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Le due piazze di Repubblica nel radioso marzo d’Europa
di Marco Montelisciani
Michele Serra prova a convocare due piazze in una: la prima in favore dell’Europa realizzata, pronta a sacrificare il welfare in nome del militarismo; l’altra in favore dell’Europa idealizzata dalla retorica del centro-sinistra. Questa contraddizione potrebbe presto pervenire a un punto di rottura, aprendo la strada a una ulteriore e più decisa svolta reazionaria. Manifestare in favore dell’UE realizzata fingendo che somigli alla sua versione idealizzata rischia di legittimare la svolta a destra anche presso l’opinione pubblica democratica
La manifestazione del prossimo 15 marzo è divenuta, al di là delle intenzioni degli organizzatori e di chi in buona fede vi ha aderito, terreno di confronto tra due polarità difficilmente conciliabili che convivono nell’ambito del blocco di potere e consenso egemone in Europa, rappresentato plasticamente dalla Große Koalitiontra popolari, socialdemocratici e liberali che regge da decenni sia le istituzioni comunitarie sia i “sistemi dell’alternanza” all’interno dei Paesi membri e a cui, a vario titolo, fa riferimento il mainstream del dibattito pubblico. Tale blocco è oggi scosso dal cambio di strategia avvenuto alla Casa Bianca, che determina il venir meno di certezze che sembravano acquisite. La manifestazione nata dall’appello “Una piazza per l’Europa”, firmato da Michele Serra sulla principale testata del progressismo liberale italiano, figlia delle turbolenze di questa fase, non fa che riprodurne le contraddizioni. Lo stesso vale per il promotore della mobilitazione, che nei giorni scorsi ha sentito l’esigenza di correggere il tiro rispetto all’impostazione che aveva originariamente inteso dare alla sua iniziativa.
Salta immediatamente all’occhio, infatti, leggendo l’appello del 27 febbraio, che non vi ricorra mai la parola “pace”. Tale assenza sembra intimamente coerente con l’impostazione dell’appello e con quella di chi, da subito, vi ha aderito con più entusiasmo. L’intima coerenza non è legata tanto alla circostanza – tutto sommato contingente – che Serra e il suo giornale siano apertamente schierati perché l’Europa continui a fare la guerra contro la Russia fino alla vittoria finale sul campo di battaglia. Il punto è che tutto l’impianto dell’appello scaturisce dalla necessità di esorcizzare il timore di una possibile fine dell’Occidente come “concetto politico-strategico”, che sarebbe ovviamente una conseguenza della rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca e della sua spregiudicata politica interna ed estera. Ma cosa può significare, nell’economia del ragionamento di Serra, “concetto politico-strategico”?
Sembra di poter rispondere che il fatto che l’Occidente cessi di essere un concetto politico-strategico (dal greco strategòs: comandante militare) significhi che esso non è più spendibile come concetto oppositivo-polemico (dal greco pòlemos: guerra).
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Com'è bello far la guerra da Trieste in giù
di Konrad Nobile
La strada è segnata: avanti tutta con Imec e piani Nato. Nuove dichiarazioni sono un grave campanello d'allarme, mentre in città approda la nuova portaerei
Nell’ultimo anno si è fatto veramente un gran parlare di Trieste e di certe manovre che coinvolgono il capoluogo giuliano. Sembra ormai quasi che parlarne sia diventato di moda. E difatti, forse, se ne parla anche un po’ troppo.
A dire la loro su Trieste e a sbavarci sopra si sono avvicendati importanti think thank americani come «Atlantic Council» (1) e «The National Interest» (2), oltre a testate italiane come «formiche» (3) e la famosa rivista di geopolitica «Limes».
Quest’ultima ci ha dato veramente dentro e, dopo aver dedicato a Trieste l’editoriale del numero di ottobre 2024 (4), un altro articolo sempre nello stesso numero(5) ed un altro in quello di dicembre 2024 (6), ha anche messo Trieste al centro di uno dei confronti svoltisi alla XII edizione del Festival di Limes, che ha avuto luogo a Genova tra il 7 e il 9 febbraio.
