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Referendum costituzionale, le ragioni del No
Luigi Ferrajoli
Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. La Costituzione di Renzi, invece, è una costituzione che divide, non essendo neppure di maggioranza
Le ragioni del No al referendum sull’aggressione in atto alla nostra Costituzione investono sia il metodo con cui la riforma è stata approvata, sia i suoi contenuti.
Anzitutto le ragioni di metodo. Questa riforma, cambiando 47 articoli su 139, non è una “revisione” dell’attuale costituzione, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito. Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
In secondo luogo questa nuova costituzione, per il modo in cui è stata promossa e approvata, è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti.
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2016, Odissea sulla terra
Riflessioni a partire dal libro di D. Moro Globalizzazione e decadenza industriale
di Marco Palazzotto
Globalizzazione?
Il concetto di globalizzazione viene sempre più utilizzato per descrivere vari fenomeni tipici del capitalismo contemporaneo. Lo stesso concetto viene poi declinato all’interno delle diverse correnti politiche onde sostanziare le rispettive letture della realtà.
L’obiettivo di questo breve contributo vorrebbe essere quello di chiarire alcuni aspetti del dibattito a sinistra, partendo dalla lettura del recente testo di Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, «crisi secolare» ed euro (Imprimatur, 2015).
Se vogliamo partire da una definizione accettata comunemente, secondo l’enciclopedia Treccani online per ‘globalizzazione’ s’intende l’insieme di fenomeni che a partire dagli anni Novanta ha stimolato la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. In economia, per quanto riguarda i mercati, si assiste ad una unificazione a livello mondiale grazie anche alla diffusione delle innovazioni tecnologiche. Scompaiono le differenze nei gusti dei consumatori, che si unificano alle preferenze guidate dalle multinazionali. Le imprese sono in grado di sfruttare meglio le economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing, praticando politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti mercati.
Spesso il concetto viene usato come sinonimo di liberalizzazione.
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La scomparsa della sinistra in Europa
Paolo Di Remigio
Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa (Imprimatur, 2016), rappresenta un contributo molto importante alla riflessione sul nostro tempo. Pubblichiamo una bella recensione di Paolo Di Remigio, e ci torneremo (M.B.)
Oltre alla straordinaria padronanza della materia, ciò che colpisce nella ‘Scomparsa della sinistra in Europa’ è la volontà dei suoi autori di conservare un tono pacato. Proprio per questo la storia che il libro racconta ha un effetto ancora più inquietante: è la storia degli ultimi quarant'anni, in cui la sinistra, la rappresentanza dei lavoratori, è diventata esecutrice di politiche economiche contro i lavoratori. I fautori della svolta neoliberale l'hanno scelta perché i lavoratori se ne fidavano; il suo nuovo protagonismo era lo strumento ideale per paralizzarne le reazioni. Così è stata la sinistra a far credere che la svolta verso la nuova politica economica, l'economia dal lato dell'offerta, avrebbe permesso il superamento della fase critica degli anni ’70 e avrebbe avviato l'economia mondiale verso una crescita stabile. L'economia dal lato dell'offerta non poteva fare però nulla di tutto questo.
Lo aveva dimostrato proprio il pensatore più importante della sinistra, Karl Marx, distinguendo tra mercato in generale (sistema mercantile semplice) e mercato capitalistico. Il mercato in generale è lo scambio di equivalenti tra proprietari privati, il mercato capitalistico mette insieme lo scambio di equivalenti tra proprietari e lo scambio ineguale tra capitalista e lavoratore.
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Appunti contro la modifica costituzionale di Renzi
di Paolo Solimeno
La modifica costituzionale proposta ( http://www.camera.it/leg17/126?pdl=2613-D ) ha radicali difetti di legittimità e coerenza, propone un modello di democrazia lontano da quello prefigurato dal costituzionalismo democratico in cui sono iscritte le migliori democrazie occidentali, nate o perfezionatesi nel secondo dopoguerra. Insieme alla legge elettorale n. 52 del 2015, l’Italicum, trasformerebbe il sistema italiano in un premierato forte, senza garanzie, con una Camera succube del capo dell’esecutivo.
Lasciare che questo sistema entri in vigore vuol dire consegnare l’Italia a due padroni: i poteri economici e finanziari sovranazionali e il vincitore delle prossime elezioni, chiunque egli sia.
