Von der Leyen bis, il vuoto della politica
di Andrea Guazzarotti
La candidata alla Presidenza della Commissione per il Partito popolare europeo, Ursula von der Leyen, è stata prima designata dal Consiglio europeo (capi di Stato o di governo), poi eletta dal Parlamento europeo (PE). La Presidente uscente, candidata del più grande gruppo politico al PE, è stata, dunque, riconfermata, dopo che il suo gruppo ha ottenuto una chiara maggioranza relativa, in crescita rispetto alle precedenti elezioni europee. Si tratta di una prova di stabilità nella continuità delle istituzioni europee, oppure di una vittoria figlia della cintura sanitaria europeista eretta nel Parlamento europeo, che poco ha a che spartire con la credibilità personale e istituzionale guadagnate sul campo dalla Presidente uscente (Cerretelli)? Una Presidente «che pochi amano ma molti hanno rieletto per evitare una crisi istituzionale devastante» (ibidem).
Far scegliere agli elettori la Presidenza della Commissione, o della truffa delle etichette
La continuità delle istituzioni europee, in realtà, è difficile da testare. Rispetto alla precedente elezione della “Von der Leyen I”, si è trattato di un apparente ritorno alla prassi – in passato ardentemente patrocinata dal Parlamento europeo – degli Spitzenkandidaten. Una prassi progettata dall’illusione dell’accademia di trasformare la struttura costituzionale dell’UE senza passare per la riforma dei Trattati e, soprattutto, per la (improbabile quanto dolorosa) costruzione di un’egemonia politica e di un demos europeo. Per avvicinare gli elettori alle istituzioni europee e politicizzare la formazione della Commissione, in modo da ridimensionare il ruolo di King-maker del Consiglio europeo (cioè dei governi nazionali), era stata valorizzata la novità normativa del Trattato di Lisbona (2009) che imponeva al Consiglio europeo di designare la Presidente della Commissione «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17.7 TUE).



Chi si aspettava dall’incontro del 17 dicembre fra Stellantis e il Governo una vera svolta, la può trovare solo nei titoli di qualche giornale compiacente. Si può certamente dire che l’occasione sia servita per togliere qualche ruggine accumulatasi nelle relazioni tra il Ministero del Made in Italy (una denominazione quanto mai insincera) e i manager dell’industria automobilistica, approfittando anche della dipartita di Tavares, ma nulla più di questo. D’altro canto le tradizioni non si smentiscono. Gianni Agnelli, parlando del gruppo Fiat, diceva “Noi siamo governativi per definizione”
Il 2025 non sarà un buon anno. I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.
Che cosa cambierà per l’Europa con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca? Predire il futuro, e in particolare prevedere quello che farà Trump – noto, per la sua imprevedibilità e per i suoi umori discontinui – è assolutamente impossibile. Tuttavia occorre fare uno sforzo per tentare di comprendere le conseguenze della nuova situazione americana sapendo che bisognerà di volta in volta modificare le previsioni in base alle dinamiche della realtà. E’ noto che Trump non ama la UE e che appoggia tutti i politici europei nazionalisti di destra che, in una maniera o nell’altra, contrastano l’Unione, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Viktor Orban in Ungheria a Matteo Salvini in Italia e Aleksandar Vučić in Serbia. Trump formerà con loro e con altri una sorta di “Internazionale illiberale” che condizionerà pesantemente la politica europea a partire dalla questione dei migranti. Oltre a Orbán, il primo ministro italiano Giorgia Meloni e il Cancelliere austriaco Karl Nehammer sono entrambi ideologicamente vicini a Trump, sebbene Meloni, amica del capitalista libertario e pazzoide Elon Musk, partner stretto di Trump, non condivida la posizione filo-russa di Orbán. Anche il governo olandese sostenuto da Geert Wilders, un politico anti-Islam, anti-immigrazione e populista, può diventare un alleato di Trump. Il neo eletto presidente americano favorirà con forza la disintegrazione nazionalistica della UE.
Con il voto del Parlamento europeo e del Consiglio della UE, nell’aprile 2024 sono stati adottati i testi legislativi che delineano la nuova governance economica dell’Unione


Circa tre settimane fa è stato pubblicato l’atteso Rapporto sul futuro della competitività europea, a opera dell’ex Presidente di: Banca d’Italia, Banca Centrale Europea, del Consiglio italiano, Mario Draghi. Presentato da molti come un faro di luce che illumina con lungimiranza il tetro destino di un’Europa bloccata tra le pastoie dei suoi conflitti interni e di un’irragionevole austerità, il rapporto Draghi ci offre spunti molto interessanti per comprendere gli scenari che il capitalismo europeo si trova ad affrontare. In un certo senso il Rapporto rappresenta plasticamente una delle diverse varianti dell’applicazione del neoliberismo nell’Unione europea di oggi.
Le politiche economiche dell’Unione europea tutelano gli interessi del grande capitale conducendoci a una crisi di vaste proporzioni, peggiorando drasticamente le condizioni e i diritti dei lavoratori e abbattendo gli spazi di resistenza democratica.
Mentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e 
Qualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.
L’Unione Europea è a pezzi. Alle elezioni per il Parlamento europeo hanno partecipato meno della metà degli aventi diritto. Il problema è che i cittadini dell’Europa sanno bene che il loro voto conta molto poco e che l’Unione Europea è sostanzialmente impermeabile alla volontà popolare. La destra tuttavia è avanzata e condizionerà pesantemente il nuovo Parlamento della UE. Apparentemente poco o nulla cambia al vertice. Ursula von der Leyen è stata appena rinominata Presidente della Commissione UE sostenuta dalle stesse forze della precedente coalizione, popolari, socialisti, liberali e verdi, e il suo programma è di sostanziale conservazione e non prevede alcuna vera riforma. La UE continuerà sulla strada dell’austerità e del liberismo, cioè del suicidio economico per asfissia. La disintegrazione nazionalistica diventa dunque sempre più probabile. L’unica vera grande novità è il riarmo europeo (e soprattutto tedesco). Mentre crescono le pulsioni xenofobe e di destra estrema in Francia, Germania, Italia, Austria, Olanda, Belgio e in altri paesi, la UE si avvia allo scontro con la Russia sotto l’ombrello della NATO a guida americana. Non si vede nessun leader europeo in grado di imporre svolte progressiste alla UE. Per l’Unione, intesa come istituzione politica e non solo come integrazione doganale, è molto probabilmente l’inizio della fine. La UE sembra irreversibilmente avviata verso l’impotenza e la disgregazione. La sinistra socialista e comunista è quasi scomparsa in Europa proprio per avere promosso e sostenuto questa UE liberista dei paradisi fiscali, della libertà dei capitali e dello strozzamento dell’intervento pubblico nell’economia. Se vuole fermare la destra, la sinistra progressista dovrebbe finalmente cominciare a opporsi all’Europa fallimentare di Maastricht e a bloccare l’escalation bellicista in Europa. Diventa sempre più urgente realizzare una Europa fondata su basi radicalmente diverse: una Confederazione di Stati democratici e sovrani che hanno una moneta comune (non unica) e cooperano liberamente per obiettivi condivisi, innanzitutto la transizione energetica e la lotta ai cambiamenti climatici.
Colpisce non poco la recente raffica di provvedimenti questorili contro i manifestanti milanesi pro Palestina. Nell’obiettivo della Questura i partecipanti alla manifestazione del 25 aprile che si erano distinti per il sostegno alla causa palestinese e che avevano espresso solidarietà al diritto di autodeterminazione e alla resistenza di questo popolo.


Un ecosistema politico scombussolato 
Verso un “Libano senza sole”?

































