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Bolivia, il padre della patria uccide sua figlia
Evo Morales, fattosi caudillo, fa vincere la destra
di Fulvio Grimaldi
Nell’articolo per l’Antidiplomatico “Una Latinoamerica a fisarmonica”, passando rapidamente in rassegna il subcontinente tra resistenze e arretramenti, ho provato a spiegare la tragica involuzione di uno dei protagonisti del riscatto latinoamericano, la Bolivia di Evo Morales. L’esito, in questi giorni, del primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari decreta la fine di una delle esperienze più riuscite e trainanti per il resto della regione e del Sud Globale. Di questo pesantissimo arretramento di una nazione che si era proclamata binazionale, aveva assicurato l’alfabetizzazione, il ricupero delle risorse predate, l’istruzione, l’equità sociale, è complicato specificare le varie responsabilità. Resta quella più in vista, e ahinoi innegabile, dell’indio cocalero Evo Morales.
Lo incontrai, venuto in Bolivia per raccontare la vittoriosa “Guerra del agua”, con cui una battaglia di popolo sottrasse l’elemento ai monopolisti USA di Bechtel, alla vigilia del suo primo trionfo elettorale- Un risultato favorito dal nuovo vento che la rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez aveva fatto spirare per l’America Latina e che avrebbe rafforzato o favorito l’avvento di leadership progressiste come quelle dei Kirchner in Argentina, di Rafael Correa in Ecuador, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Lopez Obrador in Messico.
Per tre lustri la Bolivia percorse la via dell’emancipazione, della sovranità, dell’antimperialismo internazionalista, anche se, nella seconda decade del secolo, il vigore e la determinazione del passo s’erano andati affievolendo, frenati da divergenze interne alle organizzazioni sociali e da un crescente peso della burocrazia.
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A Washington “l’Europa” esce di scena, ma non vuole ammetterlo
di Dante Barontini
Arretrare facendo finta di avanzare. La più antica delle tecniche retoriche straborda da tutte le dichiarazioni dei “guerrafondai con la carne degli altri”, dopo una serie di schiaffi presi davanti alle telecamere e dietro le quinte.
Il maxi-vertice di Washington – da una parte Trump e gli Usa, dall’altra Zelenskij per l’Ucraina e ben sette nanerottoli per “l’Europa” – si è svolto in più atti. Alcuni importanti, altri decisamente di contorno.
Il vertice vero è stato quello con il solo Zelenskij, accolto con una mappa della situazione sul terreno a oggi, bene in vista a ricordare che di lì si parte, se si vuol discutere di pace. E non per “fare un favore a Putin”, ma perché nessuno sano di mente può ancora credere che si possa tornare alla mappa del 2013 – come da tre anni e mezzo ripetono la junta ucraina e i “partner europei” – senza scatenare una guerra nucleare.
Il secondo punto fermo, prima ancora di cominciare, è stato che l’Ucraina non entrerà nella Nato. E quindi che di schierare truppe e missili occidentali da quelle parti non se ne parla neanche.
Il terzo ostacolo è stato eliminato prima ancora di essere nominato: nessun “cessate il fuoco” è indispensabile (era la prima delle proposte avanzate dagli europei e da Kiev), secondo Trump, perché “ho fermato fin qui sei guerre senza alcun cessate il fuoco prima”.
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Il genocidio di Gaza non è brandito solo dalla destra israeliana
di Piccole Note
“Per ogni vittima del 7 ottobre, 50 palestinesi dovevano morire. Non importa se si trattava di bambini. Non per vendetta, ma per lanciare un messaggio alle generazioni future: non c’è niente che potete fare. Hanno bisogno di una Nakba di tanto in tanto, per sentirne il prezzo” della ribellione. Così il generale Aharon Haliva, che il 7 ottobre guidava l’intelligence militare e si è dimesso dopo quel disastro, in un’intervista a un media israeliano.
“È proprio Haliva – commenta Gideon Levy su Haaretz – che è in un certo senso un eroe del centro-sinistra, a delineare il ritratto di un generale genocida. Si dissocia da Bezalel Smotrich, deride Itamar Ben-Gvir e attacca Netanyahu senza riserve, da generale illuminato e progressista qual è. Ma pensa e parla esattamente come loro”.
“In definitiva, sono tutti sostenitori del genocidio. La differenza sta solo tra chi lo ammette e chi lo nega. Nel campo degli illuminati dediti all’auto-adulazione a cui appartiene, Haliva si è rivelato uno dei pochi ad ammettere: abbiamo bisogno di un genocidio ogni pochi anni; assassinare il popolo palestinese è legittimo, persino essenziale”.
“È così che parla un generale ‘moderato’ dell’IDF. Non è come altri [graduati] estremisti” che in questi anni sono balzati agli onori della cronaca per gli orrori disseminati a Gaza.
Haliva, infatti, è “un bravo ragazzo di Haifa e del quartiere residenziale di Tzahala a Tel Aviv”.