In modo alquanto sintetico elenco i motivi per cui ritengo dovrebbe esser respinto il ddl Boschi-Renzi per rinviare ad un eventuale, non urgente e non indispensabile piccola correzione del sistema istituzionale l’intervento migliorativo della Costituzione del 1947, evitando di stravolgerla nel modo frettoloso e pericoloso che ci propongono gli abusivi “costituenti” del 2016.
* * * *
1. Legittimità di questo ddl costituzionale.
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Trump, trumpster e altro
(Con una postilla politica sul populismo)
di Raffaele Sciortino
«Il Comitato centrale ha deciso:
poiché il popolo non è d’accordo,
bisogna nominare un nuovo popolo»
(B. Brecht)
Ora che parte del polverone sollevato dalla vittoria di Trump si sta posando, abbozziamo un’analisi un po’ più fredda del voto e un primo bilancio politico di reazioni e prospettive.
All’immediato, lo sbalordito establishment statunitense, non potendosi cercare un altro “popolo”, sta correndo ai ripari lavorando a “normalizzare” la new entry presidenziale - grazie al personale repubblicano rispettabile che entrerà nello staff e/o affidandosi al tentacolare stato profondo - mentre la cupola finanziaria-militare coadiuvata dall’impero dei media liberal che dirige il partito democratico sta sicuramente pensando a come poter interrompere la corsa imprevista del presidente dei miserabili. Sta di fatto che la presidenza Trump non solo potrebbe innescare processi irreversibili ma, soprattutto, ha scoperchiato un profondo scontro dentro l’establishment statunitense sulle strategie interne e esterne più adatte a preservare l’impero del dollaro a fronte di una crisi sistemica da cui non si riesce a uscire. È alla luce di questo scontro che si tratta di discutere se l’opzione posta sul tavolo da Trump con buon fiuto politico, quella di una rinnovata unità nazional-popolare per rifare grande l’America, non possa paradossalmente rivelarsi un buon investimento per la cupola imperiale yankee negli svolti più duri a venire della crisi globale.
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Unione monetaria: un punto di vista italiano
di Alberto Bagnai
Nel primo dei due capitoli scritti per L’euro est-il mort?, libro pubblicato in Francia che raccoglie i contributi di più autori coordinati dall’economista Jacques Sapir, Alberto Bagnai – ben noto ai nostri lettori per il blog Goofynomics e presidente dell’associazione a/simmetrie – analizza la crisi dell’eurozona con l’aiuto dell’esperienza italiana, particolarmente utile da due punti di vista: perché l’Italia stessa è un’unione monetaria che non è un’area valutaria ottimale e ne ha già sperimentato le conseguenze; e perché le élite italiane hanno dichiarato molto esplicitamente quali erano, dal loro punto di vista, gli obiettivi dell’unione europea: utilizzare il vincolo esterno legato alla moneta unica per orientare il processo democratico e in questo modo la distribuzione del reddito. Senza il “sogno europeo”, il “ce lo chiede l’Europa” e le crisi generate dalla moneta unica non sarebbe stato possibile realizzare il programma di “riforme strutturali” che hanno indebolito e impoverito i lavoratori e in generale le fasce di popolazione più deboli. Il vero successo dell’euro, amaramente, è stato questo
L’euro e il declino dell’economia italiana
Adam Smith ce l’aveva ben detto, nel terzo capitolo del primo libro de «La ricchezza delle nazioni»: la divisione del lavoro è limitata dalla dimensione del mercato. Non ci si può aspettare che un produttore privo di sbocchi sul mercato sia spinto ad adottare innovazioni e quindi aumentare la produttività. A che cosa gli servirebbe produrre di più, o produrre a un costo più basso, se non ha qualcuno a cui vendere? La produttività non è una questione puramente esogena o tecnica. Nell’economia classica (Smith), come in quella keynesiana, e, ci permettiamo di aggiungere, nell’economia tout court, la produttività dipende anche dalla domanda.
Che cosa c’entra questo con l’Italia?
L’evento che più salta all’occhio nell’economia italiana degli ultimi trent’anni è senza dubbio l’improvviso arresto del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si manifesta poco dopo la metà degli anni 90. Dal 1971 al 1996 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuale del 2.7%, non lontano dal 3.0% della Francia e dal 2.9% della Germania.
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Il populismo al tempo degli algoritmi
di Gigi Roggero e Lelio Demichelis
Pubblichiamo oggi con gli interventi di Gigi Roggero e di Lelio Demichelis la prima parte di uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati nel recente volume di Carlo Formenti La variante populista (già recensito su alfabeta2 da Cristina Morini), si propone di affrontare le nuove declinazioni del cosiddetto populismo. Il dibattito continuerà sabato 4 dicembre con i contributi di Franco Berardi Bifo e di Paolo Gerbaudo.