Qui il filmato di uno degli interventi, incentrato proprio sulla città alabardata:
Anche su ComeDonChisciotte sono usciti molti articoli legati alle vicende triestine, e chiedo venia ai lettori se insisto nello scrivere su questa città, finendo magari per essere ridondante e ripetitivo. A dire il vero, eccetto le notizie sui processi relativi alla mobilitazione No Green Pass, che a Trieste continuano a susseguirsi, non intendevo spendere ulteriori articoli dedicati a questioni triestine. Tuttavia gli ultimi sviluppi e certe recenti e assai gravi dichiarazioni mi hanno spinto ad accantonare questo proposito.
Per chi fosse estraneo al dibattito generatosi negli ultimi mesi su Trieste e sugli interessi internazionali in ballo, rimando alla lettura di alcuni degli articoli pubblicati su ComeDonChisciotte (siccome se n’è già parlato abbondantemente cerco di evitare di ripetere cose già scritte):
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Italia sull’orlo della bancarotta: governo Meloni ostaggio della PayPal mafia
di OttolinaTV
Fermi tutti! Fermi tutti che qui abbiamo lo scooppone del Foglio! PIL al ribasso, titola allarmato: l’economia italiana è entrata in una fase critica; incredibile ma vero, l’ufficio parlamentare di bilancio ha rivisto le stime sulla crescita del PIL per il 2024 e indovinate un po’? Incredibilmente l’obiettivo dell’1% non è stato raggiunto; anzi, non ci siamo manco avvicinati: 0,7, sentenzia il rapporto. Quando noi – e quelli che, come noi, non devono fare propaganda trionfalista filo-occidentale – lo dichiaravamo ormai quasi un anno fa, i sapientoni del Foglio, dall’alto dei loro curricula accademici in discipline economiche che da 30 anni non ne colgono una manco per sbaglio, ci davano dei gufi; propaganda putiniana, per creare una narrazione tossica sul declino dell’Occidente: “Fatti e numeri smentiscono l’eterna lagna nazionale” scriveva Marco Fortis il 26 marzo, forte del suo contributo alla rinascita italiana prima come consigliere di Mario Monti e poi di Matteo Renzi. Lo stesso Fortis che ancora in maggio rilanciava: “L’Italia ha scalato l’export mondiale”; “un bel successo per un Paese come il nostro che fino a una decina di anni fa era considerato in declino dalla maggior parte degli economisti e considerato come un perdente sicuro nel quadro della competizione globale”
Oggi lo stesso giornale la vede un po’ diversamente: “Il peggioramento della congiuntura è evidente già dallo scorso anno” scrivono, senza un minimo sussulto di dignità; quello che li ha spiazzati è che “nell’ultimo trimestre 2024 anche i servizi, che negli ultimi anni sono andati molto bene, hanno mostrato segnali negativi”. Ma te guarda a volte il caso… A parte gli economisti squinternati di regime che vogliono rilanciare l’Italia a suon di b&b e pizze gourmet, nessuna persona sana di mente può pensare che un Paese come l’Italia possa essere trainato dai servizi: se la produzione industriale crolla, inesorabilmente, a stretto giro, arriverà anche il turno dei servizi.
