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Iniziativa delle lavoratrici e dei lavoratori delle Università italiane a sostegno del popolo palestinese
Gentili Rettori e Rettrici delle Università italiane, in qualità di lavoratrici e lavoratori delle Università italiane vi scriviamo questa lettera per chiederVi un posizionamento più deciso rispetto a quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Riteniamo che questo sia fondamentale per il nostro ruolo nelle istituzioni in cui lavoriamo o con le quali collaboriamo, i cui statuti sono ispirati ai valori costituzionali di ripudio della guerra che oggi, però, sono del tutto disattesi.
In tal senso,
PREMETTENDO CHE:
La corte Internazionale di giustizia (CIG) il 26 gennaio del 2024, in risposta alla richiesta presentata dal Sud Africa, ha emesso un’ordinanza nella quale si riconosce che vi è un rischio plausibile che Israele stia commettendo il crimine di genocidio a Gaza, e ha indicato sei misure cautelari urgenti atte a impedire che questo avvenga;
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) con il Parere consultivo No. 2024/57 del 19 luglio 2024 ha affermato che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi viola le norme del diritto internazionale, concludendo che la continua presenza di Israele nei Territori palestinesi occupati è illegale;
La Camera preliminare della Corte penale internazionale (CPI) ha riscontrato fondati motivi per accusare il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, e che di conseguenza la CPI a novembre del 2024 ha emesso i mandati di arresto nei loro confronti;
La Commissione d’inchiesta internazionale indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel rapporto del 16 settembre 2025 conclude che le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso e continuano a commettere quattro dei cinque atti previsti dall’articolo II della Convenzione del 1948 sul genocidio e che l’unica inferenza ragionevole è l’esistenza di un intento genocidario;
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Guerra e controrivoluzione: i conti con Lenin
di Mimmo Porcaro
1. Dalla pace alla guerra
Viviamo in tempi tumultuosi, tempi di guerra. Qui non servono più le idee maturate durante la lunga, ipocrita e sanguinosa “pace occidentale”, l’epoca del presunto unipolarismo Usa, della vantata globalizzazione. Oggi, quando gli stati capitalistici di cui si era profetizzata l’irrilevanza si militarizzano verso l’esterno e verso l’interno, chi intende superare l’attuale organizzazione sociale non può cavarsela con una politica fatta solo dell’affermare la propria identità via social media, senza preoccuparsi di convincere chi la pensa diversamente; o fatta solo del convivere pur conflittualmente con gli attuali apparati di stato, senza mai preoccuparsi di accumulare le forze per modificarli da cima a fondo.
In tempo di guerra non si può agire e pensare come in tempo di pace. E bisogna riprendere il confronto con chi nella guerra ha agito e pensato: in particolare con Lenin, che ha colto proprio il nesso tra guerra e trasformazione sociale, tra guerra e rivoluzione. Certo, non siamo più nel 1917, e “l’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria” si è trasformata (per tentare una definizione provvisoria), in epoca dell’imperialismo triadico[1] e della rivoluzione antiliberista. Una rivoluzione che ha per oggetto il controllo politico (fino alla pubblicizzazione) dei grandi gruppi capitalistici e della stessa circolazione mondiale dei capitali, e che può avere forme diversissime, tra cui quella socialista e lato sensu proletaria. Ma in ogni caso, sempre di imperialismo e rivoluzione si tratta: è utile quindi rileggere Lenin ben oltre la santificazione o la dannazione, superando la rimozione del suo pensiero operata per decenni sia da coloro che lo hanno ripetuto astrattamente, e quindi sterilizzato, sia da coloro che lo hanno messo da parte perché era un ingombro per chi voleva eludere la questione del potere politico per meglio negoziare con esso[2].
Non si può dunque che accogliere con favore articoli come quello che Emiliano Brancaccio ha pubblicato qualche tempo fa, col titolo “Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra”[3], nel quale si sostiene che il tempo presente mostra la validità della tesi dell’inevitabile esito bellico delle contraddizioni intercapitalistiche, tesi centrale del famoso (e inutilmente esorcizzato) saggio leniniano sull’imperialismo[4].