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La puzza del furore e l’arbre magique della teoria
Gigi Roggero
In questo contributo non ritorneremo in modo sistematico sulla Variante populista di Carlo Formenti (rimandiamo alla recensione La variante rivoluzionaria, pubblicata su Commonware). Ci concentriamo invece su un paio di questioni che emergono dal libro e forse ancor più dai dibattiti intorno a cui il libro gira.
La prima riguarda l’autonomia del lavoro vivo. Si confrontano due posizioni: da una parte quelli che la vedono già pienamente realizzata nella composizione tecnica di classe, dall’altra quelli che – proprio sulla base della composizione tecnica – ne negano la possibilità. Per motivi speculari, entrambe le posizioni sono secondo noi errate.
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Bisogna sognare! Sul referendum, sui prossimi 15 giorni, sull'Italia che verrà
di Ex-OPG "Je so' pazzo"
Ripubblichiamo l'analisi della campagna referendaria e degli scenari che si potrebbero aprire dopo il 4 dicembre scritta dai compagni dell'Ex-OPG "Je so' pazzo". Dopo una campagna che è stata caratterizzata dall'attività e dal protagonismo popolari, si tratta ora di giocarcela fino in fondo in questi ultimi dieci giorni e di non lasciare tutto in mano a Renzi, Salvini o Grillo. Sia che vinca il Sì, sia che vinca il No, dobbiamo continuare a organizzarci per costruire un'alternativa.
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E se noi riuscissimo ad ottenere che tutti o la maggior parte dei comitati, gruppi e circoli locali si unissero attivamente nell’opera comune, potremmo in breve tempo organizzare […] un gigantesco mantice, capace di attizzare ogni scintilla della lotta di classe e dell’indignazione popolare per farne divampare un immenso incendio…
Sulle impalcature di questo cantiere organizzativo comune vedremmo sorgere dei rivoluzionari […] che, alla testa di quell’esercito mobilitato, solleverebbero tutto il popolo contro la vergogna e la maledizione della Russia.
Ecco che cosa bisogna sognare!
Lenin, Che fare?
Mancano 15 giorni al voto del 4 dicembre, siamo ormai entrati nel clou della campagna referendaria.
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Tornare all’utopia
di Valerio Mattioli
La vittoria di Trump e l'ascesa dei populismi europei sono dati di fatto. L'antidoto è uno soltanto: ricominciare a immaginare un futuro alternativo a quello che finora è stato
Negli stessi mesi in cui cadono i 500 anni dall’Utopia di Tommaso Moro, abbiamo capito che ad andare a gonfie vele è il suo contrario. Voglio dire: viviamo in tempi che più distopici non si può, no? Da una parte i viaggi su Marte e le intelligenze artificiali che ragionano per conto proprio; dall’altra – per restare alla cronaca di questi mesi – Brexit, Trump, e un pianeta Terra che entro il 2100 rischia di assomigliare più a Venere che alla Gaia azzurrina immortalata dall’Apollo 17. Poi uno dice la fantascienza.
È istruttivo lo slittamento che ha investito la narrazione mainstream negli ultimi diciamo quindici anni. Dalla sbandierata fine della storia in cui lo stesso concetto di “futuro” veniva acriticamente soppiantato da un eterno presente ecumenico e inviolabile, ecco che proprio il futuro torna ad allungare la sua ombra su quel continuum spaziotemporale che nemmeno la crisi del 2008 è riuscita a ridestare da un torpore pluridecennale. Solo che, l’abbiamo capito: è un’ombra molto, molto minacciosa.
L’elezione a presidente di Donald Trump e l’ascesa dei populismi in Europa sanno di presagio ad almeno un decennio di regressione e tragedie, e nel suo consueto stile iperbolico ma efficace, Bifo parla già di una “guerra nella quale poco di ciò che chiamammo civiltà è destinato a sopravvivere”, ricorrendo a un parallelo storico che più sinistro non si può: “come fece nel 1933, la classe operaia [bianca] si vendica di chi l’ha presa per il culo negli ultimi trent’anni”.
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Democrazia, capitalismo e “rottura populista”
di Carlo Formenti
La lunga recensione (quasi un saggio breve) a "La variante populista" (DeriveApprodi) apparsa su queste pagine e firmata da Alessandro Somma (che ringrazio vivamente per l’attenzione con cui ha letto e analizzato il libro) mi stimola a compiere alcune precisazioni in merito alle tesi da me sostenute, nonché a marcare convergenze e divergenze fra i nostri punti di vista. L’intervento di Somma si articola in varie sezioni, ma può essere sostanzialmente ricondotto a due parti: la prima, in cui ripercorre la pars destruens delle mie argomentazioni (che mi pare condivida in larga misura), la seconda, più breve, in cui analizza le mie proposte politiche e nella quale si concentrano i dissensi. Andrò quindi di fretta sulla prima parte per arrivare al nocciolo della discussione contenuto nella seconda.
Provo a riassumere così le cose su cui siamo sostanzialmente d’accordo: 1) Somma riprende e articola le mie critiche alle tesi di coloro che vedono nel cosiddetto “capitalismo della conoscenza” il presupposto di una transizione spontanea e indolore a una società postcapitalista – critiche che io muovo a partire soprattutto dai lavori di Antonio Negri e André Gorz (anche seguendo le argomentazioni di Dardot e Laval) e dai teorici della New Economy come Yochai Benkler, mentre lui allarga il campo a Paul Mason e al suo Postcapitalismo; 2) riprende inoltre il tema della non neutralità delle forze produttive (cruciale per superare le visioni “oggettiviste” della transizione al socialismo, presenti nello stesso Marx); 3) riprende infine la mia analisi (che arricchisce in relazione al caso Uber) sulle mistificazioni della sharing economy che, assieme alle nuove forme di “lavoro del consumatore” mediate dai social network, rappresenta un nuovo, formidabile dispositivo di potenziamento delle forme di sfruttamento e controllo del capitale sul lavoro.
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Ricordate l'anti-berlusconismo? I pericoli dell'anti-trumpismo
di Cinzia Arruzza*
Durante l’intera campagna elettorale delle presidenziali statunitensi i paragoni tra Donald Trump e l'ex premier italiano Silvio Berlusconi sono stati molti, e sono ulteriormente proliferati da quando Trump ha dichiarato la propria vittoria. Questi paragoni non sono del tutto privi di senso.
Trump e Berlusconi sono entrambi uomini che hanno raggiunto il potere partendo dal mondo del business e non da quello della politica, ed entrambi hanno presentato la propria estraneità all'establishment politico come segno di purezza. Entrambi hanno insistito sul proprio successo imprenditoriale come prova più evidente della loro capacità di dirigere il paese. Come il tiranno di Platone entrambi hanno esibito un’etica basata sul sogno di una perenne e illimitata jouissance e un eros continuo e tracotante (per quanto Berlusconi preferisca pensare a sé stesso come a un seduttore irresistibile piuttosto che uno stupratore). Entrambi si sono permessi battute misogene e razziste e hanno riformulato il linguaggio pubblico legittimando insulti e scorrettezze politiche ed incarnando un esilarante ritorno del represso. Entrambi si crogiolano nella loro estetica kitsch ed esibiscono un colorito da abbronzatura artificiale. Ed entrambi si sono alleati con l’estrema destra per portare avanti un progetto politico fatto di neoliberismo autoritario e capitalismo sfrenato.
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Perché voto NO al referendum
Lettera aperta al PD
di Walter Tocci
Questo post consente due piani di lettura. Il testo principale sviluppa le argomentazioni in modo - spero - semplice e completo ed è sufficiente a illustrare la mia posizione. Le parti a sfondo colorato di approfondimento, invece, trattano argomenti specifici entrando nei dettagli tecnici e storici. Purtroppo il trentennale dibattito istituzionale ha accumulato tanti equivoci che richiedono una critica articolata, ma questa rischia di appesantire il discorso generale. La distinzione permette al lettore di scegliere il livello di lettura secondo i propri interessi.
* * * *
Care democratiche e cari democratici,
avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.
