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La feroce guerra di Trump&Co. al “nemico interno”
2. In cammino verso la guerra civile…
di Il Pungolo Rosso
Al termine della prima puntata di questa serie dedicata alla guerra di Trump e sgherri al “nemico interno”, scrivevamo: “nella prossima ragioneremo sulle cause e le conseguenze di queste politiche che designano, nel declino storico della superpotenza statunitense, il cammino ad una nuova guerra civile.” E’ su questa tendenza che ci concentriamo ora. Partiamo da due commenti di vecchie volpi comparsi su “La Stampa”, dove si affronta l’accelerazione autoritaria in corso e il connesso rischio di una “guerra civile” assumendo piuttosto palesemente un’ottica di classe. Segue l’analisi di un articolo di C. Hedges, ricco di eloquenti testimonianze dalla pancia del movimento MAGA. Infine, dopo aver ripreso un nostro contributo relativo a intensità e qualità del conflitto negli U.S.A., cerchiamo di dimostrare la sciagurata razionalità della marcia autoritaria del governo Trump, la cui ragion d’essere risiede nei bisogni della “corporate America”. L’articolo si muove nel tempo sospeso e carico di avvenire che segue immediatamente il delitto Kirk.
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1. In un suo recente commento (La Stampa, 12 set. 2025), Alan Friedman dà una lettura dell’attentato Kirk come evento polarizzante in un’atmosfera surriscaldata, e quindi come catalizzatore dello scontro politico e sociale. Con la prospettiva dell’establishement democratico, insieme conservatrice e lungimirante, l’articolo dà il polso della situazione negli Stati Uniti in termini complessivi, politici.
Friedman vede un rischio per la “democrazia e la società civile” statunitensi, cioè per lo Stato e l’ordine sociale, ordine di classe, razzista e sessista.
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Ottobre, 2025: accade l'impossibile
di Pierandrea Amato
Di che cosa è nome la navigazione della Flotilla? Può avere il suo coraggio una consistenza filosofica? A un paio di settimana dalla sua impresa si possono cominciare a fare i conti con il significato di un gesto che probabilmente non si esaurisce esclusivamente con una straordinaria traversata. L’ipotesi è che Flotilla sia un atto di diserzione in grado di configurare un momento di resistenza capace di evocare un gesto di rivolta riuscendo a lacerare la desolazione e l’impotenza che il genocidio organizzato a Gaza da Israele aveva scatenato. È un’insurrezione disarmata impegnata a fare i conti con l’inaudito: il genocidio come progetto democratico di governo dell’esistenza. Per questa ragione è considerata qui un’esperienza impossibile, cioè, capace di schiudere uno spazio perché possa accadere un evento politico difficile solo da immaginare anche solo un momento prima della sua materializzazione.
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All’improvviso, come generalmente accade quando la politica si prende la scena, un’insurrezione disarmata invade l’Italia: frequenta luoghi imprevisti, concepisce gesti inattesi, è composta da una molteplicità misteriosa di ogni età. Ma non è tutto: le manifestazioni si susseguono anche di notte, esplorando orari inediti, facendo luce nell’oscurità (lo ricordava già Walter Benjamin: quando irrompe la politica chiamata a cambiare le cose, quando accade l’inimmaginabile, la prima cosa che accade è un’interruzione del tempo cronologico, del suo andamento normale: si colpiscono gli orologi; il tempo si ferma e si fa strada un altro tempo nel tempo). Occupazioni di porti, aeroporti, stazioni, di carreggiate autostradali: la marea non può essere fermata; la polizia desiste e il governo si polverizza. Assistiamo a un atto di resistenza che rovescia i rapporti di forza, che riesce a rendere goffe e grottesche – ma non per questo meno pericolose – le posizioni governative. Si tratta di una resistenza che scompagina il quadro, che tende a redimere due anni terribili: silenzi, impotenza, incredulità di fronte al genocidio.
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Il genocidio è americano
di Piero Bevilacqua
Non lasciamoci ingannare. Quella ottenuta da Trump non è una pace, ma per il momento una tregua, un cessate il fuoco, comunque benvenuto per le martoriate popolazioni palestinesi. Esso schiude spiragli per il futuro aperti a importanti possibilità su cui occorrerà ritornare. La rivolta di massa che ha investito i paesi europei, le divisioni interne allo stato di Israele, lo scandalo della posizione genocida americana di fronte al mondo, ha costretto Trump, o qualche suo influente consigliere, a intervenire con qualche soluzione che fermasse il massacro. Il sollievo che proviamo in questo momento, le emozioni che ci suscitano le immagini dei disperati, che festeggiano la tregua tra le rovine delle proprie case, non ci deve, tuttavia, annebbiare la mente, né far desistere dai compiti dell’analisi storica. L’unica in grado di restituire la corretta lettura dei fatti. Anche se oggi bisogna pur sottolineare un fatto di grandissimo rilievo: la potenza politica delle mobilitazioni di massa. Quello che non hanno fatto gli stati di quasi tutto il mondo, il Parlamento europeo, le inconsistenti élites di un continente alla deriva, lo hanno fatto milioni di cittadini, tantissimi ragazzi e ragazze che per giorni e giorni sono scesi nelle strade nostre città. Ma il fine di questo articolo è un altro.
Oggi, in Italia, assistiamo a un evidente fenomeno di comportamento gattopardesco. Di fronte all’abbagliante evidenza del genocidio compiuto a Gaza, i narratori delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente cominciano ad ammettere qualcosa, ma non per rivedere errori di valutazione, accennare a un’onesta autocritica. No. Cedere su questa o quella questione particolare risponde a un intento politico preciso: mantenere intatta la visione egemonica che il genocidio manda in frantumi. Esponenti politici, giornalisti, intellettuali democratici (soprattutto quelli democratici) sono pronti a scaricare i sensi di colpa con cui per due anni hanno nascosto e giustificato i massacri, concedendo che, si, “Israele ha sbagliato, doveva fermarsi prima”, e qualcuno osa persino esporsi con “Netanyahu è un criminale”. E altre concessioni di simile tenore. Ammissioni più penose per superficialità delle menzogne precedenti. Se poi si fa cenno alle responsabilità americane naturalmente tutte vengono selettivamente concentrate sul violento e imprevedibile Trump, che aveva proposto di trasformare Gaza in un resort per miliardari come lui.