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“Sono nella lista nera di Charlie Kirk”
di Stacey Patton - Vincenzo Morvillo - Alfredo Facchini
Il delirio si è diffuso a livello internazionale, anche se solo nell’Occidente strettamente inteso. L’omicidio a Salt Lake City del giovane influencer “Maga” è stato promosso subito, grazie ai suprematisti bianchi al governo o all’opposizione nel blocco euro-atlantico, ad evento di portata mondiale. Fino a chiedere un minuto di silenzio all’assemblea dell’Onu dove non si riusciva a scrivere la parola “genocidio” nella mozione sulla Palestina.
Il governo nostrano, come sapere, ha colto la palla al balzo per dichiararsi “vittima dell’odio”, nonostante sia sufficiente una rapida scorsa ai morti seminati dai fascisti in Italia, nel solo dopoguerra, per avere un quadro esauriente del background culturale – peraltro rivendicato – del quadro dirigente della destra italica. Nonché dell’abnorme carico “numerico” di omicidi, stragi, attentati verificati giudiziariamente “di matrice fascista”. Con la complicità-copertura di organi dello Stato, certo, ma da loro direttamente compiuti.
Così il giovane bianco suprematista bianco è stato in poche ore elevato a “martire delle idee”, come se avesse promosso un “dialogo socratico” anziché incitare – a volte implicitamente, più spesso esplicitamente – a eliminare chi aveva e professava idee diverse, progressiste, pacifiste, universaliste (che riconoscono cioè l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, qualunque sia il colore della loro pelle, il credo religioso o la passione politica).
Le ricostruzioni, le analisi, gli sguardi sulla realtà sociale e ideologica dell'”America profonda” sono diventate una valanga in cui è facile perdersi e cadere ne volgare trucco fascista che descrive le loro “idee” come di pari dignità rispetto a quelle democratiche o d’altra matrice, rivendicando quello spazio che proprio le loro “idee” e soprattutto le pratiche negano agli altri. Chiunque siano.
Abbiamo raccolto alcuni di questi interventi, testimonianze, analisi, iniziando con quella che ci è parsa più significativa dello spirito mortifero suscitato dal fu Kirk nei suoi blog e/o comizi.
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Mediobanca Finanziarizzazione SSN: considerazioni e sollecitazioni
di Gianluigi Trianni* e Aldo Gazzetti**
Lo scorso 8 luglio Mediobanca ha dato notizia dell’aggiornamento 2025 del suo Report 2024 sui maggiori operatori sanitari privati in Italia (con fatturato superiore a 100 milioni) nel 2023. (1)
Il report è una vera miniera di dati e meriterebbe un seminario ad hoc, soprattutto per una analisi della finanziarizzazione della sanità in Italia, problema politico ed economico sottovalutato.
L’impostazione analitica utilizzata è quella dei settori merceologici o di settore e la finalità è la descrizione degli indicatori aziendali “classici”.
Rispetto alle precedenti edizioni vengono forniti maggiori informazioni riguardo l’internazionalizzazione espansiva di alcuni e l’origine dei finanziamenti
Rimandando ad altre occasioni l’analisi del predetto rapporto in funzione della finanziarizzazione della sanità in Italia, di seguito segnaliamo, e brevemente commentiamo, alcune evidenze a supporto dell’unico modo per sottrarsi alla progressiva privatizzazione della Sanità in Italia e della sua progressiva finanziarizzazione: il deciso investimento dello Stato sul SSN, da decenni sotto/de finanziato dalla politica neoliberale (austerity) dei governi succedutisi negli anni, oggi, per di più, in versione neoliberismo /economia di guerra.
Evidenze e Commenti
Aumento del giro di affari (quindi dei ricavi) e della redditività
Nel 2023 la “spesa sanitaria privata è stata pari a circa 74 miliardi di euro tra accreditamento (contratti del SSN con erogatori privati), spesa intermediata (mutue ed assicurazioni) e spesa diretta delle famiglie, ovvero 59 miliardi al netto degli acquisti di farmaci e altri presidi sanitari a carico delle famiglie. “(I)
“L’accreditamento è cresciuto dell’1,7%, grazie alla possibilità concessa alle Regioni di avvalersi di operatori accreditati per ridurre le liste d’attesa “.