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Dalla nipote di Mubarak al povero torturatore vittima di un “mandato di cattura” internazionale redatto in un inglese maldestramente confuso
di Luca Benedini
Passano gli anni ma in Italia i parlamentari di centro-destra mantengono la loro ormai consueta mancanza di dignità
Nel numero di luglio-agosto 2011 di quella bellissima esperienza di giornalismo locale che è stata in Lombardia il mensile La Civetta, sotto la direzione di Claudio Morselli (tra la metà degli scorsi anni ’90 e una dozzina d’anni fa, prima di soccombere – come tante altre esperienze – all’aspra recessione economica internazionale seguita alla “crisi dei mutui”), si scriveva nella seconda parte dell’articolo La deriva leghista-berlusconiana - La scomparsa del federalismo inteso come progresso sociale, a proposito del “caso Ruby” avviatosi il 27 maggio 2010 con una serie di telefonate del premier Berlusconi alla Questura milanese, miranti a salvaguardare dall’interessamento della polizia una minorenne straniera nota appunto come Ruby: «Il trionfo dei “governicchi ad personam” [messi tipicamente in piedi da Berlusconi nel corso degli anni, N.d.R.] è stato forse raggiunto il 3 febbraio e il 5 aprile [di quel 2011, N.d.R.], quando alla Camera 315 deputati la prima volta (su 614 presenti) e 314 la seconda (su 616) hanno approvato delle deliberazioni indirizzate alla magistratura di Milano e incentrate sullo spiegare le ormai famose telefonate che hanno avviato il “caso Ruby” (rivolte alla Questura di Milano dal premier e da suoi incaricati) come un’iniziativa “governativa” a tutela delle relazioni tra Italia ed Egitto, anziché come un’iniziativa personale di Berlusconi allo scopo di evitare che emergesse il suo coinvolgimento in cose come la prostituzione minorile. Tutti questi “onorevoli” hanno così sottoscritto la tesi che il premier pensasse davvero che la minorenne marocchina invitata col nome di Ruby ai party notturni di Berlusconi (dei quali è ormai notorio lo sfondo sessuale) fosse una nipote del premier egiziano Mubarak. Peccato che la tesi sia apertamente incompatibile con quanto è successo dopo quelle telefonate: quando la Questura ha aderito alle ripetute richieste di Berlusconi di affidare la ragazza (accusata di furto) non ai servizi sociali ma a un’inviata personale del premier stesso, cioè la consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti, quest’ultima non ha fatto che “consegnare” la minorenne Ruby a una prostituta brasiliana maggiorenne la cui professione era ben nota a Milano. Il premier era ovviamente a conoscenza di queste vicende (in seguito ampiamente documentate e rese pubbliche dagli apparati giudiziari), ma non disse alla Minetti di fare altrimenti, né l’ha criticata per queste sue azioni; anzi, più volte l’ha lodata pubblicamente per le sue grandi capacità...
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Una strega, due spergiuri e il Segreto di Stato su Al Masri
di Michelangelo Severgnini
Il perimetro in cui si sta giocando la partita intorno al caso Al Masri è più ampio di quel che si racconta.
Il perimetro, come sempre in questi casi, viene limitato al campo dei diritti umani e della migrazione.
Lì, in questo campo, stanno volando i fendenti in questi giorni tra destra e sinistra in Italia.
In sostanza la sinistra ha buon gioco a incolpare la presidente Meloni di incompetenza, finanche complicità con i criminali torturatori libici (evidentemente si suppone che questi siano lì per fermare i migranti e in questo fare un favore alla Meloni).
La destra si trincera dietro a vizi procedurali e a una rapida espulsione in Libia motivata da ragioni di sicurezza.
Anzi, denuncia un piano segreto per attaccare il suo governo, dal momento che Al Masri, prima di arrivare in Italia, era transitato da altri Paesi europei, ma solo il 18 gennaio, il giorno del suo ingresso in Italia, viene spiccato il mandato di cattura internazionale contro di lui.
Questo per chi crede alle coincidenze.
Però, come si diceva, il perimetro della partita è più ampio.
Ma ciò che avviene al di fuori del campo che concerne i diritti umani e la migrazione, non sarà raccontato.
Ma è quello che spiega ciò che sta succedendo in questi giorni.
In Libia non si vota dal 2014. Le nuove elezioni previste per il dicembre 2021 sono state annullate all'ultimo momento per evitare che Saif Gheddafi, figlio del colonnello, diventasse presidente della Libia.