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Sull’intelligenza artificiale e sulla stupidità naturale
di Giorgio Agamben
«Comincia un’epoca di barbarie e le scienze saranno al suo servizio». L’epoca di barbarie non è ancora finita e la diagnosi di Nietzsche è oggi puntualmente confermata. Le scienze sono così attente a esaudire e persino precorrere ogni esigenza dell’epoca, che quando questa ha deciso che non aveva voglia né capacità di pensare, le ha subito fornito un dispositivo battezzato “Intelligenza artificiale” (per brevità, con la sigla AI). Il nome non è trasparente, perché il problema dell’AI non è quello di essere artificiale (il pensiero, in quanto inseparabile dal linguaggio, implica sempre un’arte o una parte di artificio), ma di situarsi al di fuori della mente del soggetto che pensa o dovrebbe pensare. In questo essa assomiglia all’intelletto separato di Averroè, che secondo il geniale filosofo andaluso era unico per tutti gli uomini. Per Averroè il problema era conseguentemente quello del rapporto fra l’intelletto separato e il singolo uomo. Se l’intelligenza è separata dai singoli individui, in che modo questi potranno congiungersi ad essa per pensare? La risposta di Averroè è che i singoli comunicavano con l’intelletto separato attraverso l’immaginazione, che resta individuale. È certamente sintomo della barbarie dell’epoca, nonché della sua assoluta mancanza di immaginazione, che questo problema non venga posto per l’intelligenza artificiale. Se questa fosse semplicemente uno strumento, come i calcolatori meccanici, il problema in effetti non sussisterebbe.
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La bolla sta per esplodere. Meloni impone agli italiani di metterci tutti i loro risparmi
di OttolinaTV
Sembra un film dell’orrore: la più grande bolla speculativa della storia del capitalismo globale è sull’orlo di esplodere; tutti si affannano per cercare delle alternative, e la Giorgiona nazionale cosa fa? Una serie di leggi che permettono ai grandi fondi di andare a prendere i risparmi dei poveri lavoratori italiani con la forza per buttarli nel calderone dei mercati finanziari USA sull’orlo del collasso. L’abbiamo sempre definita bonariamente la cameriera di Trump; eravamo stati ottimisti: è il più feroce degli esattori del tributo imperiale dei nostri giorni, un moderno sceriffo di Nottingham alla caccia dei nostri TFR. Ce lo siamo fatti spiegare dal nostro buon Alessandro Volpi.
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D’altronde, che vuoi discutere? Non è che uno, quando ti viene a rapinare, di solito chiede il consenso; e che, in questo caso, si tratti a tutti gli effetti di una vera e propria rapina è piuttosto plateale. Ancorare le aspettative dei lavoratori salariati ai capricci dei mercati finanziari è una porcata, sempre; ma almeno, in altre circostanze, si poteva far finta che tutto sommato convenisse anche a loro. Più che una rapina, insomma, era una specie di ricatto: non ti metto in condizioni di vivere una vita dignitosa, però, se il casinò della finanza continua a correre, qualche briciolina te la concediamo pure a te.
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Il premio nobel all'assistenzialismo per ricchi
di comidad
Mai sottovalutare le riscoperte dell’acqua calda. La prima ovvietà da considerare è l’assurdo di un premio Nobel per la pace assegnato da un organo politico di un paese che fa parte di un’alleanza militare. La Norvegia è un membro della NATO e ne persegue la politica “occidentalista” (eufemismo di suprematismo bianco) anche attraverso le pubbliche relazioni, nel cui ambito c’è da annoverare appunto il premio Nobel. Il premio è stato negato a Trump, ma non per voler fargli torto, bensì per istigarlo a proseguire sulla strada dell’aggressione economica e militare al Venezuela. Magari a qualcuno del Pentagono potrebbe sorgere il timore che gli USA si stiano sovraesponendo sul piano militare; meno male che arrivano gli europei a presentare il regime di Maduro come una minaccia intollerabile alla sopravvivenza dell’umanità. La signora insignita del Nobel, Maria Corina Machado, peraltro è entusiasta di Trump e ne appoggia gli obbiettivi e i metodi, quindi le stanno bene le sanzioni, i tentativi di colpo di Stato e di decapitazione del regime; e persino l’attività di calunniatore e assassino nei confronti di persone che navigano su piccole imbarcazioni a grande distanza dalle coste del Venezuela.
Era prevedibile e scontato anche il plauso di Roberto Saviano per il riconoscimento assegnato a una delle principali esponenti della cosiddetta “opposizione” (un altro eufemismo che sta per golpismo) al regime di Maduro, il quale sarebbe corruzione mascherata da socialismo. Magari un giorno Saviano ci rivelerà quale sia a questo mondo il regime non corrotto. Più realisticamente occorrerebbe dire che ci sono regimi della cui corruzione è lecito e conveniente parlare, e regimi della cui corruzione non è il caso di parlare troppo se non vuoi guai, visto che sono quelli che comandano dalle nostre parti.
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Altro che Hamas!
di Antonio Castronovi
Niente! Non c’è niente da fare! I pruriti anti-Hamas dell’esthablishment liberal democratico riemergono all’indomani della improbabile pacificazione trumpiana del genocidio del popolo di Gaza da parte dell’esercito più immorale del mondo. I cattivi non sono più gli israeliani che cecchinano i gazawi in fila per un tozzo di pane, ma i fondamentalisti di Hamas che hanno resistito con le armi all’occupazione di Gaza dove l’IDF ha armato e assoldato bande di arabi per contendere ad Hamas il controllo del territorio e provocare una guerra fratricida.