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I destini dell'Europa si decideranno a Parigi (e non è una buona notizia)
Crisi francese, conflitto europeo e natura della EU
di Giuseppe Masala
Uno degli insegnamenti fondamentali della storia è che per comprendere i destini dell'Europa bisogna guardare alla Francia. Una verità questa che probabilmente è vera sin dai tempi della nascita dello stato nazione francese, ma che è diventata sempre più vera con il passare dei secoli nei quali si sono verificati – proprio in Francia - fenomeni peculiari come l'Illuminismo, la Rivoluzione Francese e l'epopea napoleonica.
Ancora oggi è così, la Francia è l'unico paese dell'UE ad avere il deterrente nucleare e a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu dando a Parigi un ruolo fondamentale nei delineare i destini dell'Europa continentale. Ciò non dimeno, in questa fase storica, questo paese sta vivendo una profondissima crisi industriale, economica e politica, che però ormai si è trasformata in una crisi politica e, sempre di più, sociale.
Lo snodo fondamentale per comprendere la genesi dell'attuale crisi della Francia va ricercato - come al solito! - nella nascita dell'Euro. Come Roma, anche Parigi non è riuscita a reggere la concorrenza dei paesi nord europei e delle loro ben congegnate global chain value. Anche la Francia infatti ha vissuto il dramma della deindustrializzazione, al quale si è anche aggiunta la fine della Françafrique, ovvero del dominio di Parigi sulle ex colonie africane che garantiva un sicuro mercato di sbocco per le merci francesi e anche un flusso continuo di capitali verso Parigi grazie al meccanismo del Franco CFA.
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Sparta o Masada
di Enrico Tomaselli
In qualsiasi conflitto, le parole sono utilizzate per velare la realtà – se non per mistificarla. E, ovviamente, l’ennesimo divampare cinetico della lunga guerra di liberazione della Palestina non fa eccezione. Quando Netanyahu e la sua gang di fanatici messianici parlano di Grande Israele e di “ridisegno del Medio Oriente”, stanno ammantando con un linguaggio trionfalistico e ambizioso quello che è, in effetti, un disegno strategico che nasce da profonde preoccupazioni.
Israele ha sempre avuto, sin dalla sua fondazione, l’imperativo di mantenere una netta superiorità militare sui paesi vicini. Obiettivo riaffermato con la guerra dei sei giorni (1967) e dello Yom Kippur (1973). Questo quadro strategico si stabilizzerà con gli Accordi di Camp David (1978), gettando le basi per una duratura messa in sicurezza dei confini israeliani, e lasciando come unica preoccupazione il contrasto alla Resistenza palestinese.
Ma già solo qualche mese dopo interveniva un elemento destinato a stravolgere gli equilibri geopolitici della regione: la Rivoluzione Islamica in Iran. Che, tra l’altro, deponendo lo Scià Reza Pahlevi, priverà gli Stati Uniti ed Israele di un importante alleato. Da quel momento in poi, la politica israeliana è sempre stata caratterizzata dalla necessità di contenere la crescita di paesi e forze ostili, sia attraverso l’azione militare diretta, sia attraverso la destabilizzazione, sia indirizzando in tal senso la politica statunitense. Quanto rivelato dal generale Wesley Clark, ex comandante supremo delle forze alleate della NATO, all’indomani dell’11 settembre 2001,ovvero il piano del Pentagono per attaccare sette paesi nell’arco di 5 anni (Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran), rientra precisamente in quest’ultimo ambito, ovvero convincere le amministrazioni USA che gli interessi israeliani siano in realtà anche interessi degli Stati Uniti.
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Qatar, omicidio Kirk: l'11 settembre di Trump
di Davide Malacaria
L’assassinio di Charlie Kirk rischia di diventare un altro 11 settembre americano, e forse mondiale se ripeterà l’effetto domino di allora. Per ora ha scatenato una reazione durissima in ambito repubblicano, dal presidente Trump in giù, contro l’estremismo cosiddetto di sinistra.