Il governo Meloni, come tutti i suoi predecessori, riconosce come governo della Libia quello di Dabaiba, insediato a Tripoli.
Questo governo non solo è illegittimo, perché non riceve la fiducia del parlamento eletto nel 2014, ma ormai è prossimo a cadere, sotto la spinta degli ultimi eventi internazionali.
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IL salvataggio di Milano
Raccontato da un economista
di Antonio Calafati
Improvvisamente, scoppia il ‘caso Milano’... La magistratura inizia a contestare all’amministrazione comunale la legittimità giuridica dell’uso fatto del dispositivo dell’urbanistica contrattata. In numerosi casi, la procedura seguita avrebbe impedito che l’interesse pubblico fosse adeguatamente rappresentato nella negoziazione. La reazione di chi governa Milano è stata disinibita tanto nel dire quanto nel fare, come si conviene nella tradizione neoliberale: chiedere al Parlamento di promulgare una legge che legittimasse ex-post la prassi negoziale seguita per autorizzare gli interventi di trasformazione urbana. Ne scrive con cura Antonio Calafati, uno dei massimi esperti in Italia di economia urbana [Stefano Lucarelli].
* * * *
In occasione del 175° anniversario della sua fondazione, nel settembre del 2018 The Economist, iconico settimanale inglese, tra i più influenti nella scena internazionale, pubblica un lungo saggio dal titolo eloquente: 1843-2018. A Manifesto for renewing liberalism. Non conteneva novità, ma codificava il progetto neoliberale nella forma che ha trionfalmente preso in Europa dopo il 1989, ancorandosi al paradigma mercatista per interpretare e governare il capitalismo.
Nel 2018, in molte democrazie europee era stata in larga parte realizzata l’agenda politica che il Manifesto illustrava, ma da alcuni anni crescevano inquietudine e instabilità politica, e cresceva il consenso elettorale di movimenti ‘anti-mercato’. Ricapitolarne i temi principali era sembrato necessario alla redazione dell’Economist, consapevole che il suo Manifesto si sarebbe rivelato uno strumento utile per sostenere le ragioni del progetto neoliberale.
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La "produttività" mafiosa
di Carla Filosa
Con la morte di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss delle stragi, in Italia si è voltato pagina”. Questo l’incipit dell’ultimo libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso intitolato “Una cosa sola. Come le mafie si sono integrate al potere”

L’altra settimana, il 14 di gennaio, sono stati arrestati 15 mafiosi a Messina, dediti allo smaltimento di rifiuti urbani, di rifiuti speciali e rottamazione di veicoli. L’attenzione investigativa alle condotte di queste persone è stata realizzata mediante intercettazioni che hanno rilevato l’impedimento di una rendicontazione aziendale mediante una denuncia sulla perdita di registri, cioè ostacolo alla verifica di utilizzo di un mercato nero in cui sarebbero avvenute vendite senza fatturazione. Abbandonando l’evento cronachistico non nuovo e soprattutto non ultimo in questo paese, e non solo, proviamo a riparlare di mafia chiedendoci come mai emerga solo in fase di arresti, merito di indagini e interventi di polizia, mentre a livello politico e culturale è silenziata ogni problematica o riflessione sull’esistenza, espansione e soprattutto attività mafiosa funzionale.
“Con la morte di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss delle stragi, in Italia si è voltato pagina”. Questo l’incipit dell’ultimo libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso intitolato “Una cosa sola. Come le mafie si sono integrate al potere”, Mondadori, 2024. Dato l’accattivante titolo, si è pensato di accedere alla loro analisi e condividere con altri ancora le riflessioni scaturite dai dati oggettivi riportati da questi autorevoli autori, tra i pochissimi che ancora parlano di mafia e soprattutto ne contrastano l’attività.
Continua il testo: “Sconfitta la violenta genìa di mafiosi che aveva osato sfidare lo Stato, tutto è stato messo a tacere. Le priorità ora sono altre, come l’abolizione dell’abuso d’ufficio, il ridimensionamento del traffico di influenze, la separazione delle carriere nella magistratura, l’impossibilità per i giornalisti di pubblicare il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare, la stretta sulle intercettazioni e sull’uso dei trojan per i colletti bianchi. Fa meno notizia anche la stessa corruzione, se non fosse per qualche indagine che riesce ancora a far breccia nella promiscuità dei rapporti tra politici, mafiosi, faccendieri e boiardi di Stato”.
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Accordo Starlink. Giù la MUSKera
di Emiliano Gentili e Federico Giusti
La polemica contro un eventuale investimento di Starlink in Italia muove da considerazioni di vario tipo. Ad esempio c’è chi evidenzia i rischi per la sicurezza nazionale, perché gli oligarchi come Musk – quelli cioè in grado di sfidare gli Stati su alcune delle loro prerogative fondamentali (come il servizio di accesso universale alle connessioni di rete per la cittadinanza) – agiscono oggettivamente come «veri e propri contropoteri» (Mattarella).
A ben vedere, tuttavia, tali rischi non riguardano solo lo Stato come istituzione integra e sovrana ma anche i cittadini e le loro vite private, i loro dati sensibili, nonché i dipendenti della Pubblica Amministrazione: l’affare Starlink va infatti collegato anche con il DdL Sicurezza, che obbligherà le Amministrazioni pubbliche a fornire informazioni e comunicazioni sui propri dipendenti e sul loro operato (comprendendo la ricerca e l’insegnamento), in un’ottica, evidente, di controllo e repressione dell’autonomia sul lavoro. In generale, poi, far dipendere l’erogazione di un servizio universale dalla disponibilità a fornirlo da parte di un colosso privato multinazionale vuol dire trovarsi perennemente sotto potenziale ricatto, tanto più se le tecnologie reperite privatamente avranno un ruolo importante e strutturale nella fornitura del servizio: sarà molto difficile riuscire a svincolarsene per poi, in un futuro, tornare a essere indipendenti.
D’altro canto è pur vero, come evidenziato dai sostenitori di Musk e Meloni, che investimenti privati di grandi dimensioni su asset fondamentali dell’economia nazionale sono, ahinoi, perfettamente “normali” e di frequente praticati: l’intero Rapporto Draghi, i Pnrr, gli Ipcei e i vari accordi transnazionali stretti nel corso del tempo fra governi di ogni colore dei Paesi dell’Ue si basano, tutti, su strategie per ottenere investimenti privati e la stipula di nuovi accordi.
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La "nuova destra" in Italia
Note sulla governance della guerra senza limitii
di Alessandro Russo
Nel numero di Crisis & Critique su “Future of Europe” avevo sostenuto che l’attuale “governo dell’euro” è il risultato della crisi dei partiti del Novecento.ii Si può dire che la “Nuova destra” sia un fenomeno dello stesso ordine? In parte lo è, ma rispetto a quattro anni fa, quando già si poteva prevedere un futuro oscuro dell’Europa, la situazione è peggiorata.
Al momento della creazione dell’euro, i partiti parlamentari europei, quelli di sinistra in testa, si subordinarono unanimemente alla nuova autorità per ricevere in cambio una legittimazione che avevano perduto, cantando in coro “ce lo chiede l’Europa”. L’euro è stato per oltre trent’anni il vero governo dell’Europa. Oggi i resti di quei partiti si inginocchiano tutti davanti all’autorità di ciò che possiamo chiamare il “governo della guerra”, e lo fanno in nome di slogan ancora più vacui come “in difesa dell’Occidente”, o “democrazia contro autocrazia”. Negli ultimi due anni gli Stati europei sono stati trascinati nei prodromi di una nuova guerra mondiale, in cui emerge in modo ancora più nefasto la decomposizione del sistema dei partiti del Novecento. L’unificazione monetaria dell’Europa, che aveva rimpiazzato la perdita di autorità dei partiti parlamentari, è stata a sua volta rimpiazzata da un’unificazione militare in preparazione della prossima guerra mondiale.
