa.
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