Reazione che sembra poter dar vita a un maccartismo di ritorno, ma più estremo del precedente, che vedrebbe indebite convergenze tra la lotta contro i movimenti cosiddetti “antifa” a quella contro l’immigrazione clandestina e, soprattutto, quella contro la causa palestinese, già oggetto di dura repressione.
E dire che, nel mega raduno di luglio del suo movimento politico, il Turning Point, cruciale per avvicinare la generazione Z al Maga, Kirk, in nome della libertà di espressione, aveva invitato diversi oratori più che critici del genocidio palestinese, tra cui Tucker Carlson, Megyn Kelly e Dave Smith.
Un’apertura che aveva irritato non poco certi ambiti, tanto che Kirk “fu bombardato da messaggi di testo e telefonate infuriate da parte dei ricchi alleati di Netanyahu negli Stati Uniti”, riporta Greyzone, tra cui donatori della sua piattaforma, come ricorda un un amico del leader Maga che accenna a come questi ne fosse rimasto destabilizzato e “spaventato”.
’apertura suddetta avveniva dopo che Kirk, come ricordava sempre l’amico, aveva rifiutato l’offerta di Netanyahu di una donazione consistente per la sua piattaforma, di fatto un’Opa sulla stessa (l’articolo di Greyzone è stato rilanciato in America dal Ron Paul Institute).
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La UE vuole legalizzare il “Grande fratello”
di Dante Barontini
Conosciamo ormai a memoria il ritornello della propaganda euro-atlantica secondo cui “noi” (tutti?) occidentali vivremmo in un “giardino” circondato da una giungla oscura e ostile. Qui ci sarebbe la “libertà”, mentre al di là del muro (sempre più alto e spesso) vivrebbero sotto una dittatura feroce che controlla tutti dalla mattina alla sera e magari anche mentre sognano.
Come sempre bisogna chiedersi: quando parlate della “libertà”, esattamente, alla libertà di chi vi state riferendo? Di sicuro non a quella di tutti gli abitanti di questa parte del mondo. E non serve neanche scomodare tutte le visioni – e i relativi dati numerici – che mostrano come, ad esempio, un cittadino povero o ignorante non è affatto “libero”, perché le sue possibilità reali (di movimento, pensiero, azione, ecc) dipendono da mezzi che non possiede né può farsi “prestare”.
Il concetto di “libertà” che viene spacciato da queste parti è insomma necessariamente vago, indefinito, vuoto. Un’immaginetta rassicurante come una madonnina su un santino, e altrettanto usa-e-getta.
A questo punto si alza il liberale scemo di turno a dire: ma qui abbiamo la libertà politica di dire quello che vogliamo! Lasciamo per un attimo da parte l’obiezione “strutturale” per cui la “libertà di parola” – nel senso politico del termine, ossia la possibilità di entrare e “pesare” nel dibattito pubblico quantomeno nazionale – dipende dalla potenza dei mezzi di comunicazione di cui si dispone (chi controllo tre televisioni sicuramente è più libero di chi ha soltanto la sua voce, per farsi sentire).
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Droni russi sulla Polonia: dall’allarme rosso all’ennesima farsa di guerra
di Gianandrea Gaiani
L’infiltrazione di uno sciame di droni russi Gerbera nello spazio aereo polacco la notte tra il 9 e 10 settembre ha suscitato molto allarmismo per la supposta iniziativa di Mosca e qualche preoccupazione per la scarsa reattività delle difese aeree polacche e alleate, capaci di intercettare 3 o forse 4 dei 19 Gerbera segnalati sulla Polonia.
Analisi Difesa si è occupata della vicenda (peraltro venendo ripresa e citata da molti altri media in Italia e all’estero) evidenziando tre possibili opzioni: un tentativo russo di intimidire gli europei e testare la reattività delle difese aeree polacche (ipotesi che preso subito piede in Europa), uno sconfinamento dovuto a errore o agli effetti delle contromisure elettroniche ucraine (ipotesi accreditata negli Stati Uniti) oppure un finto attacco orchestrato con scopi propagandistici da ucraini e polacchi per evidenziare che la minaccia russa incombe su Europa e NATO.