Ora Hamas, dopo il parziale ritiro dell’esercito israeliano, riprende giustamente il controllo di Gaza e disarma i traditori e collaborazionisti arabi, combattendo e giustiziando chi non lo fa. È suo diritto farlo. È un diritto della Resistenza armata disarmare e combattere i suoi oppositori e i suoi nemici. È sempre stato così anche nella resistenza antifascista e partigiana italiana. Dove sarebbe le scandalo?
In realtà lo “scandalo” sarebbe l’esistenza stessa di una resistenza armata in Palestina che non è rappresentata solo da Hamas. La resistenza all’occupazione e ai crimini dello Stato genocida sionista dovrebbe essere, per le anime belle, di sinistra e no, semplicemente disarmata. Da ciò la criminalizzazione del 7 ottobre come atto terroristico e non invece come atto di resistenza legittima anche secondo il diritto internazionale.
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Il doppio effetto del Piano Trump, in Medio Oriente e in casa nostra
di Forum Palestina
E’ ormai evidente che nel prossimo periodo dovremo fare i conti con gli effetti del Piano Trump, i cui primi cinque punti – cessate il fuoco, scambio di prigionieri, ripresa degli aiuti umanitari per la popolazione palestinese a Gaza – sono stati sottoscritti in una sorta di show a Sharm El Sheik.
Il Piano che è stato arbitrariamente salutato come piano di pace, in realtà accoglie molti degli interessi israeliani sulla questione palestinese e nella regione mediorientale.
In larga parte questi interessi coincidono con quelli statunitensi e della banda di Trump, ma il Piano cava di impaccio anche i governi europei inchiodati dalle manifestazioni di massa per la Palestina alle loro ambiguità/complicità con Israele. Non è invece affatto scontato che i paesi arabo/islamici siano soddisfatti del quadro che verrà fuori da questi accordi né da quello che li ha determinati.
Il bombardamento israeliano su Doha per cercare di uccidere i negoziatori di Hamas, si è rivelata una cesura nel rapporto tra Israele e le ricche petromonarchie del Golfo.
E questa cesura è arrivata in una fase in cui le varie anime del mondo arabo/islamico hanno trovato il modo di porre fine alle loro decennali rivalità interne tra Fratelli Musulmani, sauditi, sciiti. Quindi anche tra le loro potenze regionali di riferimento: Turchia e Qatar nel primo caso; Arabia Saudita ed Egitto nel secondo; Iran nel terzo.
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Troppi gli interrogativi sulla strage di carabinieri a Castel D’Azzano
di Antonio Camuso*
Premessa utile è l’esprimere il mio cordoglio e la vicinanza alle vittime, e ai loro famigliari, di questa tragedia che ha colpito uomini in divisa chiamati a fare il loro dovere.
Ricordo i loro nomi: il brigadiere capo Valerio Daprà, il carabiniere scelto Davide Bernardello e il luogotenente Marco Piffari ‘cui si aggiunge una lunga lista di feriti. Il solo numero di vittime tra personale esperto e percentualmente elevato rispetto ai presenti di quel blitz è già una prima conferma delle troppe anomalie in quella che, a denti stretti, si è confessato ai giornalisti, esser stata un’operazione in cui “qualcosa è andata storto”.
La Marina Militare considerava mio padre tra i migliori artificieri che avesse in Puglia ed io, sin da bambino, ho ascoltato i suoi racconti sulle operazioni di sminamento, ricerca esplosivi e di antiterrorismo da lui condotte per un periodo che va dalla seconda guerra mondiale sino all’omicidio di Aldo Moro, nel 1978, anno in cui andò in pensione.
Di quei resoconti ne ho fatto tesoro e l’aver lavorato, a mia volta, nel campo della Sicurezza al Volo, e l’aver condotto alcune inchieste giornalistiche su quell’argomento, fa sì che ritengo di avere il diritto di porre qualche domanda in merito.
In pieno svolgimento dei funerali di Stato ai caduti, i Media non cessano di dipingere i presunti autori o complici della strage, i tre fratelli, come disadattati, aspiranti terroristi e potenziali nemici della quiete e della sicurezza pubblica, in sostanza dei mostri, al fine di giustificare l’intera conduzione di quel blitz notturno, addossando unicamente ai tre fratelli l’intera responsabilità dei fatti.
Grande risalto si sta dando nel dipingere Maria Luisa,la donna rimasta anch’essa gravemente ustionata, al ruolo di matriarca, di plagiatrice dei fratelli, in pratica una strega e forse, tra le righe, c’è più di uno, in questo clima di caccia alle streghe, che rimpiange che non sia deceduta in quella pira funeraria.
Più di un cronista ha affermato che, nonostante fosse gravemente ustionata, non gridasse dal dolore ma si lanciasse in lamentose e incomprensibili cantilene, quasi un racconto medioevale su streghe avvolte dal fuoco, che dal rogo lanciano anatemi e maledizioni.
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Summit Trump-Putin: la rivincita di Orban e la“variabile cubana”
di Gianandrea Gaiani
Donald Trump sorprende di nuovo quasi tutti e soprattutto coloro che lo immaginavano sul piede di guerra contro Vladimir Putin e la Russia e al fianco degli “alleati” europei. Mentre in Europa e Ucraina tutti si aspettavano l’annuncio della fornitura di missili da crociera Tomahawk a Kiev, l’istrione della Casa Bianca, cambia gioco, spiazza tutti e va in rete annunciando un nuovo summit con il presidente russo.
Dopo un colloquio telefonico di quasi due ore e mezza, ii leader delle due maggiori potenze nucleari si vedranno infatti entro due settimane a Budapest, per discutere la fine della guerra in Ucraina.
Trump ha espresso nuovo ottimismo sulla possibilità di concludere il conflitto attribuendo questo momento favorevole anche al cessate il fuoco tra Israele e Hamas: “Credo che il successo in Medio Oriente ci aiuterà nei negoziati per arrivare alla fine del conflitto con Russia e Ucraina”.
Prima del summit, il segretario di stato americano Marco Rubio guiderà una delegazione statunitense in un primo incontro preparatorio con rappresentanti russi, tra cui il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, già la prossima settimana.
Su X il premier ungherese, Viktor Orban, ha parlato di “una grande notizia per le persone del mondo che amano la pace. Siamo pronti!”.
Dopo gli attacchi e gli ostracismi subiti dall’Ucraina, da gran parte dei partner europei e dalla Commissione UE, Viktor Orban si gode la rivincita e il prestigio offerto dal palcoscenico internazionale che un simile vertice assicura. Trump ha dichiarato sui social che la telefonata con Putin è stata “molto produttiva” e ha portato a “progressi significativi”, aggiungendo che “abbiamo anche dedicato molto tempo a parlare di commercio tra Russia e Stati Uniti una volta terminata la guerra con l’Ucraina”.
Tomahawk fantasma?
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Tentiamo di fare il punto
di ALGAMICA*
A differenza di quanti si dilettano a lanciare proclami, noi cerchiamo di capire e aiutare, con le nostre limitate capacità, a rintracciare linee di tendenza di un modo di produzione che in Occidente mostra segni di crisi irreversibili.
Il mondo occidentale ha assistito per un’ora all’oratoria di un Trump raggiante che impartiva lezioni di pace imposte con la forza. Dunque si è presentato al parlamento di Israele come il potente che impone le sue regole anche a quello che è ritenuto il suo cane da guardia in Medio Oriente, ovvero quello stato di Israele che con Netanyahu ha compiuto il lavoro sporco per l’insieme dell’Occidente.
Analizziamo però i fatti per capire di cosa si è trattato per evitare di scambiare fischi per fiaschi.
Trump dell’oratoria alla Knesset è lo stesso che aveva dichiarato che avrebbe fatto di Gaza un centro vacanziero per nababbi, mentre è costretto a porre il problema della ricostruzione per i palestinesi. Ed è lo stesso Trump che aveva sostenuto con Netanyahu la necessità di estirpare la resistenza palestinese attraverso l’annientamento di Hamas. Ed è lo stesso che è stato costretto a trattare con Hamas e arrivare a un accordo con essa per la liberazione degli ostaggi israeliani. E il povero e miserabile Netanyahu, dopo aver mostrato all’Onu, con tanto di cartina geografica, le mire dello stato sionista, è stato costretto dal padrone americano a più miti consigli fino all’umiliazione di chiedere scusa al Qatar per aver bombardato in quel paese per uccidere un militante dirigente di Hamas. Un povero miserabile, quel Netanyahu, costretto a chiedere la grazia al padrone americano per il processo in corso. Un povero miserabile che per difendere il ruolo di Israele nell’area da cane da guardia è stato costretto a operare un genocidio e distruggere la striscia per il 90%, a cui oggi il padrone americano gli chiede di uscire di scena, perché lo Stato ebraico di Israele non potrà più elemosinare comprensione per l’olocausto per essersi macchiato di un genocidio nei confronti del popolo palestinese. Un povero miserabile, il personaggio Netanyahu divenuto vittima sacrificale per un nuovo tentativo di patto con i paesi arabo-islamici compreso addirittura l’Iran.
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La notte di Stammheim
di Contromaelstrom
Le cosiddette “democrazie liberali” hanno sempre avuto un problema nel far corrispondere le dichiarazioni di principio sui “valori occidentali” e l’effettiva pratica di governo.
Oggi questa distanza appare netta e infinita. solare nelle evidenze quotidiane che riguardano la deferenza verso i genocidi all’opera a Gaza o in Cisgiordania oppure anche l’annunciato assalto al Venezuela (la “sovranità” di un paese va forse rispettata solo quando è asservita all’impero?), nelle torture piccole e grandi inflitte a tutti i detenuti (dalle carceri minorili all’inferno del “41 bis”).
Ma anche nel recente passato non sono certo mancate prove di gestione criminale del conflitto, soprattutto in quei paesi che più avevano faticato a emanciparsi – persino a parole dal nazifascismo. La notte di Stammheim, 1977, resta ancora oggi il punto di infamia più tenebroso in territorio europeo. Qui, nel “giardino”…
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II 17 ottobre 1977 verso la mezzanotte un commando delle truppe speciali tedesche, il GSG 9, assaltò un aereo che era stato dirottato per chiedere la liberazione di prigionieri politici, uccidendo tre dei quattro dirottatori e ferendo la quarta.
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Nel “bunker” di Maduro
di Geraldina Colotti
Sulle piattaforme di opposizione, la domanda rimbalza: In quale bunker si nasconde il “dittatore” Maduro? Cubani, cinesi, russi (e chi più ne ha più ne metta) stanno scavando tunnel sotto il palazzo presidenziale “come quelli di Hamas sotto Gaza”?Segue una ridda di ipotesi sul tipo di attacco che sferrerà l'imperialismo Usa per “ripristinare la democrazia” e fare con il chavismo quel che Netanyahu e Trump hanno fatto con Gaza. D'altro canto, Machado ha chiesto pubblicamente al genocida sionista di “fare lo stesso lavoro” con i chavisti del suo paese...
E ora che Trump ha annunciato dapprima che le presunte operazioni contro il narcotraffico “potrebbero cominciare anche a terra”, e poi di aver dato mano libera alla Cia per compiere operazioni sotto copertura in Venezuela (onde riscuotere la taglia posta sulla testa del presidente e di altri dirigenti bolivariani), golpisti frustrati di tutte le risme si sentono già l'acquolina in gola. Dalla loro, sanno di avere il Segretario di stato Marco Rubio, rappresentante dell'anticomunismo più sfegatato di Miami, potente eminenza grigia dell'amministrazione nordamericana.
Già a maggio del 2025, quando il governo bolivariano lasciò andare negli Usa cinque oppositori che si erano volontariamente “autoesiliati” nell'ambasciata argentina a Caracas, Rubio dichiarò che era stata un'operazione della Cia a liberarli. E, allora, Machado aveva diffuso, enfatica, la falsa notizia, definendola come “un'operazione impeccabile ed epica” e annunciandone presto altre dello stesso tenore “per liberare gli eroi prigionieri”.
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Gaza, la commedia della “pace”
di Mario Lombardo
Dopo la sbornia mediatica della giornata di lunedì, seguita al grottesco intervento di Trump al parlamento israeliano e alla firma a Sharm El-Sheikh del “piano di pace” per mettere fine al genocidio palestinese, la tenuta della fragile tregua in atto a Gaza resta minacciata da una lunga serie di incognite, quasi nessuna delle quali affrontata dal documento partorito dal presidente americano e dal primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Quello che è andato in scena in Egitto, alla presenza anche di svariati leader europei, è un tentativo di cancellare del tutto la realtà del genocidio e le responsabilità israeliane, occidentali e dei regimi arabi sunniti, proponendo un’immagine semplicemente assurda della “comunità internazionale” come forza di pace. Il tutto mentre si sta al contrario cercando di implementare l’ennesimo progetto neo-coloniale che calpesta i diritti della popolazione palestinese e cerca di rafforzare il controllo sull’intera regione degli Stati Uniti e dello stato ebraico.
Dal genocidio alla redenzione
Il processo che ha portato agli eventi dell’ultima settimana e allo stop dell’aggressione sionista nella striscia è stato studiato meticolosamente per allentare le pressioni dell’opinione pubblica di tutto il mondo sui governi complici dello sterminio palestinese.
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In occasione dell’uscita del libro “Contro le due destre” (Futura ed., 2025)
di Alberto Bradanini
Prima di entrare nel merito dei temi che concernono l’estrema ipotesi di essere chiamati a modellare una diversa politica estera per il paese, occorre procedere a un’operazione preliminare, decolonizzare la mente dalla macchina della menzogna che inquina la vita pubblica, nazionale e internazionale in ogni dove.
Una volta disintossicati, si può quindi percepire il disvelamento della struttura di potere, tra chi vive nel privilegio e chi arranca per sopravvivere, e provare a ricostruire la prospettiva di un mondo diverso.
Non potendo sopprimere del tutto la verità, chi siede in cima alla piramide cerca di soffocarla in un mare di menzogne, affinché il popolo non distingua più l’una dall’altra, e dunque nemmeno il bene dal male. Di quel popolo, poi, si può fare quel che si vuole.
Ma andiamo con ordine, l’impero in declino si scopre angosciato davanti all’emersione del Sud Globale, uscito finalmente dal letargo secolare nel quale era stato relegato da colonialismo e neocolonialismo, disponendo oggi di forza politica ed economica, e massa critica, per rivendicare sovranità e libertà di scelte in rappresentanza della stragrande maggioranza della popolazione del mondo (i Brics e la Sco sono entrambe guidate da Cina, Russia e India).
Alla luce della deriva politica, economica ed etica, l’Italia, ormai una nazione in via di sottosviluppo, proprio a quel mondo dovrebbe guardare, per scuotersi dalla condizione di vassallo di un impero (gli Stati Uniti) posseduto da una plutocrazia che pretende di dominare un pianeta di 8 mld di persone per conto del 4,1% della popolazione mondiale (in realtà – come sappiamo – nell’interesse dello 0,1%).
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Innovazioni senza innovazione. Il paradosso del Nobel per le scienze economiche 2025
di Marco Veronese Passarella
È ufficiale. Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt sono i vincitori del Premio per le Scienze Economiche istituito dalla Banca Nazionale di Svezia in onore di Alfred Nobel, edizione 2025. Lunedì scorso, i tre studiosi sono stati premiati per aver spiegato – si legge nelle motivazioni – la crescita economica trainata dalle innovazioni tecniche.
In particolare, metà del premio è andata a Joel Mokyr (storico economico americano-israeliano affiliato alla Northwestern University) per aver identificato i prerequisiti per una crescita economica duratura al traino del progresso tecnologico.
L’altra metà del premio sarà, invece, equamente divisa dagli economisti Philippe Aghion (francese, affiliato al Collège de France, all’INSEAD e alla London School of Economics and Political Science) e da Peter Howitt (canadese, professore emerito alla Brown University) per la loro teoria della crescita di lungo periodo generata dal processo di “distruzione creatrice” esercitato dalle forze di mercato.
A ben vedere, la suddivisione del premio riflette sia il diverso contributo che il diverso approccio metodologico utilizzato dai tre autori. Le opere di Mokyr si caratterizzano, infatti, per l’ampio utilizzo di fonti storiche (accanto a più “tradizionali” strumenti quantitativi) e inoltre di categorie analitiche mutuate dalle teorie evoluzioniste e istituzionaliste.
Per contro, Howitt e Aghion vengono premiati essenzialmente per un articolo pubblicato nel 1992 (intitolato A model of growth through creative destruction), in cui si propongono di studiare gli effetti del processo di innovazione tecnologica all’interno di un modello matematico (e puramente teorico) di crescita endogena. Per questa ragione, si rende conveniente una presentazione separata dei loro contributi.
Conoscenza, innovazione ed istituzioni
Il punto di partenza della riflessione di Mokyr è la constatazione che, sebbene la storia dell’umanità sia costellata di grandi innovazioni tecnologiche, queste si sono tradotte in crescita duratura (non meramente transitoria) della produzione e del reddito pro-capite soltanto a partire dalla rivoluzione industriale britannica.
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Bisogna difendere l’Occidente… Sì, ma quale Occidente?
di Marco Morra
1. Il silenzio dell’Occidente
Dove sono finiti i democratici europei? Quelli che imponevano sanzioni alla Russia? Quelli che ne escludevano gli atleti dalle competizioni internazionali? Quelli che si battevano il petto per non poter fare di più in difesa del popolo ucraino? Un genocidio si sta svolgendo sotto i nostri occhi. È ciò che ha affermato la Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. In un rapporto di 72 pagine, pubblicato il 16 settembre, gli esperti dell’Onu hanno dichiarato che “le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno avuto e continuano ad avere l’intenzione genocida di distruggere, in tutto o in parte, i palestinesi nella striscia di Gaza”. L’operato dello Stato ebraico corrisponde ai criteri che definiscono il crimine di genocidio secondo la Convenzione dell’Onu del 1948: “(i) uccidere membri del gruppo; (ii) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; (iii) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale; e (iv) imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo”[1].
Un genocidio, dunque, si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Gli occhi indifferenti dei governi occidentali, della Commissione europea e degli alti comandi della Nato. Mentre Israele continua a fare affari con le aziende occidentali, ad ottenere liquidità dalle banche europee e statunitensi, a partecipare alle competizioni sportive in Europa e negli Stati Uniti. Un genocidio si sta svolgendo sotto gli occhi indifferenti dei liberali europei, dei conservatori europei, delle anime belle europee. La presunta superiorità morale dell’Occidente cade a pezzi di fronte all’ipocrisia delle sue classi dirigenti. Essa si rivela nient’altro che uno spauracchio ostentato pretestuosamente per giustificare la nuova guerra delle democrazie liberali contro i paesi non allineati ai loro interessi, con lo scopo di mantenere ed estendere il controllo di mercati, risorse strategiche e rotte commerciali. Avevamo già assistito al paradosso delle “guerre di democrazia”. Non potevamo ancora immaginare che un genocidio potesse compiersi sotto i nostri occhi nel silenzio degli Stati occidentali.
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Una nuova Storia alternativa della Filosofia
di Salvatore Bravo
L’ultima fatica di Costanzo Preve fu Una nuova Storia alternativa della Filosofia del 2013, un’opera voluminosa nella quale è ricostruita la storia della filosofia secondo il paradigma dell’ontologia dell’essere sociale. L’opera è la configurazione netta e senza sbavature del suo percorso di ricerca. In essa l’ontologia dell’essere sociale non solo prende forma nella chiarezza dei principi, ma si traduce in rielaborazione razionale e sistematica della storia della filosofia. La filosofia è il katechon contro il dissolvimento della comunità assediata dall’interno dalle spinte crematistiche, pertanto la storia della filosofia è testimonianza razionale del “compito eterno della filosofia”. Essa ha l’arduo scopo di definire la natura umana nel suo sinolo di materia (storia) e forma (natura umana) e di testimoniarne la sua esistenza nella storia con i suoi bivi e con le sue trasformazioni. La filosofia è dunque pensiero dell’eterno che si materializza nella storia. La natura umana e la verità non si possono dissolvere con i mutamenti repentini o lenti delle vicende storiche, esse permangono in forme nuove e storicizzate che non obliano il fondamento ontologico della natura umana. La filosofia non è “cupio dissolvi”, ma concetto che definisce la natura umana e ha il fine teoretico di difenderlo dalle forze nichilistiche. La nuova storia della filosofia di Costanzo Preve, non vuol essere nuova nel senso postmodernista, ma è “nuova” rispetto ai processi di attacco e di disintegrazione della filosofia; essa è trasgressiva rispetto a un sistema che vorrebbe ridurre la filosofia a chiacchiera da salotto. La filosofia con la sua visione olistica ha lo scopo di definire il “bene-verità” mediante il metodo dialettico. Essa è prassi, poiché mediante le sue categorie e il suo metodo valuta la conformità del sistema sociale e politico alla natura umana. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale riporta al centro la verità e il pensiero forte (metafisico). Il pensiero non è mai astratto, esso risemantizza la teoretica dei filosofi per poter riaprire i chiavistelli della storia. Tale postura è già comunitaria, la filosofia è dialogo, è logos che cresce qualitativamente nella rete dei concetti comunicati logicamente. Il logos è linguaggio e calcolo dei veri bisogni, il logos è dunque attività teoretica, etica e politica, in quanto “calcola” le condizioni per l’umanizzazione reale e razionale dell’essere umano. É rete sociale e si potenza nello scambio dialogico mediante il quale si riconosce l’alterità e si conosce se stessi.
Ontologia…
Il logos fu centrale nella riflessione di Costanzo Preve, esso fu parte della riflessione teoretica per ringiovanire il mondo ed ebbe al centro tre grandi filosofi: Aristotele, Hegel e Marx.
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Hamas
di Alfredo Facchini*
In apertura, una premessa: sono marxista, ateo e libertario. Tra me e Hamas c’è dunque un divario ideologico incolmabile. Non spetta a me ripulirne la reputazione e, in ogni caso, non ne avrei né il titolo né l’intenzione. Ma poiché attorno a questo movimento circolano leggende e bufale di ogni sorta, ho provato a scavare.
L’idea che “Israele abbia finanziato Hamas” o addirittura che sia una creatura del Mossad circola anche tra noi sostenitori della causa palestinese. Spesso come slogan, raramente con prove.
La storia. In pillole. Hamas nasce nel fuoco dell’Intifada. Gaza, dicembre 1987. La rabbia esplode contro l’occupazione israeliana. Nelle moschee e nei vicoli si muovono uomini dei Fratelli Musulmani. Da anni gestiscono scuole, ospedali, associazioni di carità. Tra loro c’è lo sceicco Ahmed Yassin: figura carismatica, corpo fragile, volontà ferrea.
Decide che è tempo di passare all’azione. Così nasce Harakat al-Muqawama al-Islamiyya – Movimento di Resistenza Islamica. Hamas. Nel 1988 pubblicano la Carta: religione e politica fusi in un unico progetto. Obiettivo dichiarato: liberare la Palestina storica, distruggere Israele, fondare uno Stato islamico. Orientamento: sunnita.
All’inizio Hamas non è un esercito. È una rete: prediche, assistenza, disciplina morale. Ma l’Intifada trasforma tutto. I giovani scendono in strada. Le pietre diventano simbolo. Hamas cresce nel fango, nei campi profughi, nei comitati popolari. Nel 1992 nasce l’ala armata: le Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām. La resistenza diventa organizzata, permanente.
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Le contraddizioni di una narrazione surreale
di Gianandrea Gaiani
L’obiettivo sarà forse comune ma gli sforzi compiuti da UE e NATO per mobilitarci contro l’inevitabile invasione russa continuano a essere non coordinati, spesso contraddittori, in moltissimi casi sopra le righe e con contenuti in antitesi tra loro.
Solo nelle ultime 48 ore ne abbiamo sentite di tutti i colori.
Il 13 ottobre i servizi segreti tedeschi hanno ammonito che “a Mosca si ritiene di avere possibilità realistiche di espandere la propria zona di influenza verso ovest. (…) Per raggiungere questo obiettivo, la Russia non esiterà, se necessario, a entrare in conflitto militare diretto con la NATO”.
Lo ha detto Martin Jäger (nella foto sotto), direttore del Servizio federale di intelligence (BND), ascoltato dalla commissione di controllo parlamentare, al Bundestag. “Non dobbiamo riposare sugli allori pensando che un eventuale attacco russo non avrà luogo prima del 2029. Siamo già nel pieno dell’azione oggi”, ha aggiunto Jäger, che era ambasciatore in Ucraina prima di assumere la guida del BND il mese scorso.
“Dobbiamo prepararci a un nuovo aggravarsi della situazione”, ha aggiunto Jäger mentre Sinan Selen, presidente dei servizi segreti interni tedeschi BfV (l’Ufficio Federale per la protezione della Costituzione – Bundesamt für Verfassungsschutz), anch’egli ascoltato in audizione, ha concordato sottolineando che “la Russia persegue in modo aggressivo le sue ambizioni politiche contro la Germania, l’Ue e i suoi alleati occidentali utilizzando ”un’ampia gamma di attività di spionaggio, disinformazione, ingerenza, sabotaggio e attacchi informatici”.
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Guerra di classe
di Elisabetta Teghil
Questa mattina all’alba in provincia di Verona due anziani fratelli e una altrettanto anziana sorella, agricoltori, hanno fatto saltare in aria con il gas di una bombola il casolare dove abitavano mentre era in corso una irruzione di svariate forze di polizia in relazione a una procedura di sfratto esecutivo. Tre carabinieri sono morti, uno dei fratelli e la sorella sono in gravi condizioni. Dino, Franco e Maria Luisa Ramponi, proprietari di un’azienda agricola storica di Castel d’Azzano, erano sul lastrico, su di loro pendeva uno sfratto esecutivo per un’ipoteca sulla proprietà. Strozzinaggio legale. Avevano già minacciato di far saltare tutto l’anno scorso ma la soluzione è stata piombare in forze nel casolare alle tre di notte. I vicini: “Erano disperati, vivevano come in una grotta” Erano oberati dai debiti e vivevano senza luce e gas.
Questo avvenimento me ne ha fatto venire in mente un altro successo qui a Roma anni fa in un quartiere popolare della periferia est. Una vecchietta di 82 anni, sfrattata dal suo appartamento lo aveva fatto saltare in aria e per nulla pentita aveva ribadito «Il Signore non vi farà godere la casa, siete dei ladri»
Se scorrete la cronaca, di queste storie ne troverete tante negli anni. Il dolore, la fatica di una vita che non vale la pena di essere vissuta si può trasformare in rassegnazione, disperazione oppure rabbia e rancore.
Ci sono quelli che si rassegnano e vengono ignorati, nessuno si occuperà di loro, nessuno si accorgerà di quello che è accaduto, saranno solo loro a pagarne il pesante prezzo.
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Gli ultimi giorni dell’umanità
di Giorgio Agamben
A partire dall’ottobre 1915, dopo la notizia dello scoppio della grande guerra, Karl Kraus cominciò a scrivere «per un teatro di Marte» il dramma Gli ultimi giorni dell’umanità, che non volle fosse messo in scena, perché «i frequentatori dei teatri di questo mondo non avrebbero retto allo spettacolo». Il dramma – o piuttosto, come si legge nel sottotitolo, «la tragedia in cinque atti» – era «sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». E nel Weltgericht pubblicato dopo la fine della guerra parlerà del suo «grande tempo», che aveva conosciuto «quando era così piccolo e che tornerà a essere piccolo, se gliene rimane ancora il tempo», come di un tempo «in cui succede ciò che non ci si poteva immaginare e in cui dovrà succedere ciò che non si può più immaginare e che, se immaginarlo si potesse, non succederebbe».
Come ogni discorso implacabilmente lucido, la diagnosi di Kraus si adatta perfettamente alla situazione che stiamo vivendo. Gli ultimi giorni dell’umanità sono i nostri giorni, se è vero che ogni giorno è l’ultimo, che l’escatologia è, per chi è in grado di comprenderla, la condizione storica per eccellenza.
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La Sinistra Negata 04
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Segue la Parte seconda. Gli Anni Settanta.
3. L’AUTONOMIA.
Il più vitale dei gruppi extraparlamentari di ascendenza operaista, Lotta Continua, è il primo a soccombere alla nuova composizione di classe. Ad appena due anni dalla sua costituzione in partito, Lotta Continua si trova infatti lacerata dal conflitto tra i soggetti sociali emergenti, giovanili e femminili, e i vecchi gruppi operai, decisi a difendere le proprie prerogative e una centralità ormai declinante1.
Interi spezzoni dell’organizzazione se ne distaccano, contestandone l’“istituzionalizzazione” e la tendenza al burocratismo. Costituiranno una costellazione di collettivi grandi e piccoli, destinati a confluire nel generico “Movimento” che si sta condensando a seguito dello sfaldamento dei gruppi e delle nuove tendenze aggregative, o in una sua specifica componente che da almeno tre anni conosce una crescita via via più rapida: l’area dell’autonomia operaia”.
Definire quest’ultima non è facile2. La compongono, originariamente, gli ex militanti di Potere Operaio e del milanese Gruppo Gramsci, cui si aggiungono altre forze provenienti da organismi di fabbrica, sia dalla diaspora degli “extraparlamentari”. Un’ulteriore componente, che però con l’operaismo in senso stretto mantiene scarsi legami, è rappresentata dalla cosiddetta “autonomia creativa”, molto attenta alle istanze giovanili e ai risvolti culturali e comportamentali del movimento.
Un discorso sull’autonomia operaia – che, rinunciando dall’inizio a una costituzione artificiale in partito, consuma la propria vicenda senza dar vita a stabili forme di centralizzazione (a parte occasionali coordinamenti e l’esperienza contrastata di un organo nazionale) – rischierebbe di risolversi in un’elencazione di sigle e di episodi.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Diciottesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VIII
I. I club
Indubbiamente il fulcro, il punto nodale, più importante e diffuso del lavoro di risveglio ed educazione culturale dei sindacati è dato dai club. Ho già sottolineato quanto continui a impetuosamente crescere il numero dei club. Si tratta del lavoro più nuovo, e quindi sconosciuto, di quelli affrontati, per cui siamo tenuti a cercare, a escogitare dalla A alla Z forme di attuazione altrettanto nuove, correggendo i nostri errori sul campo, in base all’esperienza maturata.1
Continuiamo l’analisi dell’intervento fiume del compagno Tomskij partendo da dove ci eravamo lasciati. Il capo dei profsojuz poneva l’accento sul LAVORO CULTURALE che il sindacato era chiamato a compiere. Qui comincia a mettere i puntini sulle i.
E siccome nessuno dei nostri ha mai pensato di popolarizzare la questione, lasciandola ad ambiti puramente accademici (dove, sinceramente, ammesso e non concesso che si sia mai andati a fondo nella questione, il bacino di utenza, la ricaduta di tali risultati su una platea di milioni di compagni è stata, storicamente, del tutto irrilevante) è il caso anche qui di conoscere un po’ più da vicino questi club o, così come erano definiti ufficialmente, gli “enti clubistici” (клубные учреждения).
Nascono verso la fine del XIX secolo2, come Case del popolo () dove convivevano biblioteca con sala lettura, aula per i corsi serali, piuttosto che sala conferenze e piccoli teatri. Ovviamente l’autofinanziamento e la scarsità di mezzi non erano un buon viatico per la loro diffusione e, nel 1914 il totale di tali strutture era di 237.
Numero che sarebbe aumentato, nel giro di pochi anni, in maniera esponenziale. Diamo subito un quadro della loro evoluzione da allora, così da toglierci ogni suspense… e cominciare ad avere una prima idea delle dimensioni del fenomeno3:
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Hegel e la guerra
di Salvatore Bianco
Premessa
Per paradossale e contro intuitivo che possa sembrare lo sguardo esclusivamente illuministico sulla guerra e, più in generale, intorno al “negativo” espone la razionalità al più catastrofico dei suoi scacchi. Se ne erano accorti gli esponenti di punta della “teoria critica” della Scuola di Francoforte, M. Horkheimer e T. Adorno, che nel loro capolavoro Dialettica dell’Illuminismo (1947) provvedono a fissarne i passaggi argomentativi chiave.
Dialettica dell’illuminismo
Da un punto di osservazione non invidiabile, siamo tra il 1942 e il 1944, ma ricco di suggestioni teoriche, espongono in quel libro dai tratti profetici e visionari la tesi che il nazifascismo non era stata una «parentesi», come il mondo liberale da lì a poco si sarebbe affrettato a liquidare, piuttosto la scaturigine stessa della intera civiltà moderna, il suo esito più probabile, frutto avvelenato di quell’inevitabile rovesciamento dialettico dell’approccio solo formalistico e dunque debole della ragione illuministica. Il difetto strutturale di quel filone culturale è rintracciato in un eccesso di soggettivismo che impedisce all’io di entrare fino in fondo in relazione con l’oggetto. Con due conseguenze, se riferite al mondo storico e sociale, entrambe nefaste: che i rapporti di forza e di dominio in esso contenuti, a partire dal macro fenomeno della guerra, non vengono neppure scalfiti e meno che mai imbrigliati e che la soggettività, concepita da Kant in termini solo formalistici e astratta, è destinata all’inevitabile scacco conoscitivo e al conseguente rispecchiamento narcisistico. Esito nichilistico fra l’altro già precocemente annunciato nella riflessione del Marchese de Sade, ampiamente richiamato dagli autori, illuminista e contemporaneo di Kant, che non fa mistero nei suoi scritti di porsi come il suo “doppio”. Con chiarezza adamantina, così si esprimono: «Gli scrittori “neri” della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell’illuminismo con dottrine armoniose.
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