Non si tratta però soltanto della subordinazione alla supremazia militare USA, che è l’aspetto più evidente della politica estera degli Stati europei. Ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi è un profondo mutamento della natura stessa della guerra. Non è più la “continuazione della politica con altri mezzi”, come nella formula classica di Clausewitz, e neppure dell’inversione foucaultiana della politica come continuazione della guerra. È iniziata l’epoca della guerra come continuazione della guerra stessa, o della “guerra senza limiti”, come la chiamano i teorici militari.iii
È in atto un cambiamento epocale della guerra, così come si è costituita dal Neolitico con le prime organizzazioni statali e con i primi apparati militari specializzati.
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Tachipirina e vigile attesa? Solo un consiglio
di Alessandro Bartoloni
Prosegue il nostro dibattito sulla gestione sanitaria durante la pandemia da SARS-CoV-2, utile a riflettere sulla più generale situazione della sanità nel nostro paese. In questo terzo articolo, si evidenzia alla luce dei fatti l’inconsistenza e la contraddittorietà di alcune delle indicazioni terapeutiche “ufficiali”, molte delle quali si sono rivelate successivamente infondate.
L’occasione per tornare a parlare di un grande tormentone pandemico ce la fornisce proprio il presidente della FNOMCeO (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) Filippo Anelli che, accompagnato dal segretario generale Roberto Monaco, ha dichiarato alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dal SARS-CoV-2 che, per quanto riguarda la gestione domiciliare dei pazienti, “la federazione non è mai intervenuta per limitare la libertà prescrittiva del medico. Anche perché, in quel periodo, il ministero più della Tachipirina poteva dire ben poco perché non c’erano linee guida, quindi non c’erano evidenze che potessero sostenere indicazioni di carattere diverso”. Per capire la portata orwelliana di tali affermazioni ripercorriamo quei tragici giorni.
Tutto comincia il 25 marzo 2020, quando il ministero della Salute emette la circolare n. 7865 nella quale si stabilisce che, “per individuare possibili opzioni terapeutiche efficaci nei confronti dell’infezione da COVID-19 è necessario condurre studi clinici in grado di dimostrare che i benefici superino i rischi. Per questa ragione, tenuto conto della straordinarietà della situazione, la Commissione tecnico scientifica dell’AIFA ha il compito di valutare tutti i possibili protocolli di studio con la massima rapidità (entro pochissimi giorni dal momento della sottomissione). La stessa tempestività è garantita per la successiva valutazione condotta dal Comitato Etico Unico a livello nazionale che ha sede presso l’INMI Lazzaro Spallanzani.
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La Corte nel mirino
di Giancarlo Scarpari
Nel maggio del 1950, in un articolo dal titolo emblematico, Difendiamoci dal comunismo, don Luigi Sturzo aveva indicato alla Dc la linea da seguire per stabilire le modalità di nomina dei giudici della Corte costituzionale, la cui legge istitutiva era allora in discussione. Il messaggio era chiaro: «I comunisti, finché stanno all’opposizione non hanno diritto di partecipare all’amministrazione dello Stato e degli organi e degli enti» e, di conseguenza, non si potevano eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare col sistema del Regolamento della Camera, che prevedeva l’assegnazione di due posti alla minoranza.
L’iter della legge era stato sofferto, perché, come ricordava Calamandrei su questa rivista[nota 1], vi erano stati quattro «viaggi di andata e ritorno» tra Camera e Senato per via degli emendamenti introdotti in relazione alla nomina dei giudici che dovevano essere scelti dal Parlamento e dal capo dello Stato.
Sulla base dell’indicazione di Sturzo, l’on. Riccio (Dc) aveva proposto che per l’elezione dei giudici eletti dal Parlamento fosse sufficiente la maggioranza semplice, per cui, scavalcando il Regolamento, tutti i giudici sarebbero stati nominati dalla coalizione di governo; poi per la massiccia opposizione dei partiti di sinistra e l’insostenibilità manifesta di questa posizione radicale, era stato deciso che la maggioranza necessaria doveva essere “qualificata”, almeno nella misura dei 3/5. Con i numeri allora esistenti in Parlamento, il governo non aveva la possibilità di eleggere tutti i giudici, ma con la prevista vittoria alle elezioni questo non sarebbe stato più un problema, vista l’entità numerica del premio.
Com’è noto, infatti, la legge elettorale varata in vista delle elezioni del giugno del 1953 prevedeva una distorsione dei principi della rappresentanza, in quanto stabiliva che la coalizione che avesse ottenuto il 50% più 1 dei voti avrebbe ottenuto il 65% dei seggi e cioè 380, mentre alle altre liste ne sarebbero spettati solo 209: per una simile maggioranza e con il contributo di alcuni volonterosi “soccorritori”, sarebbe stato perciò agevole raggiungere i 3/5 necessari dei parlamentari per nominare tutti i giudici di suo gradimento.
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Rivolta sociale?
di Vladimiro Merlin*
Un’ipotesi plausibile, viste le condizioni del lavoro in Italia ma, più che evocata, la rivolta sociale andrebbe praticata.
Il segretario della Cgil, Landini, l’ha evocata in relazione alla situazione che ha portato la Cgil e la Uil a proclamare lo sciopero generale per il 29 novembre.
In effetti, la condizione dei lavoratori italiani è tragica da tutti i punti di vista.
Gli stipendi, dal 1990 al 2020, in Italia sono diminuiti del 2,9%, in tutta Europa si è registrata una crescita, la più bassa, in Spagna, è stata del 10%.
Su 17 milioni di lavoratori del settore privato 7,9 milioni sono lavoratori discontinui, 2,2 milioni sono part-time, assieme sono il 60% dei lavoratori privati.
A questi lavoratori con redditi stabilmente bassi andrebbero aggiunti tutti quelli in cassa integrazione, che hanno uno stipendio ridotto tra il 50 e il 60% del normale.
Ma, come abbiamo già visto, anche ai lavoratori stabili non è andata bene, in questi ultimi 30 anni il loro stipendio non solo non è cresciuto ma si è ridotto del 3%.
Da anni, varie fonti, dai sindacati alla Caritas, ma anche l’Istat, registrano un aumento progressivo della povertà anche tra persone che hanno un lavoro.
Una progressiva povertà che i ceti popolari misurano ogni giorno quando fanno la spesa.
Sulla situazione già tragica dei salari si è innestata l’impennata inflazionistica di questi ultimi anni, impennata che, nonostante i dati ufficiali manipolati, continua; infatti, i rincari dei generi di prima necessità, in primo luogo gli alimentari, sono ancora attorno al 9/10%.
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Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera»
di Luca Baiada
Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.
Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.
L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.
È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:
Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.
Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:
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Narrare e insegnare l’Italia, le radici della questione identitaria
di Antonio Cantaro
La relazione di Antonio Cantaro al Convegno di Proteo-Fare-Sapere e del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre (19 novembre 2024). Il tema dell’identità nazionale merita di essere preso sul serio. Problematizzato nella sua declinazione generale e criticato in quella di identità italiana proposta da Galli della Loggia e Loredana Perla
Identità nazionale. Un significante vuoto?
L’espressione identità nazionale è una scatola vuota, un significante che può essere riempito di molteplici, opposti, significati. Tuttavia, come tante ‘formule magiche’ (populismo, resilienza, e così via), i significanti vuoti si prestano, proprio in virtù della loro indeterminatezza, a essere riempiti di significati pregnanti, ‘normativi’, lato sensu costituenti.
Quando? Quando, veicolano una domanda di senso alla quale viene attribuito, a torto o a ragione, un superiore significato.
La domanda alla quale ci riferiamo oggi quando parliamo di identità nazionale è una domanda di appartenenza a una comunità, la Nazione. Una comunità candidata a coprire le insicurezze e lo smarrimento degli uomini del mondo globalizzato, specie di quelli che si sentono esclusi dai suoi benefici. Gli orfani della belle époque della globalizzazione, da tempo esemplarmente incarnati da quegli americani che al grido di USA USA hanno nuovamente incoronato le scorse settimane Donald Trump capo della nazione americana.
È questo l’auspicio anche di coloro che oggi cantano le “magnifiche e progressive sorti” dell’identità italiana. Un tema, dunque, da prendere sul serio. Ma che per essere preso sul serio sino in fondo esigerebbe che i suoi provinciali ‘apostoli’ giocassero a carte scoperte, rivelando innanzitutto le fonti intellettuali e ideologiche del significante identità nazionale.
E invece no. I neo-apostoli dell’identità italiana si ‘astengono’ dall’indicare persino la fonte internazionale più autorevole, lo scrittore nippoamericano Francis Fukuyama, della riabilitazione del tema dell’identità nazionale. Preferiscono rifugiarsi in citazioni aneddotiche e fuori contesto sul nazional-popolare, tema che andrebbe rimeditato anche alla luce delle perspicue considerazioni di Massimo Baldacci sulla pedagogia gramsciana (https://www.ospiteingrato.unisi.it/wordpress/wp-content/uploads/2021/05/9.4.-BALDACCI-La-scuola-attraverso-Gramsci.pdf.).
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Ndo sta Roma? I guai di Roma Capitale, più dramma che farsa
di Alba Vastano
Scrivere di Roma e di come vive la città chi vi risiede è come fare un viaggio in escalation nel degrado totale. Un viaggio attraversando al contrario i tre canti della commedia dantesca, senza la guida di Virgilio. Da Roma aurea con Petroselli e Nicolini a Roma stracciona con Gualtieri.
Roma, caput mundi, ‘la Grande Bellezza’ con i suoi palazzi monumentali, le piazze storiche, le fontane artistiche. Un tripudio di storia e arte. Una città unica che al turista fa vivere un sogno, un tuffo incantevole nel passato. E poi c’è un’altra Roma, quella reale, quella di chi la vive ogni giorno. E qui cala il sipario sulla grande bellezza e si apre un altro scenario. Quello che ruota intorno al degrado che si tocca con mano ogni giorno, non appena si varca l’uscio di casa e si affronta la città, come fosse un nemico che ostacola i nostri tempi di vita quotidiana, intralciandoli in ogni azione legata ai tempi di lavoro, ad esempio. Ecco Roma è diventata la città del tempo avverso, il tempo che rema sempre contro ogni azione quotidiana dei residenti.
Chi ci vive deve farci i conti ogni giorno e ad ogni spostamento da un luogo all’altro della città. A Roma il tempo quotidiano non è programmabile, anzi non esiste. E’ una chimera. Si esce, ma non si sa l’orario in cui si arriva destinazione. E non è possibile programmare un orario decente di ritorno a casa. Roma è totalmente ricoperta di vetture in continuo transito. Vetture che non trovano mai sosta, ovunque sia il luogo di arrivo previsto. Vetture che circolano e brancolano come povere anime erranti e, soprattutto, inquinanti. Altro stressante martirio avviene sui bus, laddove si sale senza tempo, si viene pressati come sardine e si esce stravolti. Il turista è, fortunatamente, esente da questo inferno su ruote. Lui, solitamente, va a piedi per il centro e cammina, cammina incessantemente con il naso all’insù a sconvolgersi davanti all’Altare della Patria e a percorrere i Fori Imperiali.
Intanto il romano de Roma sta tardando alla grande per raggiungere il lavoro o qualsiasi altra destinazione che si trovi nel perimetro della città comprensivo del raccordo anulare (ndr, che se lo imbocchi in fasce orarie di punta salta totalmente il concetto di tempo). Il romano de Roma smoccola de brutto, a volte bestemmia anche.
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