Immagini e notizie emerse successivamente rendono molto probabile che la terza ipotesi si riveli la più plausibile. Non solo perché Mosca ha sempre negato di aver inviato droni verso lo spazio aereo polacco ma anche perché negli ultimi tempi in Ucraina ed Europa si sono moltiplicate le operazioni propagandistiche tese ad accentuare la percezione dei russi come una minaccia spietata per tutta l’Europa.
Molte di queste operazioni propagandistiche sono sprofondate nel ridicolo come nel caso dell’attacco elettronico al GPS dell’aereo del presidente della Commission e europea Ursula von der Leyen in atterraggio in Bulgaria, Un’operazione così raffazzonata da venire smentita da tutti gli esperti di navigazione aerea e persino dalle autorità di Sofia.
Non meno ridicola la notizia dell’attacco contro il palazzo del governo a Kiev, dove è davvero scoppiato un incendio ma non vi sono prove né video o foto che documentino l’impatto di un drone russo. Purtroppo (per la credibilità complessiva di UE, NATO e dei singoli governi), anche la drammatica storia dell’attacco dei droni Gerbera alla Polonia sta trasformandosi in una patetica farsa.
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“Vita e pensiero nel regno dell'insignificanza”
Introduzione di Sonia Milone
“Quale sarà il posto dell’uomo nella società futura?” Se lo chiedono due filosofi e scienziati in un libro che attraversa tutte le faglie del nostro tempo: “Vita e pensiero nel regno dell’insignificanza”, Acro-polis editore. Giubbe Rosse pubblica, per gentile concessione della casa editrice, l’Introduzione del volume scritta da Sonia Milone che ha curato, insieme a Massimo Cascone, il libro-intervista
Sembra che la Terra oramai orbiti intorno all’asse dell’emergenza cosmica con il ciclico ripetersi di crisi finanziarie, sanitarie, climatiche, energetiche, belliche. Ad ogni giro si invera un’accelerazione storica che spazza via il vecchio mondo per impiantarne uno completamente nuovo dove trionfano incontrastati il neoliberismo, il globalismo, la tecnocrazia, il transumanesimo.
Il disorientamento, l’incertezza, la paura diffusi impediscono la reazione delle popolazioni, le quali, altrimenti, non accetterebbero passivamente riforme fabiane tese a introdurre un modello socio-economico che cambia in maniera radicale abitudini e stili di vita, rendendole sempre più povere e prive di diritti. È una rivoluzione che non può essere semplicemente imposta dall’alto ma necessita di un certo consenso carpito con la retorica dei buoni principi, come la crociata per la transizione digitale al fine di convertire la società al mito di un progresso che promette di portare il paradiso (artificiale) in terra.
Nel 1951 Hannah Arendt scrisse, a proposito dei totalitarismi, che «il soggetto ideale del dominio totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali la distinzione tra fatto e finzione, vero e falso, non esiste più». Il rischio maggiore oggi è proprio quello di non sapere più riconoscere la verità rimanendo intrappolati dentro quelle novelle caverne platoniche che sono le bolle virtuali che ci tengono incatenati a fissare i seducenti simulacri del mondo che qualcuno proietta sulle pareti-schermi per noi a nostra insaputa. Eppure, l’uscita dello schiavo alla luce del sole è il mito fondativo di tutta una civiltà che aveva eletto il logos, la ragione, la parola e il dialogo a propria stella polare.
La crisi dei nostri tempi è, innanzitutto, la crisi del pensiero, affermano Luciano Boi e Stefano Isola, che in pagine cariche di riflessioni si confrontano su una molteplicità di temi che costituiscono le vere emergenze del nostro tempo, quelle che raramente emergono nel dibattito pubblico, smascherando le nuove forme di assoggettamento e di dominazione che si celano dietro le nuove mitologie del presente.