La soluzione senza il problema
C’è pieno accordo tra noi sulla esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
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Contro Recalcati
di Andrea Minuz
Si stava meglio quando c'era Alberoni. I padri saranno anche evaporati, ma il Sorrentino della psicoanalisi è ovunque
Non si può parlare dell’ultimo libro di Massimo Recalcati senza interrogarsi sull’ascesa di Massimo Recalcati. Quindi facciamo qualche passo indietro e confessiamolo subito: quando c’era Alberoni era tutto più semplice. I confini erano chiari, netti, giusti. Introiettata la differenza tra innamoramento e amore, guardavamo con distacco le raffiche di best seller con copertine rosa e titoloni in baskerville giallo: Ti Amo; Il grande amore erotico che dura, Leader e masse; Le sorgenti dei sogni. La cosa non ci riguardava. Nulla che non fosse due dita sotto la complessità dell’ultimo Battisti. Al massimo, buttavamo un occhio sui corsivi del Corriere dove, alle soglie di Tinder, Alberoni scriveva «fare all’amore». Alberoni ci spiegava il carisma, l’indebolimento del Super-Io, il capo d’azienda, l’uomo cacciatore, la donna che fa il nido, la crisi dei valori e «le miserie degli accoppiamenti nelle orge dei rave party». Nei suoi articoli, nelle conferenze o nelle interviste su Grazia non avrebbe mai ceduto a parole come «forcluso», «fagocitante», «ieratico», tantomeno al «balbettio monologante della lalangue».
Quando c’era Alberoni, i tomi dei seminari di Lacan erano lì dove dovevano essere, nello scaffale più inaccessibile e forcluso della nostra libreria. Poi è arrivato Recalcati. Le copertine non sono più rosa, né fucsia. Titoli ieratici e sottotitoli minacciosi chiamano in causa l’«inesauribile capacità del mito di offrire spunti di riflessione», la «filiazione simbolica», «l’Altro», l’Oltre e l’Ultra.
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Oltre l’eroe: movimenti, dialogo e traduzione
di Fabio Ciabatti
In un precedente intervento su Carmilla ho sostenuto che in Venezuela una molteplicità di movimenti, sviluppatesi autonomamente, hanno trovato una riunificazione nella catena di vicende che parte dal Caracazo e arriva all’elezione di Chavez. Ci siamo inoltre chiesti come poter rappresentare questo processo di unificazione.
Il primo elemento da considerare è l’evento della rivolta popolare che costringe i movimenti a unirsi spontaneamente e immediatamente per contrapporsi alla violenta repressione dello stato. Di fronte al pericolo estremo, sosteneva Sartre nella Critica della ragione dialettica, gli individui atomizzati si uniscono creando un’aggregazione qualitativamente diversa dalla somma dei singoli, il gruppo in fusione, che cementa la solidarietà sostituendola alla reciproca indifferenza. La rivolta rende evidente una frattura sociale, cementa il campo popolare e dischiude un nuovo orizzonte di possibilità. A questa unificazione immediata ne segue una caratterizzata da una processualità consapevole e orientata. E qui ci torna utile Enrique Dussel1 che descrive questo processo come caratterizzato da un’incorporazione analogica tra le diverse rivendicazioni popolari in grado di conservare la distinzione di ciascuno e di trasformare la prassi di liberazione popolare in una nuova proposta politica collettiva. Ciò si ottiene attraverso un processo di “dialogo e traduzione” tra le diverse istanze conflittuali.
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Redistribuire il lavoro
Ascanio Bernardeschi intervista Giovanni Mazzetti
Il sistema capitalistico non è più capace di riprodurre il lavoro e le politiche keynesiane tradizionali non sono in grado di mediare una nuova fase di sviluppo. Serve una rifondazione che non è mai iniziata
Nonostante la quotidiana narrazione secondo cui l'uscita dalla crisi sarebbe dietro l'angolo, anzi sarebbe già iniziata, temiamo che essa perdurerà ancora per qualche anno e che forse non abbia ancora espresso il peggio di sé stessa.
Da militanti comunisti riteniamo che ci sia bisogno di un ulteriore sforzo di analisi sulle sue caratteristiche e che uscirne in positivo – e non con i massacri sociali fin qui perpetrati, che poi, è dimostrato dai fatti, aprono la strada alla destra peggiore – non sia possibile senza profonde trasformazioni sociali.
Fra gli strumenti di contrasto all'involuzione sociale assume grande rilevanza la riduzione dell'orario di lavoro. Questo giornale si propone di focalizzare il tema con una serie di approfondimenti [1].
Abbiamo deciso di parlarne con Giovanni Mazzetti, già professore all'Università della Calabria.
Confrontarci con lui ci è sembrata una via obbligata perché ha dedicato gran parte della sua vita a questo tema, pubblicando numerosi saggi in proposito, e perché è il responsabile del Centro Studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro a parità di salario e per la redistribuzione del lavoro complessivo sociale, sul cui sito [2] è possibile trovare materiali preziosi, anche di carattere formativo per i militanti.
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La lezione di De Cecco
Riccardo Bellofiore
Un ricordo di Marcello de Cecco, economista sempre stato attento a non separare mai i suoi studi sul potere e sull’economia da un impegno civile e, in fondo, patriottico
La notorietà internazionale venne a Marcello de Cecco dai suoi studi sul sistema monetario internazionale. Il libro più celebre è Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914 (Einaudi, Torino 1979). Il volume era in realtà già comparso in una prima versione dall’editore Laterza, nel 1971, con il titolo Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914. La ricerca risaliva al 1968, ed era stata stimolata dalla svalutazione della sterlina dell’anno precedente, come anche dalla impressione che l’autore sempre più nutriva che il sistema di Bretton Woods, fondato su ‘cambi fissi ma aggiustabili’, fosse sulla via del collasso. Grazie alla partecipazione ad un progetto di Robert Mundell sulle crisi per la National Science Foundation statunitense de Cecco potè studiare, a Chicago e a Londra, la presunta età dell’oro del gold standard, ma anche la sua interna e crescente fragilità. In un articolo del 1973 comparso, ancora in italiano, nella Rivista internazionale di storia della banca, de Cecco proseguì il discorso commentando la crisi bancaria del 1914, ed impiegando materiali che allora non erano ancora stati resi noti, in particolare le Crisis Conferences tenute da Lloyd George in occasione della crisi del luglio 1914, trascritte dalla moglie Julia Bamford (professoressa di lingua inglese all’Orientale di Napoli). Questo saggio divenne l’ultimo capitolo di una versione ampliata in lingua inglese: Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1914, pubblicata da Basil Blackwell nel 1974. Il volume fu riedito dieci anni dopo da Frances Pinter, con il titolo invertito (The International Gold Standard. Money and Empire), una nuova prefazione e la correzione di una serie di errori segnalati dai recensori della prima edizione.
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La deriva della politica costituzionale
di Ida Dominijanni
C’è un tratto poco sottolineato della retorica renziana che consiste nel ricondurre a necessità storica, quando non a dato naturale, ciò che è invece oggetto di scelte politiche soggettive e contingenti. È un tratto importante, perché sintomatico di una contraddizione, e probabilmente di una debolezza, dell’ideologia dell’attuale classe di governo: l’appello ripetuto alla necessità urta infatti visibilmente con le pretese decisioniste del presidente del consiglio e del suo inner circle. Ed è in compenso del tutto organico – a onta della missione “rivoluzionaria” che il renzismo si attribuisce - alla razionalità neoliberale e alla naturalizzazione dell’esistente che essa sottintende e persegue.
In questo intervento vorrei cercare di mostrare come questo circolo vizioso fatto di appello alla necessità, naturalizzazione dell’esistente e retorica rivoluzionaria abbia agito e stia agendo nella propaganda della riforma costituzionale.
A un certo punto dell’iter parlamentare della legge che porta il suo nome, la ministra Boschi l’ha glorificata come la riforma che gli Italiani “aspettavano da 70 anni”: ovvero, a essere precisi, da tre anni prima che la Carta del 1948 venisse promulgata. Giova tornare sull’episodio, perché raramente una sola frase riesce a condensare una tale capacità performativa di falsificazione del passato e di manipolazione del presente e, nei programmi della ministra, del futuro.
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Il fatto che il capitale abbia dei limiti, non significa che collasserà
Agon Hamza & Frank Ruda intervistano Moishe Postone
Hamza & Ruda: Il tuo lavoro stabilisce una cruciale distinzione fra la critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro e la critica del lavoro nel capitalismo. La prima implica una descrizione trans-storica del lavoro, mentre la seconda pone il lavoro come una categoria coerente - capace di "sintesi sociale" - del modo capitalista di produzione. Tale distinzione richiede che venga abbandonata ogni forma di descrizione ontologica del lavoro?
Moishe Postone: Dipende da cosa si intende per spiegazione ontologica del lavoro. Questo ci spinge ad abbandonare l'idea che ci sia, in maniera trans-storica, uno sviluppo progressivo dell'umanità che avviene per mezzo del lavoro, che l'interazione umana con la natura, in quanto mediata dal lavoro, sia un processo continuo che ci porta a continui cambiamenti. E che il lavoro sia, in tal senso, una categoria storica centrale.
Attualmente, questa posizione è più vicina ad Adam Smith che a Marx. Io penso che la centralità del lavoro rispetto a qualcosa che viene chiamato sviluppo storico può essere posta solamente per il capitalismo e non per qualsiasi altra forma di vita sociale umana.
D'altra parte, penso che si possa mantenere l'idea che l'interazione umana con la natura è un processo di auto-costituzione.
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Produttività del lavoro e precarietà: il circolo vizioso dell’economia italiana
di Andrea Fumagalli
Una risposta ad Alberto Alesina e a Francesco Giavazzi
Sul Corriere della Sera del 21 novembre 2016, Alesina e Giavazzi tornano a colpire per ribadire la necessità di politiche neoliberiste e per dar man forte al governo Renzi, lodando la riforma del mercato del lavoro targata Jobs Act.
Lo spunto è di estrema attualità e riguarda lo scarso trend della produttività oraria del lavoro in Italia, soprattutto se comparato a quello degli altri paesi europei e Usa.
Come scrivono i due autori: “In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più. Anche Spagna e Portogallo hanno fatto meglio: + 15 per cento in Spagna, tre volte più che noi, e + 25 per cento in Portogallo, cinque volte di più”.
Alesina e Giavazzi forniscono spiegazioni per tale deludente risultato. Un risultato che di per sé, dal momento che la produttività oraria, se riferita al solo fattore produttivo lavoro, è un indicatore del tasso di sfruttamento, non sarebbe del tutto negativo, se fosse derivato da un rallentamento dei ritmi e da migliori condizioni lavorative. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che non è così. Anzi, in Italia negli ultimi anni, lo sfruttamento è aumentato, sino a diventare più pervasivo e ad avvolgere parti crescenti del tempo di vita e non solo quello di lavoro.
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L’euro e il rischio Trump nell’Unione
Antonio Lettieri
Prima la Brexit, poi l'elezione di Trump ci dicono che l'"imprevedibile" può verificarsi, specie quando dilaga lo scontento per politiche economiche a vantaggio solo di pochi. Nel 2017 voteranno due (e forse anche noi) paesi importanti, e tutto può accadere. La crisi dell'euro merita una riflessione laica, aperta a diversi scenari possibili
Dopo la vittoria di Donald Trump non solo ci si deve interrogare sulle ragioni del suo imprevisto successo in America, ma anche su quale lezione se ne possa trarre per l’Unione europea. Si tratta evidentemente di situazioni politiche non sovrapponibili. Eppure, non ostante tutte le differenze, gli scenari presentano intriganti punti in comune. Innanzitutto, la crisi economica che in modi diversi ha toccato le due sponde dell’Atlantico; poi la crisi dei tradizionali assetti politici.
Gli stati Uniti e l’Europa sono stati entrambi colpiti dalla Grande recessione. Con una differenza fondamentale. L’America di Barack Obama ha ripreso a crescere in tempi relativamente rapidi e già nel 2014 il reddito nazionale aveva superato quello antecedente alla crisi. La disoccupazione giunta al 10 per cento al culmine della crisi è stata ridotta al 4,9 per cento. Il contrario si è verificato nell’Unione europea e, in particolare, nell’eurozona dove la crisi ha avuto effetti devastanti.
Il confronto fra le politiche adottate per rispondere alla crisi mostra tutta l’assurdità della combinazione di austerità e riforme strutturali adottate nell’Unione europea sotto l’egida della Commissione europea con la complicità degli stati membri dell’eurozona. L’austerità ha bloccato la crescita, portato a livelli esplosivi la disoccupazione e accresciuto il debito pubblico che era finalizzata a ridurre. Le riforme strutturali hanno aggredito le conquiste sociali che avevano caratterizzato la democrazia europea del vituperato Novecento: una politica reazionaria definita, con un’ipocrita torsione del linguaggio politico,“riformista”.
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Referendum, spread, crisi bancaria, OMT, Memorandum e... la grande tranvata
di Quarantotto
1. Ooops! Fanno una scoperta...
ALLARMISTI PER IL SÌ - Ft: "Se vince il No, Italia fuori da euro". Confindustria: "Si fermano investimenti". Ma per Nyt il problema è un altro
Naturalmente non spiegano bene perché il referendum si colleghi all'uscita dall'euro dell'Italia.
Anzi, dicono che per il New York Times "il problema sarebbe un'altro" (come vedremo): non il referendum in sé, ma le sofferenze creditizie in Italia, cioè, l'Unione bancaria che, (ma si ostinano a non voler unire i puntini), coincide con l'euro.
E ciò in quanto l'Unione bancaria è il meccanismo assicurativo dei Paesi creditori all'interno di un sistema in cui le insolvenze diffuse sono la conseguenza degli strumenti di correzione degli squilibri commerciali determinati dalle svalutazioni competitive tedesche, poste in essere in violazione dei trattati, ma tollerate dalle istituzioni €uropee...
E tollerate, anzi avallate, in quanto soggette all'indirizzo politico imposto dal paese che ha vinto la guerra commerciale che l'euro era programmato ad innescare: secondo la previsione della "economia sociale di mercato fortemente competitiva".
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I confini del populismo
Su Laclau e le ambivalenze di un significante vuoto
Francesco Festa
1. Una cosa appare certa. Comunque si fissino i confini del populismo, sta di fatto che le sue manifestazioni si vanno particolarmente moltiplicando. Come quel mito che tagliata una testa ne appare un’altra, e un’altra ancora; oppure come tutti gli incubi della borghesia, quel fantasma che non si riesce ad acciuffare e si aggira terrorizzando la pace sociale. Metafore a parte, di populismo e di partiti populisti, in realtà, si è ricominciato a parlare all’incirca un trentennio fa, anche se è con il cronicizzarsi della crisi e con l’indebolimento dell’Unione Europea che si è imposto come termine più attentamente monitorato dai media e tema più aspramente dibattuto dagli studiosi di scienza politica. E la sua origine e la sua definizione restano tuttavia un rompicapo irrisolto: se non ricorrendo a spiegazioni che non ne sciolgono la questione dei confini. Tanto è vero che l’etichetta populista viene usata per il Front National di Le Pen, l’UK Independence Party di Farage e la Lega di Salvini; un po’ meno per il Movimento Cinque Stelle, mentre, in altro versante, viene utilizzata per i movimenti anti-austerity come Podemos o Syriza.
Quali sono, dunque, i confini del populismo? Che essi siano a geometria variabile, in base al posizionamento, si muovono comunque all’interno di un piano costituzionale.
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Questioni di confine: l'umano e la macchina, il postumanesimo e il conflitto sociale
Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò
Questo articolo è composto da due parti, la prima che riguarda il tema del confine tra umano e macchina, di Adriana Perrotta Rabissi, la seconda che riguarda postumanesimo e conflitto sociale di Franco Romanò
I parte
Nei tre saggi che compongono il Manifesto Cyborg Donna Haraway indaga il rapporto tra scienza tecnologia e identità di genere. In contrasto con le posizioni essenzialiste di parte del femminismo adotta la metafora del Cyborg come figura in grado di sovvertire l’ordine del discorso patriarcale e mettere in crisi l’epistemologia maschile.
In the three essays composing the Cyborg Manifesto Donna Haraway investigates the relationship between science technology and gender identity. In opposition to the essentialist positions taken by part of the feminist movement,she takes cyborg metaphor as a figure able to subvert the order of speech and consequently putting in crisis male epistemology.
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Preferisco essere cyborg che dea (Donna Haraway)
di Adriana Perrotta Rabissi
Negli anni Novanta del secolo scorso Donna Haraway, filosofa e biologa statunitense, che si dichiara socialista e femminista, si è interrogata sul rapporto scienza, tecnologie e identità di genere e ha scritto tre saggi pubblicati in italiano nel libro, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie, e biopolitiche del corpo, Introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.1
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Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione
di Domenico Moro
1. Populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump.
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Referenzum: Costituzione e interessi di classe
di Italo Nobile
La questione del referendum del 4 Dicembre andrà affrontata sotto diversi aspetti: da un punto di vista del contenuto più strettamente giuridico, da un punto di vista più complessivamente politico e dal punto di vista del rapporto con l’analisi di classe propria dei comunisti.
Una prima operazione di carattere più generale sarà quella di liquidare una serie di luoghi comuni retorici al riguardo, ovvero che il paese aspettava una riforma da trent’anni, che la costituzione va adeguata ai tempi, che opporsi ad essa significhi essere conservatori. Ebbene a questi luoghi comuni ha risposto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ma credo che basti contro di essi un solo argomento. Quantunque sia vero che ci sia bisogno di una riforma (e anche questo andrebbe argomentato), il problema è che la riforma necessaria potrebbe non essere questa. Dunque la discussione dovrebbe riguardare proprio questo punto e perciò gli argomenti di questo tipo senza una discussione del genere non hanno senso.
Una seconda operazione di carattere preliminare riguarda la tendenza propria di noi comunisti a dire che quella italiana non sia “la costituzione più bella del mondo” e che essa ha comunque permesso la legislazione antisociale degli ultimi anni per cui non vale la pena soffermarsi sulla riforma in sé ma sul contesto politico in cui essa è inserita.
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