I nuovi mostri (giuridici)
di Pier Paolo Caserta
Un’epoca di passioni tristi produce idee confuse funzionali al mantenimento degli assetti di potere. Le articolazioni del potere – oligarchie, clientele, consorterie – traggono sempre vantaggio dalla confusione del linguaggio.
Di certo il capitalismo non ha mai mirato a “combattere la violenza”, bensì a proiettarla nel campo dei subalterni per neutralizzarne il potenziale rivoluzionario, che si è realizzato quando la violenza degli oppressi si è rivolta consapevolmente verso gli oppressori. Per la verità, la tecnocrazia neoliberale, ultima forma realizzata del capitalismo, ha raggiunto il risultato con tale efficacia che non soltanto non si vede alcuna rivoluzione all’orizzonte, ma la stessa conflittualità sociale è stata intorpidita. Persino l’esperienza del dolore e del negativo è stata atrofizzata. Il tecno-capitalismo mira, piuttosto, a distruggere le relazioni, a tutti i livelli. Mira al massimo della mercificazione, che, per essere realizzato, presuppone al contempo il massimo della disumanizzazione. Al culmine dell’ideologia mercantile, che si prolunga e si rafforza nel nuovo ordine digitale, la forma attuale del capitalismo ha da tempo scoperto che la maggiore efficacia nel distruggere le relazioni si dispiega adottando pose inclusive, che inducono all’autocensura preventiva. Nessuno, infatti, vuole essere stigmatizzato, tutti vogliono la loro spilletta di persona civile. Ma questo mondo delle ombre, fatto di valori positivi tutti incentrati sull’individuo e non più sulla collettività, è una proiezione dei feticci prodotti dall’individualismo competitivo.
Esemplificando il suo catechismo neoliberista, Margaret Thatcher disse che “non esiste la società, esistono solo gli individui”. Isolato, alienato, radicalmente atomizzato e lasciato a tu per tu con il Mercato, con i corpi intermedi collassati, l’individuo-monade non concepisce più alcuna lotta né alcuna stabile aggregazione collettiva. L’universo valoriale è interamente ritagliato a misura dell’individuo. I diritti individuali neoliberali, dunque, assolvono alla specifica funzione di giustificare il valore assoluto del Mercato.
Si presentano al centro di un discorso di emancipazione, ma sono puramente cosmetici: devono servire a rimuovere la questione sociale. Persino a rendere impossibile la sua posizione.
Il tecno-capitalismo ha le sue emanazioni politiche tanto nella Destra che nel centro-sinistra. Questa falsa polarizzazione, che rimanda a una struttura di potere sostanzialmente unitaria (anche se non priva di contrapposizioni, e tuttavia interne alle oligarchie finanziarie), va avanti da decenni. L’astensione elettorale ormai maggioritaria è uno dei sintomi che in molti se ne sono accorti, ma per dirla con Gramsci il mondo nuovo fatica a nascere. Detto con tutta la serenità che mi deriva dal riconoscere – in quanto socialista e neomarxista – in entrambe queste componenti un avversario politico, per la verità la Destra di sistema presenta oggi qualche crepa critica in più rispetto al centro-sinistra, che ne è invece completamente sprovvisto, essendosi da tempo trasformato nel braccio politico operativo del capitalismo neoliberale. Da alcuni settori della Destra proviene, per esempio, una visione critica chiara nei confronti del politicamente corretto, principale sovrastruttura ideologica del tecno-capitalismo . Premesse condivisibili che mai mi hanno spinto a condividere anche le conclusioni di quella prospettiva politica, per me irricevibili. Nessuno scivolamento è possibile quando la linea del fronte resta saldamente la classe. “Destra” e “sinistra” di sistema stanno parimenti dall’altra parte.
L’ideologia falsamente progressiva imbracciata dal centro-sinistra si traduce tipicamente nelle “campagne di sensibilizzazione”. Plasmate e lanciate dall’alto, dai grandi centri di elaborazione culturale delle classi dominanti, quando sono fatte proprie dai subalterni costituiscono il vero contrassegno post-moderno della presunzione di trovarsi nella verità etica. Kant spiegò che l’agire morale scaturisce sempre dalla tensione attiva verso la forma della legge morale, che per definizione costituisce una condizione alla quale la volontà non è spontaneamente allineata. La virtù, quindi, non è possesso della verità, ma “intenzione morale in lotta”. Chi, invece, è convinto di trovarsi già nel giusto (nella “santità”, dice Kant), smette di ricercare, smette di interrogarsi. E così diventa fanatico. Ecco, la sinistra liberal è in preda al fanatismo morale. Dismessa ogni visione complessa, per altro su problemi quanto mai delicati, sotto le false insegne dell’inclusione e del progressismo spalanca la strada a nuove forme di discriminazione. Il politicamente corretto è il fanatismo specifico di quest’epoca di passioni tristi, si presenta con pretese edificanti. Una parte della società è convinta di possedere la verità morale, la rettitudine, e da questa posizione vuole “sensibilizzare”, ma a volte il linguaggio tradisce il vero intento e l’indole totalitaria del neoliberalismo in modo più diretto, quando si preferisce usare il termine “rieducare”.
Per comprendere l’impeto etico che oggi si riflette nella legge sul femminicidio (e che si era già espresso nel ddl Zan), e nella volontà, non ancora compiuta, di incorporarvi anche il principio del cosiddetto “consenso libero e attuale”, occorre partire da questo assunto di fondo: non siamo in presenza di un passo verso la civiltà, come si ostenta, ma degli effetti concreti dell’ideologia dominante, che si presenta in abiti progressisti ma è la sovrastruttura più efficace del totalitarismo liberale. In un clima di conformismo benpensante, ci si compiace e si esulta per l’introduzione nel diritto penale di eclatanti discriminazioni basate sul sesso di appartenenza.
Non sorprende nemmeno, come detto, che si arrivi a questo risultato in un clima sostanzialmente bipartisan. L’ideologia dominante infiamma in modo spregiudicato la guerra tra i sessi perché costituisce un fronte che distribuisce e canalizza energie relazionali, sociali e critiche lungo l’asse orizzontale, proteggendo dunque il nucleo elitario del potere da ogni residua insidia che potrebbe sorgere qualora i subalterni, pur sedotti in profondità dall’idolo del Mercato rafforzato dagli efficacissimi strumenti del capitalismo digitale, dovessero ritrovare un briciolo della loro coscienza sociale. Qualora dovessero ricominciare a pensarsi come un “Noi”, reso impossibile, dopo quattro decenni di espansione dell’ideologia neoliberale, dalla frammentazione monadistica in una miriade di “Io” che si pensano ciascuno come Impresa di se stesso. Nulla, comunque, è più efficace, per scongiurare ogni pur minimo rischio, che far coincidere il Noi con un genere contro l’altro: ogni possibilità che gli individui possano tornare a pensarsi come classe deve essere disinnescata. La coscienza sociale è stata annientata e frammentata nello “sciame” degli innumerevoli e innocui “io-digitali”.
Occorre aggiungere che la fase attuale del ciclo neoliberale è violenta e recrudescente perché versa in una crisi profonda. Nel probabile punto di flesso dell’egemonia statunitense e del lungo ciclo neoliberale apertosi nel 1973 con il golpe cileno, i tecno-sudditi dell’occidente collettivo, sempre più chiuso e ripiegato su se stesso, devono essere spostati docilmente seguendo di volta in volta gli appetiti del complesso militar-industriale giustificati dalla propaganda: conflitto ucraino, genocidio palestinese finché si è potuto, quindi di nuovo guerra alla Federazione russa. La guerra tra i sessi e la connessa lettura al patriarcato sono quanto mai funzionali per traslare il piano proteggendo lo spazio delle élite, perché occultano l’analisi reale e materiale della struttura del potere sotto il velo di una presunta struttura della società, in realtà non più riscontrabile. Il problema diventano alcuni subalterni contro i quali vengono aizzati altri subalterni (plurale maschile non marcato proprio perché la linea del fronte reale è la classe, non il genere…). Le élite sarebbero ben liete se questo scontro divampasse sempre più oscenamente, come sta facendo, con disprezzo dell’intelligenza e dell’umanità.
Il massimo zelo legislativo, incostituzionale (art. 3 Cost. comma 1, in primis) e sessista (per la precisione antimaschile e anche in modo plateale, quando decade persino l’istituto dell’onere della prova a carico dell’accusa) si realizza nello stesso tornante storico in cui, forse in misura inedita da decenni, si è tornati ad assistere a una vasta rimobilitazione di massa, avvenuta a sostegno della Palestina. Il sistema di potere neoliberale e tecnocratico, che ha nella smobilitazione delle masse il suo cardine complementare al ripiegamento individualistico, ha a questo punto una necessità stringente: che la ri-mobilitazione non si traduca in una ri-politicizzazione. Perché se questo avvenisse, le tensioni e le contraddizioni potrebbero teoricamente essere dirette dal basso verso l’alto innescando una lotta di liberazione. Devono perciò essere scaricate per linee orizzontali: donne contro uomini, come nella peggiore televisione commerciale, ma ora con il sigillo della legge, dell’inclusività, della civiltà. La più meschina generalizzazione antimaschile tradotta in legge, la parità prevista dalla Costituzione disprezzata, le vite delle persone distinte in vite di serie A e vite di serie B, il 25 novembre chiamato a officiare la nuova liturgia neoliberale di massa. Quello che è funzionale alla narrazione viene amplificato all’ennesima potenza, i suoi elementi di confutazione vengono senza scrupoli espulsi dal discorso pubblico. La povera Giulia Cecchettin strumentalizzata da schiere di sciacalli serve e muore un milione di volte, il povero Alessandro Venier fatto a pezzi da madre e compagna non serve, in fondo se l’è cercata e comunque chi diavolo vuoi che se lo ricordi, a chi vuoi che interessi.
Nessun “Noi” deve più nascere da un’istanza di liberazione, dal seno della questione sociale. Deve esistere solo un Noi superficiale e volatile espressione dell’agenda delle élite, che occupa spazi concessi dall’alto ma riempito dall’illusione di nascere spontaneamente.
Da sempre, le guerre non si sono accompagnate in modo univoco a una sola struttura sociale. È di per se evidente: ogni epoca ha avuto guerre. Ma il punto è che la società odierna non è essenzialmente patriarcale. Dalla stessa prospettiva che ha creato un vero mostro giuridico, si stabilisce un nesso stringente tra patriarcato e guerra, ma nel tempo che viviamo è più vero il contrario. Il patriarcato è stato gradualmente superato almeno dalla rivoluzione industriale. Massimo Cacciari suggerì dal Rinascimento, e certo si può recepire questa indicazione perché fu la civiltà umanistico-rinascimentale a forgiare la mentalità utilitaristica e borghese dell’uomo-economico che attraverso la rivoluzione scientifica, e l’illuminismo, si realizzò compiutamente proprio con la rivoluzione industriale. Quest’ultima ha annientato un mondo contadino e artigiano che era patriarcale ma anche solidale. La struttura sociale che progressivamente ha preso il suo posto è invece orizzontale ma individualistico-monadistica, per la verità ormai narcisistica, e quindi anti-solidale, antisociale e in misura crescente antiumana. È questa la natura fondamentale dell’occidente tecno-capitalistico sempre più angusto e guerrafondaio, non il patriarcato-prezzemolo, che nel bene e nel male non costituisce il dato fondamentale della società nella quale viviamo. Ma i tecno-sudditi non devono guardare in alto verso il potere e la sua struttura concreta, devono vedere il pericolo che cammina al loro fianco. È enorme la quantità di energia che il potere riesce in questo modo a scaricare sui livelli inferiori, deviandola e neutralizzandola.
Il clima mediatico costruito ad arte attorno ai femminicidi (circa 40 all’anno secondo le stesse associazioni impegnate nel contrasto alla violenza sulle donne, ma più di 100 secondo il mainstream per bucare la soglia psicologica dell’emergenza) è servito a preparare il terreno spingendo l’isteria del politicamente corretto fino ad assediare il senso comune. Il cosiddetto “consenso libero e attuale” è l’emblema di questa strategia di persuasione organica all’ideologia neoliberale. Proteso verso la radicale mercificazione e dis-umanizzazione dell’umano, il tecno-capitalismo raccoglie il suo successo più grande proprio quando riesce a insinuare il più profondo sospetto nelle relazioni tra i sessi, lavorando in profondità sul livello archetipico; quando spinge la diffidenza fino all’interno del campo insondabile della seduzione – che per sua natura non si presta di certo a essere normata, ma qui la prima vittima è proprio l’intelligenza delle cose – creando per altro un ambiente sempre più funzionale all’espansione del capitalismo digitale, che fornisce gli strumenti per contenere le contraddizioni, sedare, ricanalizzare e neutralizzare le energie sottratte alle relazioni sociali. Le pulsioni sessuali naturali e la spontaneità delle relazioni, infatti, immotivatamente mortificate nel mondo vero fino all’idiozia, potranno essere tranquillamente convogliate verso il mondo digitale, come già in misura crescente avviene. Questa mitridatizzazione dagli effetti distruttivi viene presentata come battaglia di civiltà a salvaguarda della costruzione di relazioni sane. E menomale!
Riconosco alcuni distinguo e articolazioni nella storia del femminismo (penso sempre in modo paradigmatico alla nostra Anna Kuliscioff, che non a caso era prima di tutto socialista), ma bisogna essere chiarissimi almeno sul femminismo delle ultime ondate, tutto neoliberale e mainstream. Del tutto funzionale al capitalismo e al progetto di una profonda rimodulazione antropologica che passa per la distruzione delle relazioni umane. L’esito nelle recenti aberrazioni giuridiche fornisce la più chiara dimostrazione. Ecco a cosa è servito e a cosa serve lo spettro del patriarcato, che si aggira nell’immaginario di donne e uomini nella fase declinante del presente lungo ciclo neoliberale dell’occidente tecno-capitalistico. Il revanscismo femminile, interclassista e iper-borghese, sobillato in ogni modo attraverso una specifica costruzione mediatica, costituisce una leva fondamentale sfruttata abilmente per puntellare l’architettura del potere.








































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