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Sfere di sicurezza contro sfere di influenza
Una riconsiderazione dei confini delle grandi potenze
di Jeffrey D. Sachs
“Vorrei sostenere che le grandi potenze hanno ragione ad affermare una “sfera di sicurezza” nei rispettivi vicinati che le altre grandi potenze non dovrebbero violare, come ad esempio nessun allargamento della NATO all’Ucraina e nessuna base militare russa in Messico, ma che ciò è diverso da una “sfera di influenza” che potrebbe implicare il “diritto” degli Stati Uniti di interferire negli affari interni (non di sicurezza) del Messico o della Russia di interferire negli affari interni (non di sicurezza) dell’Ucraina. Sto pensando, in sostanza, a una Dottrina Monroe generalizzata e reciproca, ma non a un Corollario Roosevelt.”
Avvertenza: Alla fine dell’articolo potete leggere uno scambio di idee e considerazioni del Prof. Jeffrey Sachs con il Prof. John Mearsheimer.
Pochi concetti nelle relazioni internazionali sono così controversi come quello di “sfere di influenza”. Dalla spartizione coloniale del XIX secolo alla divisione dell’Europa durante la Guerra Fredda, le grandi potenze hanno ripetutamente rivendicato il diritto di intervenire nella politica, nell’economia e negli accordi di sicurezza dei loro vicini. Tuttavia, questo linguaggio familiare confonde due nozioni molto diverse: la legittima necessità delle grandi potenze di prevenire un accerchiamento ostile e la pretesa illegittima delle grandi potenze di interferire negli affari interni degli Stati più deboli. La prima è meglio descritta come una sfera di sicurezza, la seconda come una sfera di influenza.
Riconoscere questa distinzione è più che semantico. Chiarisce ciò che dovrebbe essere accettato come legittimo nella politica mondiale e ciò a cui si dovrebbe resistere. Aiuta anche a rivalutare dottrine storiche come la Dottrina Monroe e la sua successiva reinterpretazione nel Corollario Roosevelt, e fa luce sui dibattiti contemporanei tra Russia e Cina da un lato e Stati Uniti dall’altro in materia di sicurezza nazionale.
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Tutti con la Sumud Flottilla, contro i cacasenno e i provocatori
di Fulvio Grimaldi
Testo dell’appello sulla questione del podcast Radio Gaza de L’Antidiplomatico indirizzata alla direzione della testata.
INVIARE LE PROPRIE FIRME A
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Una, cento, mille flottiglie
Mentre in tutto il mondo si mobilitano milioni di persone per sostenere la Sumud Flottilla e da Gaza le voci di giornalisti, militanti della Resistenza, a partire dal FPLP, medici e comuni Gazawi si levano voci a favore di questa straordinaria iniziativa, Radio Gaza, in L’Antidiplomatico, opera un’azione di sabotaggio e delegittimazione dell’impresa.
Ricordando che intorno alla Flottilla , per supportarla si sono mobilitati artisti famosi, intellettuali, attivisti e cittadini sensibili alla causa palestinese,
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Reclutamento
di Leonardo Mazzei
La portata del piano di riarmo tedesco è enorme. Ma altrettanto gigantesca è la sua sottovalutazione. In tanti, sottolineando giustamente la difficoltà di adeguare le dimensioni della Bundeswher alla montagna di armi di cui verrà rifornita, concludono che alla fine tutto finirà in una bolla di sapone. Più esattamente in una mera operazione economica, utile a tener su l’economia in una fase in cui boccheggia, ma del tutto inadeguata al fine di far riemergere l’antica potenza militare di Berlino. Davvero stanno così le cose? Ne dubitiamo assai.
Ieri l’altro, il giornale Politico ha reso pubblico un promemoria classificato redatto dal capo dell’esercito tedesco, il tenente generale Alfons Mais, che espone il progetto di raddoppio degli effettivi entro il 2035. Il tutto “con l’obiettivo di diventare l’esercito dominante in Europa”. Così, tanto per cominciare.
In realtà i numeri di questo promemoria non rappresentano una novità, ma il fatto che qualcuno abbia deciso di renderlo pubblico un significato di sicuro ce l’ha. La svolta militarista ha bisogno dei suoi tempi e di un’ampia preparazione nella società, nella cultura e nella politica, ma la direzione di marcia è tracciata. E mentre si lavora alla conquista del consenso, sempre più si ragiona sui piani di reclutamento. