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Lo stratega contro
L’attualità antagonista di Guy Debord
di Gabriele Fadini
A chi lo definiva un filosofo, Guy Debord rispondeva di essere uno stratega. Per comprendere appieno ciò che egli intendeva Gabriele Fadini comincia dal momento in cui nell’opera di Debord la strategia non è solo riscontrabile tra le righe come una modalità di azione, ma in cui diviene il tema stesso di un’opera: Il gioco della guerra, ovvero il resoconto di una partita a un gioco di strategia, ideato dallo stesso fondatore dell’Internazionale Situazionista. A partire da qui, Fadini può approfondire alcuni aspetti del pensiero teorico-politico di Debord, confrontandosi anche con le interpretazioni di Agamben, Freccero e Bifo.
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Come mostrano ancora queste ultime riflessioni sulla violenza, non ci saranno per me né ritorno, né riconciliazione. La saggezza non verrà mai [i].
Iniziare un testo dedicato a Guy Debord citando le ultime parole della sceneggiatura del suo ultimo film In girum imus nocte et consumimur igni non significa solo installarci in quel «gioco» secondo cui la massima fedeltà ad un autore consiste nella massima infedeltà, quanto più riflettere sulle regole del particolare gioco che è quello debordiano e ancor di più sull’utilità di questo gioco per un pensiero che si voglia antagonista. Il nostro intento, infatti, è quello di dimostrare come il gioco fornisca un accesso peculiare, originale ma soprattutto fortemente attuale, alla riflessione dello stratega francese.
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Liquidare il dogma
Intervista a Carlo Formenti
“Liquidare il dogma secondo cui il socialismo è possibile solo laddove le forze produttive hanno raggiunto un elevato grado di sviluppo”
Carlo Formenti, politico, giornalista e scrittore ben conosciuto nell’ambiente marxista, nasce a Zurigo nel 1947 e si trasferisce a Milano pochi mesi dopo; la sua vita politica inizia nei primi anni Sessanta, quando il padre lo inserisce nella formazione bordighista in cui militava.
A partire dal 1967, frequenta i gruppi maoisti, finché contribuisce a fondare il Gruppo Gramsci; dal 1970 al 1974 si dedica all’attività sindacale, che interrompe per completare gli studi, laureandosi nel 1976, con una tesi sull’impatto delle tecnologie informatiche sull’organizzazione del lavoro, pubblicata da Feltrinelli con il titolo Fine del valore d’uso.
Dalla fine degli anni Settanta abbandona la politica attiva, limitandosi alla lotta ideologica e teorica; negli anni ‘80 è caporedattore del mensile “Alfabeta”, e ai primi del Duemila diviene ricercatore all’Università di Lecce, dove riprende le ricerche sulle conseguenze economiche, politiche, sociali e culturali della rivoluzione tecnologica.
Torna alla vita politica attiva negli ultimi cinque anni, militando in alcune formazioni della sinistra sovranista, per avvicinarsi infine al Partito Comunista guidato da Marco Rizzo. Fra i suoi libri più recenti: Utopie Letali (Jaka Book 2013), La variante populista (DeriveApprodi 2016), Il socialismo è morto viva il socialismo (Meltemi 2019).
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Innanzitutto grazie per aver accettato di condividere con noi alcune tue riflessioni su tematiche di grande respiro internazionale e italiano. Come prima questione, ci piacerebbe chiederti quali riflessioni possono essere fatte sul cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”, e in particolare cosa questo ci può insegnare riguardo alla transizione tra il modello capitalista e quello socialista.
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Il lavoro al tempo delle piattaforme
di Giulio De Petra
Intervento per la sessione “L’egemonia delle piattaforme" del convegno “Rileggere il Capitale”, organizzato da ARS e CRS
Un conflitto necessario
La traiettoria del capitalismo, delle sue crisi e dei suoi sviluppi, si intreccia inestricabilmente con quella del lavoro, della sua forma e delle sue lotte.
È la riorganizzazione continua del modo di produzione capitalista che determina la forma del lavoro, i modi e l’intensità dello sfruttamento, le caratteristiche della sua alienazione.
E, nello stesso tempo, sono i conflitti prodotti dall’organizzazione politica del lavoro a determinare i tempi e i modi dei passaggi della riorganizzazione del capitalismo.
Ed è un conflitto necessario, senza il quale il meccanismo di sviluppo del capitalismo rischia di avvitarsi su se stesso, di procedere per inerzia, proseguendo sulla propria traiettoria senza adeguata consapevolezza delle conseguenze sociali, economiche, ambientali che determina.
Questa reciproca implicazione di lavoro e capitalismo vede nell’utilizzo delle tecnologie storicamente disponibili la risorsa determinante, quella che consente determinate forme di produzione e quella che influenza l’organizzazione politica del lavoro.
La comprensione di come le tecnologie digitali, la forma attuale delle tecnologie di produzione e di organizzazione sociale, modificano e determinano la forma del lavoro è quindi centrale per comprendere la forma attuale del capitalismo.
Ma è centrale anche da un altro punto di vista, che è una delle motivazioni (la principale?) di queste due giornate di analisi e confronto.
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Appunti sulla cultura del lavoro tra liberalcapitalismo e postmodernismo
di Gerardo Lisco
La proposta di Letta di istituire un’imposta patrimoniale per costituire un fondo a favore dei giovani, che dovrebbe servire per l’Università o per avviare un’attività imprenditoriale, è da inserire nel cambio di paradigma che vuole il lavoro non più un diritto ma un dovere, secondo la logica del Ministro Fornero. La proposta è stata respinta dal Presidente del Consiglio Draghi, la destra Conservatrice si è opposta alla proposta avanzata da Letta sostenendo la decisione del Presidente del consiglio. La destra conservatrice si è schierata a difesa dell’idea che solo riducendo il prelievo fiscale sui patrimoni e sui redditi alti è possibile liberare risorse utili al rilancio dell’economia, in sostanza la teorie del trickle-down rappresentata dalla curva di Laffer; la destra Liberale, il PD e il ceto di opinionisti e intellettuali che gravitano nella sua orbita si sono immediatamente affannati a sostenere la proposta di Letta come di sinistra e a sottolineare come essa fosse stata sostenuta da Liberali come Einaudi e Keynes.
La proposta avanzata da Letta non molto tempo fa è l’altra faccia della medaglia rispetto all’idea avanzata da Renzi di un referendum per abrogare il reddito di cittadinanza. Entrambi gli istituti vanno inquadrati nel contesto economico e sociale nel quale devono operare. Come spiegano Van Parijs e Vanderborght [1] l’idea di introdurre strumenti quali reddito di base, nel caso specifico il reddito di cittadinanza, o una dotazione di base secondo la proposta avanzata da Letta sono rintracciabili a partire dalla fine del XVIII secolo interessando sia la destra che la sinistra ( solo per memoria le categorie politiche di destra e sinistra nascono proprio sul finire del 700 durante la Rivoluzione francese). I due autori, per inciso, appartengono alla schiera di coloro che da Sinistra sostengono la necessità di introdurre istituti quali il reddito di cittadinanza.
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Sulla lettera aperta di Cacciari e Agamben
di Andrea Zhok
La lettera aperta congiunta di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul Green Pass (vedi testo nei commenti) ha ricevuto, come prevedibile, un’accoglienza esplosiva. Uno dopo l’altro si sono attivate sulla stampa una serie di firme, più o meno note, per spiegare:
che “le discriminazioni sono ben altre” (Di Cesare, Repubblica),
che “la vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?” (D’Alessandro, Huffingtonpost),
che “il green pass è come la patente o il porto d’armi, che nessuno contesta” (Flores D’Arcais, MicroMega),
che “Cacciari e Agamben non hanno le competenze, lascino fare a chi le ha” (Gramellini, Corriere), ecc. ecc.
Ora, personalmente non credo di essere stato una volta in vita mia d’accordo con Agamben, e dunque ero restio finanche a leggere la lettera, però a fronte di tale qualificata batteria di fucilieri non ho potuto esimermi.
Ciò che ho trovato, e che nel mio piccolo voglio brevemente commentare, è un testo con molti difetti, ma certamente non liquidabile con gli argomenti che ho visto in giro.
Il testo, comparso sul sito dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, presenta un’argomentazione molto breve, con un difetto strutturale: essa parte come un argomento “di principio” e “di valore simbolico” circa la minaccia alla vita democratica, prosegue con considerazioni di ordine pragmatico sullo stato della sicurezza dei vaccini e sulla mancanza di una prospettiva (“Dovremo dunque stare col pass fino a quando?), e chiude di nuovo su note di principio.
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La base del Pd è anti-operaia
di Stefano Scacchi
“Bisogna capire come mai il Pd è stato superato da Giorgia Meloni”, si chiede una militante del Partito Democratico nella chat di una sezione milanese dopo che La7 ha diffuso il sondaggio (SWG) che dà Fratelli d’Italia al 19,5% delle intenzioni di voto, mentre il Pd è fermo al 19,2%. È il 17 maggio. La Lega è al 21%. Quindi, sommando i due partiti principali, la destra in Italia è al 40,5%. Un’enormità. La domanda è già un passo avanti rispetto all’atteggiamento classico della base Pd degli ultimi 25 anni verso quello che si trova alla sua destra, dalla nascita di Forza Italia in avanti. Normalmente la reazione è sempre improntata a una superiorità culturale che induce a spiegare questi voti ‘populisti’ con l’ignoranza di quegli elettori. Quindi già il fatto di dire che “bisogna capire” è incoraggiante. Dimostra uno scatto di umiltà di solito assente.
La prima risposta potrebbe essere che Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno un elettorato che li vota per interesse, non solo per assonanza di opinioni e valori culturali. Potrebbe sembrare una motivazione bassa, ma è una componente fondamentale della politica. Meloni e Salvini forniscono una risposta al disagio di larghe fette della popolazione italiana, operai compresi. La loro risposta è ispirata a puro egoismo sociale: è colpa degli immigrati che riducono le opportunità a disposizione degli italiani più deboli. Ma almeno è una risposta in grado di aggregare un consenso ispirato alla comunanza di interessi collettivi. La miscela che dovrebbe accendere il motore di un partito politico.
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Marx dovrà aspettare ancora
di Pietro Bianchi*
Ritornando al suicidio del gemello Camillo, l’ultimo film di Marco Bellocchio riflette sulla morte e la responsabilità
Capita spesso nella vita di avere un alter-ego: un amico coetaneo, un fratello o magari addirittura un gemello o un coscritto nato il proprio stesso giorno e con il quale si è cresciuti. È la prossimità più assoluta che mostra in modo più nitido la distanza, quando magari la vita anche a fronte di condizioni sociali o familiari simili porta a prendere scelte diverse e a separare le proprie esistenze. È quello di cui racconta A Letter to You, l’ultimo album di Bruce Springsteen, in cui si ritorna ai tempi dei Castiles, un gruppo che a metà degli anni Sessanta calcava i palchi dei bar della riviera del New Jersey riscuotendo un discreto successo locale. Allora il leader della band era un tale George Theiss. Nell’intensa “Last Man Standing”, Springsteen prova a ricostruire il suo sguardo di allora, pieno dell’ammirazione del comprimario che guarda colui, Theiss, che sarebbe certamente diventato una star e che era capace già allora di attirare il desiderio della folla: “You take the crowd on their mystery ride”.
Ma i Castiles si sciolsero nel 1968 e George Theiss decise di sposarsi ad appena vent’anni. Iniziò a lavorare come muratore e rimase a suonare nei bar della riviera durante i weekend per il resto della vita mentre Springsteen diventava una star planetaria. In una recente intervista per Rolling Stone la moglie di Theiss racconta che per il marito non fu sempre facile vedere l’esplosione di successo di quello che a diciotto anni era soltanto il primo chitarrista della sua band, fino a che a una festa a casa di Springsteen pochi anni fa Theiss si scoprì incapace di salire sul palco per una jam session con il Boss, tanto la situazione lo faceva soffrire.
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Introduzione a NoCity. Paura e democrazia nell’età globale
di Antonio Cecere
Questo libro è fortemente sconsigliato a coloro che sono abituati a leggere la sera prima di addormentarsi: benché la scrittura di Martone sia coinvolgente e mai noiosa, il tema è decisamente inadatto a chi ama le favole consolatorie. Due domande precise campeggiano nel libro ed è preferibile farle emergere sin dalle prime righe della nostra introduzione. Martone ci chiede, fondamentalmente, in quali condizioni storiche la pandemia ha trovato il mondo e, soprattutto, che cosa abbia imparato il Tiranno dalla situazione pandemica globale.
Antonio Martone è un filosofo che si inserisce nel grande dibattito contemporaneo circa il rapporto problematico fra esistenza e senso, fra individuo e comunità. Egli riprende criticamente classici fondamentali, come Hobbes, Rousseau, Tocqueville, Stirner, Nietzsche che inserisce con originalità in campi teorici già dissodati da autori novecenteschi come Heidegger, Camus, MerleauPonty. Grazie a questa ampiezza di studi, e alla ricchezza di un pensiero sempre attento all’evoluzione del proprio tempo, Martone riesce a proporci un quadro critico del dibattito attuale intorno a un focus preciso, ovvero il rapporto di dominio dell’uomo sull’uomo, declinato secondo le nuove direttrici oggi dominanti: la tecnica, l’economia e/o il linguaggio ingabbiato dai social media.
Per meglio introdurre il lettore a questo importante lavoro, propongo di seguirmi in due diversi momenti di osservazione: un’escursione (breve) e un’incursione (profonda) dal e nel testo.
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Appunti sulla crisi della forma-rivista
di Lanfranco Caminiti
0. Di cosa parliamo
0.1. alla voce «rivista» il dizionario De Mauro on line dice: a) pubblicazione periodica che intende offrire una rassegna delle conoscenze in un determinato campo e si distingue per il carattere specialistico degli interventi; b) periodico ad alta tiratura, riccamente illustrato e destinato a un pubblico non specializzato al quale offre aggiornamenti d’attualità e di costume, rubriche fisse, corrispondenza con i lettori, ecc. Qui – senza obbligatoriamente assumere una visione sfigata o elitaria delle cose – ci riferiamo con più attinenza alla prima definizione a), dove «specialistico» può essere interpretato come «punto di vista» e «approfondimento» (la seconda, è ormai invalsa l’abitudine di definirla magazine). Aggiungendovi due elementi costitutivi: un gruppo di lavoro (una redazione, per lo più volontaria) che si riunisce intorno a un «progetto di idee» (anche nel caso di una rivista «accademica» e/o universitaria) e il carattere «non convenzionale», controtempo. D’altro canto, questa precisazione comporta il riferimento a un «lettore di progetto», che è un altro elemento costitutivo. Senza necessariamente affondare nei riferimenti storici alle gazzette del Settecento, quello di cui si parla è il «processo virtuoso» – a esempio nel Novecento – tra il lavoro intellettuale di avanguardie (artistiche, letterarie, politiche) e l’interpretazione (anticipazione, formazione) di sommovimenti sociali a venire (nel gusto, nella comunicazione, nella produzione, nel fare storia). La rivista (quella della definizione a)) è stata una forma propria della relazione fra il lavoro intellettuale (in cooperazione) e lo spazio pubblico. È ancora così?
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Chi è l'imperatore del mondo? La nuova era del dominio epistemico
di Ugo Bardi
Il re Kamehameha 1 ° delle Hawai'i ( 1736 - 1 819) praticava l'arte di dello scambio di doni durante il suo regno, come è tipico dei re e governanti. Si ricorda che disse: " E 'oni wale no 'oukou i ku'u pono 'a'ole e pau". "Infinito è il bene che vi ho dato per goderne." Ai nostri tempi Google sembra aver adottato lo stesso atteggiamento: ci fa regali sotto forma di dati gratuiti. In vista del concetto di "colpo di stato epistemico" proposto da Shoshana Zuboff, Google sta rapidamente diventando l'imperatore epistemico del mondo.
In epoca romana, era una buona cosa essere l'imperatore: avevi oro, palazzi, donne, schiavi e molti privilegi, incluso il potere di mettere a morte chiunque a tuo piacimento. Gli imperatori erano visti come creature semidivine, elevati al trono dagli Dei stessi ma, in pratica, diventavano presto vecchi e spelacchiati (se sopravvivevano fino alla vecchiaia, non facile data la concorrenza). Allora, perché i Romani obbedivano agli imperatori?
Non è una domanda difficile a cui rispondere. Gli imperatori romani praticavano un gioco praticato da tutti i governanti. Si chiama "scambio di doni" ("gift-giving"). Fa parte del concetto di condivisione : qualcosa di profondamente radicato nella natura degli esseri umani, in definitiva è una manifestazione di empatia tra gli umani .
La condivisione crea naturalmente legami sociali che generano i modelli gerarchici che consentono alla società di strutturarsi. In una società armoniosa, i leader governano senza bisogno della forza. Governano in base al loro prestigio, a sua volta ottenuto da un uso giudizioso dei doni.
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«Che Fare?»
Roberto Ciccarelli intervista Mario Tronti
Il colloquio. Intervista sul comunismo possibile al filosofo e uomo politico in occasione dei suoi novant’anni. Sette tesi, più una senza numero, per le nostre e le future generazioni: «Basta demonizzare il Novecento, recuperare la memoria delle lotte, organizzare i conflitti». Autoritratto di una vita ispirata al principio: «Pensare estremo, agire accorto»
La rivoluzione è in esilio ma cerca il chiarore del giorno nella sua notte insonne. Mercoledì scorso 21 luglio Mario Tronti ha compiuto novant’anni e coltiva la tensione politica che ha attraversato la vita di uno dei più grandi filosofi politici contemporanei. Un lavoro instancabile. In autunno pubblicherà altri due libri.
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Rossana Rossanda ha scritto «La ragazza del secolo scorso». Nella sua autobiografia Pietro Ingrao ha scritto «Volevo la luna». Cosa pensa Mario Tronti a 90 anni?
A tutto fuorché a scrivere un libro autobiografico. Sono allergico a questa forma letteraria. Ne ho lette molte di autobiografie e alcune mi hanno anche appassionato, come quelle che tu citi. Ma, tra l’altro, Rossana e Pietro erano personalità pubbliche molto note e riconosciute, erano state protagoniste di eventi, avevano molto da ricordare e da raccontare. Io sono una personalità pubblica ignota, non avrei da trasmettere alcun ricordo che interessi, tutt’al più qualche titolo di rivista o di giornale, e un solo libro giovanile di successo, che ha avuto, per fare un paragone azzardato, lo stesso destino del Salinger de Il giovane Holden: poi sei quello e nient’altro.
Operai e Capitale…
Sì. Raccomando sempre: non scrivere un libro di successo da giovani, perché si rimane per sempre imprigionati in una sola casella.
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L’egemonia della Tecnica e la speranza della Magia
di Roberto Paura
Federico Campagna: Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà, Edizioni Tlon, Roma, 2021, pp. 337, € 18,00
“Un altro mondo è possibile” fu lo slogan che il movimento no-global adottò in occasione delle drammatiche contestazioni del G8 di Genova, nel 2001, di cui in questi giorni ricorre il ventennale. Un’aspirazione ambiziosa, perché sosteneva – e sostiene ancora oggi – la possibilità di pensare un mondo unito, ma non secondo le logiche del mercato. La sconfitta di quel movimento, che coincise con la più grande vittoria del there is no alternative con cui il neoliberismo si è imposto negli ultimi quarant’anni, non ha tuttavia sopito le speranze che un altro mondo sia davvero possibile: un discorso tornato in auge fin degli inizi del 2020, quando la pandemia di Covid-19 ha mostrato tutte le contraddizioni di un sistema da lungo tempo in crisi e reso urgente la necessità di un ripensamento complessivo.
Quanto sia complessa l’operazione ce lo mostra il filosofo Federico Campagna, italiano trapiantato a Londra, in un libro giunto da noi in un momento quanto mai opportuno rispetto all’originale uscita inglese nel 2018: Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà non è un manuale per il “dopo”, un ricettario per business coach, uno di quegli innumerevoli instant-book con cui guru improvvisati cercano di motivare una società terribilmente provata dagli ultimi avvenimenti, quanto piuttosto – scrive Campagna nell’introduzione – “un libro per chi giace sconfitto dalla storia e dal presente”.
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Contro il politically correct
di Giovanna Cracco
La morale, il linguaggio, il pensiero associativo e la pratica denotativa; fintamente emancipativo e mai antisistemico, perché il politicamente corretto ci immobilizza socialmente divenendo regressivo
Political correctness. Tanto se n’è scritto negli ultimi anni, in termini positivi e negativi. Nato nell’ambiente liberal statunitense dei cultural studies alla fine degli anni ‘80, si è poi diffuso in tutto il mondo occidentale. Tuttora mantiene nella sfera culturale e politica di sinistra una posizione di sostegno – anche se voci critiche iniziano a emergere – mentre a destra è spesso contestato. Per quanto le dinamiche della sua evoluzione già si trovassero nell’iniziale impostazione del pensiero, è difficile immaginare che alla nascita fosse possibile prevedere le caratteristiche conformistiche e repressive che ha raggiunto oggi. Jonathan Friedman inizia a scriverne, in termini di appunti per un ipotetico libro, nel 1997; continua a ragionarci nei primi anni Duemila, e lascia gli scritti nel cassetto; riprende più volte il manoscritto, aggiornandolo, e infine lo pubblica nel 2017. In Italia esce nel 2018, per i tipi di Meltemi, con il titolo “Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime”. Il testo è interessante perché Friedman è un antropologo, e la sua riflessione si interroga sulla natura strutturale del politicamente corretto come forma di comunicazione e sul contesto che ne consente l’emersione fino a farlo divenire una pratica dominante. “Criticato e discusso in una serie di pubblicazioni, [il politicamente corretto] ancora non è stato analizzato dal punto di vista antropologico” scrive Friedman nell’introduzione; per concludere:
“Questo non è un libro sui pro e i contro di una forma specifica di politicamente corretto […] è piuttosto una critica generale di tutte le forme di politicamente corretto come mezzo di soppressione del dibattito”.
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Crisi ecologica e crisi sociale: il PNRR è il problema, non la soluzione
Tavola rotonda a Napoli
di coniarerivolta
La lunga coda della pandemia ha portato con sé, oltre alle tragiche conseguenze sanitarie, anche una situazione di prolungata crisi economica, che parte dalle centinaia di migliaia di contratti precari non rinnovati e arriva ai licenziamenti di massa messi in atto dai padroni un secondo dopo la rimozione del blocco dei licenziamenti. A fronte delle preoccupazioni quotidiane che attanagliano la stragrande maggioranza della popolazione del nostro Paese, una narrazione entusiastica e ottimista rimbalza dai principali mezzi di comunicazione agli esponenti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, tutte, con qualche sfumatura, strette a coorte intorno al Governo Draghi. Niente paura, è il messaggio che ci bombarda ogni giorno, l’Europa solidale è al nostro fianco e il cosiddetto Recovery Fund – ufficialmente noto come Next Generation EU – è il veicolo che ci condurrà in un futuro più giusto, più inclusivo, più verde.
Non è particolarmente difficile demistificare la natura meramente propagandistica di questa narrazione. A fronte del fiume di denaro che ogni giorno ci viene promesso, la realtà dei fatti parla di un ammontare di risorse risibile. Al netto dei contributi che l’Italia apporterà, infatti, negli anni a venire al bilancio europeo, secondo le stime più ottimistiche riceveremo circa 50 miliardi di euro da spalmare, cioè da dividere, su sei anni. Una semplice comparazione con le risorse aggiuntive messe in campo dal Governo italiano nel 2020 e quindi in un solo anno, pari a circa 108 miliardi e del tutto insufficienti a tamponare le conseguenze della crisi economica che iniziava a mordere, vale più di tante chiacchiere.
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Dal ‘Capitale’ al Tecno-capitalismo e alle piattaforme
di Lelio Demichelis
Intervento per la sessione “L’egemonia delle piattaforme sui media” del convegno “Rileggere il Capitale”, organizzato da ARS e CRS
Premessa
Per metodo intellettuale, ci piace guardare ai processi e alla loro evoluzione nel tempo, più che ai loro effetti. Cercando di capire cioè la genealogia di ciò che oggi ci sembra nuovo, ma che spesso è invece la riproposizione del vecchio capitalismo in forme che sembrano nuove solo perché accompagnate da una nuova tecnologia e dalle retoriche che ne determinano l’accettazione sociale – accettazione che a sua volta è funzionale all’adattamento dell’uomo e della società alle esigenze del capitale.
Anticipando la conclusione della riflessione che segue, diciamo allora che il digitale è sempre rivoluzione industriale/industrialista; che i social media di oggi sono l’evoluzione (o meglio l’involuzione) dei mass media novecenteschi (in particolare della televisione), dell’industria culturale descritta a metà del ‘900 dalla Scuola di Francoforte e della società dello spettacolo debordiana; che le piattaforme sono l’evoluzione della fabbrica fordista e necessarie alla trasformazione dell’intera società in fabbrica. Una società non industriale, ma industrializzata.
Nessun reale cambio di paradigma rispetto a ieri, dunque; nessuna transizione a qualcosa di assolutamente nuovo; nessuna quarta rivoluzione industriale. Credere il contrario – che tutto sia cioè veramente nuovo – significa invece reiterare nuovamente gli errori interpretativi del passato, non vedendo l’evoluzione dei processi industriali e capitalistici: sempre apparentemente rivoluzionari, ma in verità sempre trasformistici, cioè: cambiare tutto per non cambiare nulla nella struttura e nella sovrastruttura dei meccanismi di organizzazione industriale della società e di accumulazione del capitale.
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Tra conflitto e pratica dell’obiettivo
Riccardo Emilio Chesta intervista la Tech workers coalition italiana
Anche in seguito alla crisi da Covid-19 da circa un anno in Italia si è costituita una sezione della Tech workers coalition (Twc), rete transnazionale dei lavoratori delle aziende Ict. Li abbiamo incontrati dopo un evento pubblico online di presentazione delle loro attività. Composta di lavoratori qualificati nel settore informatico, grafico, che include progettisti e sviluppatori, la Twc è un soggetto che cerca di parlare a diverse realtà lavorative investite dagli attuali processi di digitalizzazione e innovazione tecnologica. Si propone di coinvolgere nelle proprie iniziative non solo chi le tecnologie digitali le programma e sviluppa ma anche chi le esperisce nel proprio lavoro, come i rider delle piattaforme di food-delivery o i magazzinieri della logistica, tentando dunque di gettare ponti che leghino i lavoratori più tecnicamente qualificati con i lavoratori manuali sempre più coinvolti dai processi di digitalizzazione. Da un lato la Twc si pone obiettivi specifici e settoriali – è composta in prevalenza da lavoratori e lavoratrici del settore informatico – ma ritiene che possano essere un mezzo attraverso cui coinvolgere nella propria organizzazione tanto lavoratori manuali quanto figure tecniche ibride, a cavallo col lavoro culturale, come i grafici e i designer.
Già l’adozione del termine “coalizione” li identifica come un soggetto aperto, non corporativo che tenta di andare oltre un’opera pur necessaria di sindacalizzazione e organizzazione, ponendosi come obiettivo un’opera più generale di acculturazione all’azione collettiva e alla costruzione di solidarietà tra i lavoratori tech, in primis sul proprio posto di lavoro ma anche al di là, invitando a riflettere sui legami tra la propria professionalità e le implicazioni più generali in società.
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A proposito del decreto sul "green pass"
di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben
Il "Diario della crisi" riprende le sue pubblicazioni con un testo di Giorgio Agamben e di Massimo Cacciari su un tema delicato e controverso, nel rinnovato auspicio di favorire il dibattito e la riflessione critica
La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosidetto green pass, con inconsapevole leggerezza. Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti. Non a caso in Cina dichiarano di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia. E varrà la pena ricordare il “passaporto interno” che per ogni spostamento dovevano esibire alle autorità i cittadini dell’Unione Sovietica. Quando poi un esponente politico giunge a rivolgersi a chi non si vaccina usando un gergo fascista come “li purgheremo con il green pass” c’è davvero da temere di essere già oltre ogni garanzia costituzionale.
Guai se il vaccino si trasforma in una sorta di simbolo politico-religioso. Ciò non solo rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile, ma contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica.
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Alcune riflessioni sul Green Pass
di Andrea Zhok
E' di ieri la notizia dell'obbligatorietà del Green Pass per l'accesso ad un'ampia serie di attività, non solo voluttuarie, e per tutti i soggetti di età superiore ai 12 anni.
Ci potevano essere forme in cui un'operazione simile poteva avere senso, ma non sono quelle che identificano le caratteristiche attuali del Green Pass, che si presenta come francamente inaccettabile.
Quest'iniziativa ha molti padri.
E' frutto dell'indecoroso livello dell'informazione, della propaganda battente da parte di portatori d'interesse non chiaramente identificabili, ma assai ascoltati, della confusione concettuale prodotta dalle passerelle di 'esperti' in cerca di gloria, e dell'arroganza dogmatica di parte influente dei nostri gruppi dirigenti.
Proviamo a fissare le idee per punti.
1) Un breve passato e le sue indicazioni
Partiamo da questa domanda: I vaccini anti-covid sono "vaccini sperimentali"?
Questa domanda è stata posta l'altro giorno da Concita De Gregorio ad un virologo di corvée in televisione. Come d'uso, la forma presa dalla domanda non era neanche un po' suggestiva: "Dunque non è vero che i vaccini attuali siano - come dicono alcuni - 'vaccini sperimentali'?" Una volta alzata così graziosamente la palla, all''esperto' non restava che schiacciare, affermando che "No, assolutamente, si tratta di vaccini ampiamente e attentamente sperimentati."
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La rivolta evoluzionista contro l’economia classica
di Henryk Grossmann
Riproponiamo e mettiamo a disposizione del lettore, per il suo interesse, un importante testo dello studioso marxista Henryk Grossmann, pubblicato per la prima volta in inglese sul Journal of Political Economy 51, n. 5 e 6, The University of Chicago Press, 1943. Tradotto in italiano da Nestore Pirillo e pubblicato nel volume di H. Grossmann, Saggi sulla teoria delle crisi, De Donato, Bari, 1975. Trascrizione in PDF di Rostrum e Riddx, dicembre 2020
1. In Francia: Condorcet, Saint-Simon, Simonde de Sismondi
Qualsiasi analisi teorica di un sistema economico contemporaneo deve condurre alla formulazione di un modello con il quale sia possibile valutare il livello di sviluppo esistente. Per avere validità tale modello deve essere elaborato a partire dallo stesso processo di sviluppo e non solo dal livello raggiunto al momento dell'analisi. Sarà quindi utile al teorico contemporaneo guardarsi indietro e vedere in che modo il pensiero dinamico o evolutivo sia effettivamente entrato nel campo della teoria economica. Il problema non è stato presentato in modo adeguato o sufficientemente accurato nella nostra letteratura economica. Così, Richard T. Ely scrive: "Si deve probabilmente a Herbert Spencer più che a chiunque altro se siamo giunti a riconoscere l'applicabilità dell'evoluzione ai vari settori della vita sociale dell'uomo"1. Ma il saggio di Spencer a cui Ely si riferisce non apparve fino al 18572, decenni dopo che altri avevano già utilizzato le nozioni evoluzioniste nelle scienze sociali. John Bagnell Bury, per citare un esempio più recente, ha scritto un intero libro sull'idea di progresso3 senza nemmeno menzionare Sismondi o Richard Jones – i due uomini che per primi elaborarono l'idea della successione storica di stadi economici sempre più avanzati. Nella letteratura economica tedesca il problema o non viene affatto discusso, come nel noto studio di [Karl] Bücher sulla genesi dell'economia politica4, che non menziona feudalesimo o capitalismo neanche una volta, oppure la responsabilità esclusiva di ciò che essi chiamano la "sociologizzazione" dell'economia viene falsamente attribuita a Hegel e alla sua scuola5.
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Diritti civili e diritti sociali: libertà o liberazione?
di Alessandro Testa
Infuria oggi in Italia, come la peste magistralmente descritta da don Alessandro nel suo romanzetto per venticinque lettori, l’onnipresente battaglia sul DDL Zan: chi è contro, chi è a favore, chi sostiene che tutto sommato la tematica dei diritti civili non sia poi così importante. Qualcuno strepita, qualcuno si indigna, la confusione regna sovrana.
Evidentemente la prima cosa che verrebbe da dire, riflettendo su un progetto di legge che asseritamente si erge a tutela contro ogni discriminazione, contro ogni sopraffazione, contro ogni violenza ed ogni abuso, non può essere altro che: come si potrebbe “essere contro”?
Senza volere in queste brevi righe affondare il bisturi “in corpore vili”, analizzando approfonditamente il contenuto giuridico specifico di questo decreto nelle sue luci ed ombre, nelle sue conseguenze immediate e nelle sue implicazioni a lungo termine, vorremmo invece sviluppare una riflessione spassionata e serena sulla natura dei diritti civili e sulla loro relazione, e possibile sinergia, coi diritti sociali.
Non renderebbe ragione all’importanza ed alla vastità della questione limitarsi a quelle prese di posizione polemiche “tagliate con l’accetta”, prese di posizione che, pur essendo sostanzialmente corrette, rischierebbero di essere confuse con una mera, sdegnosa sottovalutazione del problema, una sottovalutazione che potrebbe dare il destro a maliziose quanto immeritate accuse di omofobia o addirittura di “rossobrunismo”.
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Agamben, il green pass e il ruolo della filosofia
di Gabriele Guzzi
“Negli anni a venire ci saranno solo monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno. Perché il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie.[i]”
Ci sono epoche della storia in cui il bivio che ci contraddistingue come umani si radicalizza, i tempi impongono una demarcazione netta, delle soglie antropologiche, che costringono la storia umana ad una scelta, ad una vocazione, ad una svolta. Il libro di Giorgio Agamben, “La casa che brucia”, parla di questo. Negli anni futuri ci saranno solo monaci e delinquenti, poeti e assassini; le terze vie, i compromessi, le zone di confine saranno sempre meno abitabili, si imporranno delle decisioni ultime, degli scatti, su cui o saremo di qua o di là. E questa, tutto sommato, è una buona notizia.
Agamben non parla della pandemia, delle giuste misure di prevenzione, delle risposte sanitarie. Il punto è proprio imparare a decostruire il discorso monolitico che i principali media e partiti politici impongono, per comprendere da dentro le contraddizioni, le assurdità, le derive irragionevoli e perciò sospette. Si tratta di discernere il grano dalla gramigna, senza estremismi, senza complottismi, ma neanche con l’ingenuità subdola che ogni potere auspica sempre di poter suscitare nel popolo e nei suoi rappresentanti.
Il bivio si radicalizza proprio in questo: le derive antidemocratiche non prendono le forme classiche dei totalitarismi. I rischi per le nostre democrazie non stanno, come in realtà molti avevano ingenuamente pensato, (tanto) nei ritorni di potenziali fascismi o razzismi (che esistono ma come fenomeni minoritari), ma nell’applicazione pratica di principi giusti, su cui nessuno potrebbe dissentire, come la prevenzione della salute dei cittadini.
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Se il capitalismo verde è l’ultima speranza
di Salvatore De Rosa
Nell’architettura dei finanziamenti Ue per far ripartire la crescita economica del continente, la mitigazione dei cambiamenti climatici e la preservazione e rigenerazione degli ecosistemi rappresentano in teoria lo scheletro dell’intero edificio di aiuti. Ogni progetto presentato dagli Stati nei piani di ripresa e resilienza per accedere ai fondi di Next Generation Eu è tenuto a esercitare un impatto positivo su decarbonizzazione, sostenibilità e salvaguardia della biodiversità, o almeno a non contribuirvi negativamente.
Alla missione della cosiddetta transizione ecologica devono essere destinati almeno il 37% dei fondi per i singoli Paesi, che per l’Italia ammontano a oltre 200 miliardi di euro. Il Recovery italiano dovrà anche essere complementare alla Strategia di lungo termine per la decarbonizzazione e al Piano nazionale energia e clima, il quale proietta la fine del carbone entro il 2025 e prefigura aumenti in capacità di energia rinnovabile ed efficienza energetica del 32% entro il 2030, entrambi da aggiornare in base alla più stringente climate law recentemente approvata dall’Ue.
Le proposte di piano saranno vagliate e monitorate dalla Commissione europea sulla base dei target proposti, degli indicatori quantitativi, del cronoprogramma, e della fattibilità e coincidenza con gli obiettivi climatici ed ecologici continentali. Quali progetti nello specifico saranno considerati in linea con questi ultimi obiettivi dipenderà anche dai criteri stabiliti nella tassonomia degli investimenti sostenibili dell’Ue, un documento in discussione e aggiornato a scadenze fisse sul quale si giocano battaglie politiche e scientifiche senza esclusione di colpi, soprattutto in relazione ai progetti legati al gas fossile, al nucleare e all’energia da biomasse.
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“L’essenza, per le fondamenta”. Intervista ad Alberto Lombardo
a cura di Alessandro Testa
Alberto Lombardo è nato a Caltanissetta il 22 aprile 1958 e lì ha fatto i suoi studi primari, frequentando il locale Liceo Classico; ha studiato poi a Palermo Statistica e Scienze Economiche, dove allora insegnavano alcuni tra i più importanti fondatori della statistica e della demografia italiana. Ricercatore nella Facoltà di Ingegneria a 25 anni, dopo 9 anni Associato e dopo altri 9 Ordinario di Statistica per le Scienze sperimentali e Tecnologiche, con interessi scientifici rivolti prevalentemente alle metodologie di sperimentazione nel campo tecnologico e agrario. Membro del Consiglio Direttivo della Società di Statistica dal 1998 al 2002. Iscritto a sedici anni all’Unione della Gioventù Comunista (m-l), partecipa al ’77 palermitano. Brevi e contrastati passaggi al momento dei primi passi di Rifondazione Comunista nel 1991. Successivamente svolge una breve attività nel Confederale dei Cobas. In seguito si iscrive al PdCI per pochi anni. Nel 2007 incontra Rizzo e nel 2009 partecipa alla fondazione di Comunisti-Sinistra Popolare, che nel 2014 diventa Partito Comunista, dove viene eletto nel Comitato Centrale e nell’Ufficio Politico, incarico che mantiene tutt’ora. Attualmente nell’UP del PC ha la responsabilità del Dipartimento Esteri, del Dipartimento Formazione e dirige l’organo on-line lariscossa.info. Per il Partito ha redatto due testi di divulgazione interna: MARX200 e ENGELS220-LENIN150.
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Ogni volta che si affrontano tematiche “alte”, si vedono spesso inarcare i sopraccigli di coloro i quali pensano che certe tematiche al giorno d’oggi siano puro divertissement per intellettuali annoiati. Cosa ne pensi?
La lotta nel campo teorico è di primaria importanza per l’organizzazione proletaria rivoluzionaria.
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Europa: tra oligarchia e sovranismo
di Alfonso Gianni
1.
Dopo una lunga attesa e l’ulteriore ritardo determinato dall’esplodere della pandemia, finalmente il 10 marzo scorso era stato dato il segnale di partenza per una Conferenza sull’Europa sulla base di una dichiarazione comune dei presidenti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo, David Sassoli e Antonio Costa, e della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. I prodromi della Conferenza vanno ricercati nel tentativo di Valery Giscard d’Estaing, nella sua qualità di presidente della Convenzione europea (2002-2003), di elaborare un progetto di Costituzione europea, nella forma di un Trattato, che venne però affossato dal no nei referendum tenutisi in Francia e nei Paesi Bassi. In seguito si giunse alla firma del Trattato di Lisbona (2007) che, distinguendo con puntualità le competenze fra Stati membri e la Ue, di fatto si frapponeva a una possibile direzione verso un’unione di tipo federale.
L’iniziativa della Conferenza ha, in tempi più recenti, ripreso le mosse sempre dalla sponda francese. Emmanuel Macron si è molto attivato in questo senso anche perché la Conferenza dovrebbe concludersi proprio quando la presidenza della Ue verrà assunta dalla Francia. Le modalità di discussione presentano effettivamente delle novità. Forse si è tratto insegnamento dal flop del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa – questa era la denominazione ufficiale del progetto costituzionale liquidato dai referendum prima ricordati – che era stato confezionato da esperti, senza alcun coinvolgimento né politico né emotivo da parte delle popolazioni europee.
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Habermas: anche una storia della filosofia
di Leonardo Ceppa
1. Una possibile idea di filosofia
Nella Prefazione dell’ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea è domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si è formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un’intuizione teorica proiettata all’indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l’altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si può raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.
Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni più volte sviluppate nei decenni precedenti.
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