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Anchorage, la nuova Yalta?
di Gerardo Lisco
Messaggio chiarissimo di Trump all’UE, ai volenterosi e a Zelensky: “Non vi mettete di traverso per impedire il processo avviato”. Più chiaro di così non poteva essere. Se questa dichiarazione l’avesse fatta Putin avrebbe sortito effetti diversi. Scorrendo le notizie e i commenti prendo atto che siamo in presenza di pura e semplice propaganda: i media nazionali hanno avuto l’ordine di far passare l’idea che l’incontro è stato un fallimento. Far passare quest’idea serve alle oligarchie, alle tecnocrazie e ai governi che sono ancora in gioco, solo così si capisce la dichiarazione congiunta dei capi di governo riportata sul sito web dell’Unione Europea, che ha come unico scopo quello di negare l’evidenza dei fatti. È fin troppo chiaro che una fase è terminata e che il nuovo corso, pur essendo ancora in embrione, non vuole essere abortito. L’Unione Europea dopo aver perso, non una ma ben due occasioni storiche, adesso rincorre l’emergenza, cercando di bloccare il processo avviato ad Anchorage da Trump e Putin. Lo fa attraverso opinionisti e giornalisti che definiscono i due dittatori, autocrati, psicopatici e altro ancora. Leggendo queste definizioni mi vengono in mente personaggi che hanno fatto la Storia, oggi celebrati, che molto probabilmente, ai loro tempi sono stati appellati più o meno allo stesso modo. Ne cito alcuni: Cesare, Ottaviano Augusto, Costantino, Federico II di Svevia, Federico II di Prussia, Elisabetta I Tudor, Isabella di Castiglia, Napoleone Bonaparte, l’elenco è lungo.
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Più domande che risposte dagli incontri alla Casa Bianca
di Gianandrea Gaiani
Tante chiacchiere (molte in libertà), grandi proclami ma poco pragmatismo e soprattutto pochi sviluppi concreti sembrano essere emersi dagli incontri di Washington tra i leader europei, Volodymyr Zelensky e Donald Trump.
Nei colloqui il presidente USA non ha lesinato elogi ai suoi interlocutori, da Zelensky a Rutte, von der Leyen, Starmer, Macron, Meloni, Merz e al presidente finlandese Stubb, ma se le parole spese sono state pure troppe, di contenuti se ne sono visti e sentiti davvero pochi.
Trump ha detto che ama gli ucraini (ma anche i russi) ed è stato molto ospitale con tutti i leader intervenuti, ha fatto persino un siparietto comico con Zelensky che per la prima volta è stato visto con addosso una giacca ma, per capire se si sono fatti passi avanti bisogna porsi domande molto concrete. E soprattutto cercare (a fatica) eventuali risposte.
In realtà una serie di incontri faccia a faccia con alcune sessioni di gruppo in cui a quanto pare Trump ha spiegato almeno due concetti chiave messi a punto in Alaska con Vladimir Putin, due passaggi fondamentali per arrivare alla pace ma che il leader ucraino e quelli europei si sono mostrati riluttanti ad accettare.
Nessuna tregua
Il primo è l’accettazione delle condizioni poste da Putin e sottoscritte da Trump che non ci sarà nessuna tregua o cessate il fuoco su cui imbastire lunghe trattative di pace mentre le truppe ucraine si riorganizzano dopo due anni di sconfitte consecutive.
Dopo gli accordi di Minsk per la pace in Donbass (“portati avanti per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di armarsi” come ammisero nel 2022 l’ex cancelliere Angela Merkel e l’ex presidente francese Francois Hollande), i russi non si fidano più degli europei e vogliono un accordo di pace che chiuda il conflitto “rimuovendone le cause profonde”.
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Oltre la Ue? Bonificare il dibattito
di Matteo Bortolon
“Dobbiamo avere una prospettiva europea perché da soli non andiamo da nessuna parte”. “Non si può tornare indietro ai vecchi Stati-nazione”. Tali argomenti – o meglio slogan – hanno insopportabilmente infarcito il dibattito, trovando il pigro consenso dei più stanchi luoghi comuni semicolti.
La questione, legata al dibattito sulla Ue e sull’euro, è diventata uno slogan da mulinare sulla testa degli avversari più che un assunto da valutare razionalmente e criticamente.
Oggi si può forse ragionare più serenamente, dato che nessun partito che abbia un minimo di potere nemmeno ventila la possibilità di scrollarsi di dosso il carrozzone eurounitario di fronte a cui ogni declinazione possibile di establishment (progressisti, liberali, conservatori, identitari…) si è genuflesso come di fronte ad un idolo. Anzi: si può provare a ragionare tout court, dato che la polemica e l’astio hanno tolto il terreno per una riflessione meditata, che pur sarebbe necessaria in una fase di riassestamento degli equilibri geopolitici; situazione opportuna per eventuale ridefinizione della politica estera del paese, purché si abbia qualche idea.
Se non li convinci spaventali
Il punto di partenza non può che consistere nella modestia dell’argomento per cui “l’Italia è troppo piccola per fare da sola”; si tratta semplicemente di una pedata nei denti contro chiunque mettesse in questione l’aderenza dell’Italia alla Ue.
Naturalmente vi erano argomenti diversi pro-Ue. Una linea di argomentazioni “alte” era piuttosto elitista: l’integrazione europea sarebbe il vertice di un processo secolare di crescente avvicinamento dei popoli europei, un destino storico volto alla fratellanza e basato su una base di cultura condivisa. Argomentazione da progressismo colto e professorale, poco adatto alle orecchie di ceti in sofferenza sociale che piuttosto che l’europeismo ideale tastano con mano l’austerità reale.
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Eurosinistrati
di Leonardo Mazzei
I peggiori di tutti…
Il vento d’Alaska fa male all’Europa guerrafondaia. Fa male alla sua stampa, ai suoi governi, ai suoi partiti. Ma fa ancora più male agli eurosinistrati.
Tutti i giornaloni del Vecchio continente hanno raccontato la favola di “un vertice fallito”, di un “Trump sottoposto a Putin”, di una “intesa tra autocrati”, che però non avrebbe “prodotto nulla” visto che “non c’è la tregua”. Ma come! Non avevano forse detto, proprio loro, che le scelte spettavano al suonatore di piano di base a Kiev? Bene, di cosa si lamentano adesso?
Proprio insieme a lui, alcuni caporioni europei oggi andranno a Washington a implorare il loro principale: che la guerra continui a tutti i costi! Ecco l’Europa reale chiamata Ue, quella che dicevano esser venuta al mondo per porre fine alle guerre…
* * * *
Da vent’anni non leggiamo più il Manifesto, superfluo spiegare il perché. Ma oggi abbiamo deciso di fare un’eccezione, certi di trovare in quelle pagine l’allineamento con i giornaloni di cui sopra. La conferma, cioè, di una deriva senza fine. Da questo punto di vista la spesa una tantum di 2 euri è stata ampiamente compensata dalla lettura delle prime quattro pagine.
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Tra guerra e pace, con poche scelte
di Francesco Piccioni
Cercare un ordine nel caos, di solito, è un’impresa per premi Nobel… E se dovessimo prendere per egualmente buone tutte le “voci” o le dichiarazioni in chiaro dei vari protagonisti, il secondo vertice “per la pace” – quello di oggi a Washington, dopo l’Alaska e prima di un eventuale “trilaterale” che comprenda gli ucraini – andrebbe descritto come “un racconto narrato da un idiota, pieno di rumore e furia, che non significa nulla”.
Partiamo dal poco che sembra sicuro. I vertici di oggi saranno almeno due: il primo sarà – salvo sorprese – quello tra Trump e Zelenskij. Subito dopo saranno ammessi al briefing anche i nanerottoli europei (i leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, più von der Leyen come presidente della Commissione, il finlandese Stubb come presidente di turno, il pupazzo Rutte come segretario della Nato).
Abbastanza chiara anche l’intenzione Usa di tener distinte le posizione di Kiev e degli europei, per il banale fatto che se l’Ucraina si dovesse mostrare disponibile a un certo tipo di compromesso allora le obiezioni UE conterebbero meno di zero.
Altrettanto chiara la speranza europea, opposta, di impedire che il già periclitante “percorso di pace” faccia passi avanti verso una soluzione diversa dal sogno di una “sconfitta russa”. Ci si interroga sullo stato di salute mentale di questa armata brancaleone che non riesce neanche a vedere la realtà sul campo, ma persiste nel vaniloquio del wishful thinking.
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Da Gaza allo zoo, al vertice Trump-Putin, a Schillaci-No Vax, a Pippo Baudo santo subito. Cose raccapriccianti
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=hGnegwFO6xA&t=160s
https://youtu.be/hGnegwFO6xA
NON SI UCCIDONO COSI’ ANCHE GLI ANIMALI?
Correggo subito un errore. Nel video riferendomi a una recente trasmissione RAI ho sbagliato il titolo: è “Evviva”, non “Vivere”. Scusate.
Nel video, ci si muove, costernati e incazzati, tra una serie di fatti raccapriccianti, capitati tutti uno addosso all’altro e strettamente imparentati, poi coronati dalle fastose celebrazioni di alcuni gatekeeper fatti “padri della patria”.
Raccapricciante 1
Gli psicopatici onanisti suicidi europei, assetati di sangue da far versare a tutti noi per far tracimare i forzieri dei loro mandanti armaioli, si accontentavano di far fuori Putin, ma ora si illudono di poter far fuori anche Trump. Che se lo merita, ma non per i motivi per i quali è odiato da questi imbecilli. L’idea di pace, che il sangue di ucraini non possa continuare a farsi alluvione e quello dei russi non continuare a irrorare la loro terra in nome di libertà e giustizia, con ciò seccando le loro economie capitaliste stupide e malate e bloccando l’ultima Thule della riproduzione dell’accumulazione, li manda fuori di testa. Gli prospetta la fine e si dibattono nelle spire di fetori di morte. Sanno che è la loro.
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Imbecillità imperante
di Nico Maccentelli
I casi sono due: o gli inviati ad Anchorage Rosalba Castelletti e Paolo Mastrolilli per La Repubblica non hanno capito nulla, oppure hanno confezionato una versione fake propagandistica per la percezione stereotipata che hanno dell’opinione pubblica. Infatti il titolo del loro pezzo già si commenta da solo: Fallisce il vertice Putin-Trump.
In pratica hanno visto un altro film… eppure non sono stati in una multisala, ma l’unico proiettore da cui poter vedere l’unico schermo che passava il convento ha fatto vedere l’incontro con tutti gli onori e riconoscimenti tra gli esponenti di due grandi potenze. Un riconoscimento alla Russia conquistato sul campo della guerra e delle relazioni internazionali, delle alleanze che ha ratificato ciò che è di fatto oggettivamente reale: essere potenza globale nell scacchiere internazionale.
Ovviamente questa narrazione oggi dominante nel 90% del pianeta, non poteva non essere riconosciuta dall’amministrazione USA che cerca di sganciarsi dal bellicismo esasperato di una UE-NATO sempre più alle corde e svenata da una guerra e da sanzioni che sono più un rastrello nei denti dopo averlo volutamente pestato. Al declino dell’impero americano la Casa Bianca non ci sta e tenta un comprensibile per un paese imperialista riposizionamento geopolitico. Questa è la sostanza, che ha il sapore tutt’altro che quello di un fallimento.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quindicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE V
e. Le Commissioni su tariffe e conflitti (RKK): non solo arbitrato
Le Commissioni su tariffe e conflitti… già, perché esistevano anche quelle: le RKK non erano, nonostante la funzione arbitrale di entrambe si presti ad analogie, l’equivalente dei nostri Collegi di conciliazione e arbitrato.
Anche qui, potremmo fregarcene altamente e andare avanti, che di strada da qui alla fine del periodo considerato da questa ricerca, ovvero la fine stessa dell’URSS, ce n’è ancora da fare, ma sorge sempre la stessa domanda… che senso ha, in un lavoro sui sindacati di anni, aggiornato al 2025, fatto fuori dall’orario di lavoro e da tutti gli altri impegni quotidiani, prendersi in giro ancora una volta, far finta di niente per l’ennesima volta, sempre per l’ennesima volta farsi bastare formulette e stereotipi vecchi, nella migliore delle ipotesi, di oltre mezzo secolo? Tanto valeva non affrontarlo nemmeno, se è già “tutto scritto”. Davàj, quindi, come dicono da Kaliningrad a Vladivostok: esaminiamo anche le RKK.
L’unica analogia delle RKK con i nostri Collegi è la comune vocazione all’arbitrato, ovvero alla risoluzione di contenziosi senza il ricorso al giudizio di un tribunale: per il resto, tutto cambia.
Partiamo dal nome: Rascenočno-konfliktnaja komissija. Rascenit’ (laddove la “c” è una z aspirata) viene da cena (medesima accortezza, traslitterabile come “tsena”) e vuol dire “stabilire il prezzo”, che nel caso del giovane Paese dei Soviet era ancora legato alle tariffe salariali del cottimo, più che a un salario fisso; konflikt, invece si presenta da solo. Una komissija chiamata, pertanto, a svolgere compiti ben più ampi dei licenziamenti “non per giusta causa”. Komissija figlia della NEP, figlia di quel momento storico in cui i bolscevichi capirono che, per riprendersi dalle macerie della guerra d’invasione, della guerra civile e del comunismo di guerra, la loro breve esperienza di autogestione operaia e le loro ancora scarse conoscenze in materia non sarebbero bastate, così come il semplice mettere qualche “tecnico” a guinzaglio stretto a eseguire i loro ordini: non sarebbero bastate a garantire il ripristino di quella maledetta ruota che, fino a prima della Rivoluzione, aveva macinato terra, sangue e produzione e riproduzione merce dispensando, ogni tanto, qualche briciola alla “plebe sempre all’opra china” che la faceva girare.
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E’ uno sporco lavoro / 3: Hiroshima Nagasaki Russian Roulette
di Sandro Moiso
Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra mondiale
Nessuno aveva mai visto niente di così terribile, prima
il mondo guardava con gli occhi spalancati per vedere come sarebbe andata a finire
Gli uomini del potere eludevano l’argomento
era un momento da ricordare, non dimenticheremo mai
Stavano giocando alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki
(Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)
Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e della sua espressione politico-militare. Ciò di cui qui si parla prende infatti avvio dalla affermazione fatta da Donald Trump, dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, secondo il quale: «I raid sull’Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra». Secondo tale narrazione, infatti, i bombardamenti delle due città giapponesi avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945 avrebbero costituito l’ultima ratio per risparmiare la vita di un numero di soldati americani che andato crescendo nel tempo da 500 000 a un milione. Ma nel corso di questo articolo si vedrà se è stato davvero così. Per adesso, quel che si può dire è che il riferimento ha suscitato l’indignazione degli “hibakusha”, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, poiché:
Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato. [Ma] il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile»1.
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Zelensky all'atto finale?
di Vincenzo Brandi
I commenti provenienti da ambienti europei che fanno capo alla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” – quelli che vogliono continuare la guerra alla Russia a ogni costo – e dal codazzo di giornalisti e commentatori che sono da loro stipendiati, per farsi coraggio parlano di “fallimento” del vertice tenuto in Alaska perché non sarebbe stato raggiunto il presunto obiettivo del vertice, quello di imporre alla Russia una tregua senza condizioni.
In realtà il vertice Putin-Trump ha riguardato obiettivi ben più importanti e globali di quelli auspicati dai “volenterosi” e dal loro pupillo Zelensky.
Il vertice si è interessato delle condizioni fondamentali per una pace duratura in Ucraina, e non di una semplice tregua che sarebbe solo servita a cercare di riarmare e rilanciare le azioni dell’esercito ucraino, in chiara difficoltà e a corto di uomini per l’esplodere della renitenza alla leva e le fughe continue all’estero di giovani, e meno giovani, per non essere arruolati.
Il vertice, più in generale, ha riguardato le condizioni necessarie per ottenere una situazione di reciproca sicurezza a livello mondiale. Il presidente Trump, rinunciando agli atteggiamenti da bullo che lo avevano portato a minacciare gravissime sanzioni contro la Russia se non avesse accettato una tregua immediata e incondizionata (un “bluff” in cui gli esperti dirigenti russi non sono minimamente caduti), ha alla fine saggiamente accettato l’agenda proposta dai Russi che consisteva nell’affrontare problemi ben più vasti e significativi di una semplice tregua, che riguardano l’avvenire del dialogo tra USA e Federazione russa.
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Le guerre di Israele sono (anche) guerre per procura
di Antiper
La difesa compatta del genocidio israeliano a Gaza e delle operazioni militari dell’entità sionista e terrorista da parte delle “cancellerie” di tutti i paesi dell’impero americano viene spesso letta come la manifestazione evidente di una sudditanza nei confronti di Israele. Questa idea degli ebrei che dominano il mondo sembra però la semplice riproposizione della vecchia teoria della “cospirazione giudaica” e non spiega efficacemente il reciproco e dialettico interesse che nutrono Israele (assieme a larga parte della comunità ebraica internazionale) e i gruppi dominanti del blocco imperialista a guida USA.
Certo, all’interno di questo blocco, Israele non è un semplice stato-vassallo come lo sono l’Italia o la Lituania o (ancora per poco) l’Ucraina. Israele è un paese che ha un grande peso politico che si mostra platealmente nelle standing ovation che il Congresso americano, senza alcuna forma di pudore, tributa a un criminale genocida le cui azioni non hanno nulla da invidiare a quelle di Adolf Hitler.
Dopo la Seconda guerra mondiale (e per diversi aspetti anche in precedenza, visto che la dichiarazione di Balfour avviene durante la Prima guerra mondiale) gli ebrei stipulano un patto con le potenze imperialiste e colonialiste vincenti (gli USA e soprattutto la Gran Bretagna, a cui era stato assegnato il protettorato della Palestina dopo il crollo dell’Impero Ottomano alla fine della Grande guerra):
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Per la Cina, la guerra in Ucraina è un laboratorio
di Alessandro Visalli
L’ex generale David Petraeus, ex comandante in Iraq e Afghanistan ed ex Direttore della CIA, in questo articolo per The National Interest, rende abbastanza chiaro perché l’amministrazione americana stia cercando di far finire la guerra in Ucraina. La dimensione strategica generale dello scontro è il ruolo di “laboratorio” per la Cina. Come mostra l’autorevole osservatore la Cina è il principale “facilitatore economico e industriale” della Russia, ma anche il fornitore di sistemi militari dei quali valuta in questo modo l’efficacia in una guerra ad alta intensità contro tattiche e materiali Nato. In tal modo può acquisire, senza perdere un uomo o un mezzo (anzi, vendendoli), cruciali informazioni e, in tal modo, con le sue parole “perfezionare i concetti che utilizzerà per guidare lo sviluppo delle proprie armi, l’addestramento militare e le strutture organizzative”. A parere dello scrittore ormai Pechino “funge da spina dorsale logistica del complesso militare-industriale russo”. Microelettronica, macchine utensili ed esplosivi per i proiettili, Con il supporto cinese i russi si apprestano a produrre entro l’anno in corso l’incredibile cifra di due milioni di droni di attacco avanzati a FPV (controllo immersivo in prima persona). Il punto è che queste forniture messe alla prova delle capacità avanzate di difesa, fisica ed elettronica, fornite dall’occidente all’Ucraina, consentiranno di produrre nuove generazioni di armi.Petraeus aggiunge che tutte le informazioni convergono in un sistema centralizzato di gestione che è in grado di “rispondere molto più rapidamente della burocrazia degli appalti dell’era industriale degli Stati Uniti”.
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Chiarimenti sull’effetto espansivo del deficit pubblico
di Marco Cattaneo
Conversando con Giovanni Piva, mi sono reso conto della necessità di chiarire alcune cose in merito all’effetto espansivo del deficit pubblico e a come questo effetto (non) vari in funzione di come viene “finanziato”.
Deficit pubblico significa che lo Stato spende più di quanto preleva con le tasse. Quindi immette moneta nell’economia. Questo è (dovrebbe essere ?) chiaro a chiunque.
Tuttavia, se contestualmente lo Stato emette titoli per “finanziare il deficit”, la moneta immessa viene ritirata e quindi l’effetto espansivo sparisce. Giusto ?
NO.
Lo Stato quando spende, spende MONETA. Quella entra nell’economia.
E se lo Stato spende per stipendi pubblici o per investimenti, IMMEDIATAMENTE genera PIL. La moneta passa di mano (arrivando al dipendente pubblico o al fornitore delle opere pubbliche) che si ritrovano con un incremento del loro risparmio finanziario.
Se viene loro offerta una forma di impiego sotto forma di titoli di Stato, sono di solito interessati ad utilizzarla. Ma l’effetto espansivo sul PIL SI E’ COMUNQUE GIA’ VERIFICATO.
NON è affatto vero che “l’effetto espansivo svanisce perché la moneta precedentemente emessa viene ritirata”.
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Cento parole al giorno
di Tiziana Miano
USA 2018, mentre la cosiddetta “dottrina Trump” s’imponeva, dentro e fuori casa, all’attenzione dei tanti, nelle stesse terre del melting pot vedeva la luce un ennesimo romanzo che, qualora ve ne fosse stato bisogno, andava ad aggiungersi al Sancta Sanctorum del già nutrito filone distopico di ordine femminista di successo. L’opera letteraria in questione, porta per titolo Vox, prodotto d’esordio di Cristina Dalcher edito da Nord.
Con una scrittura priva di orpelli semantici, l’uso di un linguaggio diretto, asciutto, a tratti forse troppo e a discapito di una maggiore profondità e articolazione di pensiero, l’autrice centra comunque il bersaglio toccando la sensibilità di superficie del lettore medio che, da subito, diviene empatico complice dei bisogni, degli intimi desideri, dei sussulti d’odio, di libidine e soprattutto, delle ragioni di ribellione e tradimento della protagonista, Jeane. Non potrebbe essere altrimenti. Di fatto, il gran numero di elementi (ammiccamenti?) tipici di un prodotto letterario che soddisfi precisi comparti socioculturali, precise sensibilità (che siano quelli di una sinistra radical chic o alla comunità LGBTQIA+ e altri), ci sono tutti. Troviamo, infatti, l’amica politicizzata, attivista rampante, e la ricercatrice geniale, rigorosamente entrambe lesbiche; il conciliatore, dialogante col potere che, a sorpresa, rivela un salvifico sprazzo d’eroismo e via così.
Lo scenario di futuro immaginato dall’autrice, che in vero non osa discostarsi da soluzioni già battute ben più sapientemente da altri è quello di un regime totalitario bianco giunto a sovvertire l’ordine costituito e cambiare, ovviamente in peggio, le sorti delle donne.
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Accordi fuffa: la deindustrializzazione Usa è irreversibile
di Joseph Halevi*
Penso che la formazione degli strati politici europei sia tale ormai che non riescono proprio a trovare, a individuare, spazi per i propri paesi. Di conseguenza sono piuttosto orientato a pensare che si allineano e basta, sapendo che ci saranno dei costi da pagare, ma di scaricarli poi sulla popolazione normale, diciamo così.
Non riesco proprio a pensare, a vedere, dei politici autonomi, capaci di dare un pensiero… L’ultimo che mi viene in mente è Kohl, per esempio, dopo non ne vedo. Forse un po’ Schroeder, però ha avuto la grossa responsabilità di accelerare la finanziarizzazione della Germania, tra l’altro, e quindi di rompere questa coerenza che c’era tra sistema bancario e sistema industriale tedesco che dava una notevole forza alla Germania.
L’Italia poi, con la fine della prima Repubblica, non ha più niente, non ha più nulla, quindi io non riesco a individuare spazi di autonomia, perché se si devono individuare degli spazi di autonomia bisogna pensare che la prima cosa che avrebbero dovuto proteggere è le risorse energetiche, è ovvio, le fonti energetiche. Non le hanno protette.
Voglio dire, è stato fatto saltare il North Stream 2 e questi non hanno nemmeno protestato. Di conseguenza, io proprio non vedo nessuno spazio in quel senso.
Però qui vorrei dire alcune cose: bisogna vedere quale è l’obiettivo statunitense. Noi siamo in una nuova fase del: “i problemi sono vostri e i dollari sono nostri”. John Connally, che fu il segretario al Tesoro del presidente Nixon nella crisi del ’71, proprio in un incontro di 10 paesi a Roma, alla fine del ’71, dopo l’abbandono della parità aurea decretata da Nixon il 15 agosto del 1971 tra dollaro e oro.
A Roma in questa riunione lui disse: “il dollaro è nostro, però i problemi – sottinteso del dollaro – sono i vostri”. Così disse all’Europa, al Giappone … agli europei e ai giapponesi, sostanzialmente. E noi ci ritroviamo di nuovo di fronte a questa situazione.
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Controllare
di ESC - substack.com
Vi siete mai chiesti perché tutte le istituzioni più importanti sembrano emettere gli stessi messaggi? Perché la vostra banca, la scuola di vostro figlio, il vostro governo e persino la vostra chiesa si preoccupano improvvisamente delle stesse “sfide globali” e promuovono soluzioni identiche? Non è una coincidenza. È un sistema.
Termini chiave:
- Modelli: previsioni informatiche di organizzazioni internazionali (IIASA, IPCC, OMS, Banca Mondiale) che stabiliscono quadri politici
- Reti triangolari: partnership tra tre tipi di istituzioni che sembrano indipendenti ma si coordinano sullo stesso programma
- Punti di strozzatura: punti di pressione economica (banche, licenze, piattaforme) che impongono la conformità senza il controllo diretto del governo
Il modello
Pensate agli ultimi anni. Quando è scoppiato il COVID, le principali istituzioni hanno risposto con un coordinamento straordinario:
- Il vostro datore di lavoro ha implementato protocolli sanitari simili
- La vostra banca ha lanciato prodotti collegati agli ESG, spesso includendo il monitoraggio dell’impronta di carbonio
- La scuola di vostro figlio ha insegnato lezioni simili sulla pandemia
- Il vostro governo ha seguito una guida esperta comparabile
- La vostra chiesa locale ha promosso messaggi simili sulla salute pubblica
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Trump-Putin, l’accordo c’è anche se non si vede
di Barbara Spinelli
Dicono i media statunitensi, compresi quelli vicini a Trump, che il vertice con Putin in Alaska non ha prodotto il successo immaginato dalla Casa Bianca, anche se l’evento è stato spettacolare: era la prima volta che le due potenze nucleari si parlavano, dall’inizio della guerra per procura in Ucraina che Joe Biden e Boris Johnson vollero proseguisse anche quando Kiev accettò una bozza d’intesa con Mosca, poche settimane dopo l’invasione del febbraio 2022. In realtà l’accordo fra i due presidenti c’è, anche se entrambi non intendono per ora formalizzarlo. “Nessun accordo fino a quando l’accordo c’è”, riepiloga Trump. Adesso tocca a Zelensky prendere la decisione che metta fine alla guerra, o almeno produca una tregua duratura. Zelensky recalcitra, ma dovrà valutare prestissimo: Trump l’ha convocato a Washington fin da domani. E tocca decidere agli Stati europei, che per tutto questo tempo hanno boicottato i tentativi di Washington, senza mai provare vie diplomatiche alternative e limitandosi a insistere sugli aiuti militari a Kiev, sulle sanzioni a Mosca e sul proseguimento della guerra. I cosiddetti “europei volenterosi” si dicono convinti che entro un decennio Mosca aggredirà il resto del continente. Quanto agli ucraini, la maggioranza chiede “pace subito”: ma che importa, sono loro a morire, mica noi. Infine la decisione spetta alla Nato, che dovrà ammettere una disfatta monumentale. Se Kiev e i volenterosi capiranno che la palla è nel loro campo, e che la sconfitta è ingiusta ma ineludibile, l’accordo potrebbe culminare in un incontro fra Putin, Trump e Zelensky.
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Gli spot interattivi per vendere assistenzialismo per ricchi
di comidad
Il famoso apocrifo keynesiano afferma che sul lungo periodo saremo tutti morti; però ancora più certo è che sul “lungo periodo” si può speculare e ipotizzare all’infinito, con un ovvio effetto di distrazione dai dati di fatto immediati. Ad esempio, vari illustri commentatori predicono che la politica dei dazi di Trump determinerà un effetto protezionistico e a lungo termine una conseguente reindustrializzazione degli Stati Uniti. Come no? Tutto può essere. Intanto però i dazi sono una tassa sui beni importati che viene pagata dal consumatore finale, e ciò in un paese dove la gran parte dei beni di consumo viene importata. Si può discutere se i dazi provocheranno o meno inflazione, visto che i dati ufficiali sull’occupazione sembrano indicare una recessione, tanto che Trump ha licenziato la responsabile delle statistiche. Quel che risulta certo è chi paga i dazi, cioè il contribuente più povero, quello che non può rivalersi su nessuno. All’opinione pubblica i dazi possono essere “venduti” in molti modi: ai più come rivalsa nazionale e, per coloro che hanno orecchiato qualcosa di economia, li si può persino spacciare come presunto contrappeso all’IVA degli europei.
I dazi li avevano imposti anche i predecessori di Trump, con meno clamore ma con motivazioni analoghe. Oggi Trump li ripropone in grande stile e con tariffe abbastanza irrealistiche e, nel contempo, ha prorogato e ampliato i tagli fiscali a favore delle imprese. Il carico fiscale è stato quindi trasferito sul contribuente povero, al quale tutto ciò è stato venduto come un progetto di grandeur nazionale dilazionato nel futuro.
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Iene e sciacalli sui martiri di Gaza
di Patrizia Cecconi
In tutta Italia, nonostante le complicità sudice e corrotte di alcuni mezzi di comunicazione grandi e piccoli che senza vergogna coprono Israele, ormai la solidarietà verso il popolo di Gaza si muove in mille diverse forme, anche soltanto umanitarie.
Questo perché è ormai evidente che il popolo gazawi è martoriato con tecniche sempre più simili a quelle usate dal nazi-fascismo contro gli oppositori politici e le minoranze religiose ed etniche. A tal punto simili che chi ha studiato le peculiarità del Terzo Reich e le tecniche praticate contro i 17 milioni di internati nei campi di sterminio, ritrova nelle azioni dell’ IDF la stessa crudeltà "gratuita" dei militari nazisti addetti ai lager e lo stesso sadismo e l’identica vigliaccheria delle famigerate einsatzgruppen che si accanivano contro i civili inermi, in particolare donne e bambini.
Non ci sono croci uncinate sulle divise dei carnefici ma stelle di David, e lo Stato cui appartengono gode ancora, impropriamente, dell’appellativo di Stato democratico come ci ricordano servitori e valletti delegati a formare la pubblica opinione tra cui, tanto per fare un esempio, la graziosa Adriana Bellini che in un TG de La7, dando asetticamente notizia dell’uccisione quotidiana da parte di Israele di qualche decina di civili palestinesi (inermi e affamati) precisa però, che “come sappiamo tutti, Israele naturalmente è un paese democratico mentre Hamas è un’organizzazione terrorista”, come a dire che se hai l’etichetta giusta sulla divisa puoi trucidare impunemente decine di migliaia di esseri umani, tanto resti democratico!
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Stati Uniti: ambiente e terre pubbliche sotto attacco
di Ezio Boero
La storia dell’umanità è stata anche caratterizzata da una ricorrente espropriazione, da parte di una minoranza della popolazione, dei beni comuni che appartengono a tutti. Negli ultimi secoli ciò è stato funzionale all’accumulazione capitalistica, a cominciare dalla privatizzazione delle terre. Gli Stati Uniti, nati dalla violenta appropriazione delle terre accudite collettivamente dai nativi, ne sono un esempio estremo. Ma anche in quella nazione ci sono ancora luoghi comuni, non interamente aggrediti dalla logica del profitto e preservati per il loro valore naturalistico. E anche, alcuni di essi e in tempi più recenti, per il significato che i nativi annettevano loro. Dal 1872, con la creazione del parco di Yellowstone, i territori protetti, diffusi in in 50 Stati degli USA, sono oggi più di 400, per un totale di 340.000 chilometri quadrati (più del territorio dell’Italia, che è di 302.000 chilometri quadrati). Ma non solo da oggi, e non solo col Partito Repubblicano al governo nazionale o dei singoli Stati dell’Unione, queste terre pubbliche hanno solleticato l’appetito del profitto privato. Innumerevoli sono state le lotte dei nativi, degli ecologisti, del popolo consapevole per difenderle da ripetuti tentativi di utilizzarle per il passaggio di oleodotti o per lo scavo alla ricerca di gas e petrolio.
Tali attacchi si sono drasticamente rafforzati col ritorno di Trump al governo e l’immediata nuova fuoriuscita degli USA dai già insufficienti accordi di Parigi contro l’emergenza climatica.
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Politica dei dazi, multipolarismo e rischio di crisi del dollaro: qualche riflessione
di Andrea Fumagalli
Si sa che a furia di ripetere il falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò che importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo che li posiziona al 15% non è poi tanto male. Si dimentica, tuttavia, che tale accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di dollari di investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni. Considerando che ad oggi l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà essere rispettata.
Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump?
I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia.
Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi).
Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie.
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La Sinistra Negata 02
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Parte prima. Gli Anni Sessanta. (Seconda parte, la prima parte la trovate qui)
(Avvertenza: le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, ma partono in ordine progressivo relativamente a questa parte)
3. PRIMI PASSI.
L’esplorazione dell’universo di fabbrica e della nuova composizione di classe inizia con l’apparizione, nel 1961, del primo numero dei “Quaderni Rossi”. L’uscita della rivista è preceduta da un’inchiesta condotta alla FIAT da alcuni membri del futuro gruppo redazionale, al fine di scoprire le cause dell’apparente passività rivendicativa regnante negli stabilimenti torinesi. «Si trattava di capire – chiariranno poi i redattori dei “Quaderni Rossi” – se questa mancanza di lotta corrispondeva a una situazione di effettiva “integrazione” degli operai nel sistema aziendale, o se esisteva una spinta di lotta che non era in grado di realizzarsi concretamente, e per quali ragioni»1.
È da notare che questa inchiesta «non si sviluppava direttamente su problemi direttamente politici, ma consisteva principalmente in un’analisi (che veniva fatta dagli intervistati attraverso le risposte al questionario) dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali (conflittuali o meno) che si sviluppavano in riferimento a essa»2. Già in queste premesse sono contenute molte delle linee di fondo della successiva esperienza del “Quaderni Rossi”. I filtri ideologici, specie di natura ottocentesca, che la sinistra adotta per organizzare in schemi politici il conflitto di classe, sono seccamente respinti. Lo strumento dell’inchiesta, condotta assieme agli stessi operai (la cosiddetta “con-ricerca”), diviene fondamentale al fine di solidificare un preciso “punto di vista operaio” dal quale l’azione politica deve necessariamente discendere.
Nel caso della FIAT questa impostazione conduce a risultati inattesi. Se “integrazione” c’è, essa riguarda gli operai di una certa età, già protagonisti delle roventi lotte degli anni ‘50 e fortemente sindacalizzati; mentre quel che connota gli operai più giovani è una crescente estraneità, potenzialmente conflittuale, all’azienda e al mito FIAT, in gran parte dovuta a procedure di lavoro spersonalizzanti.
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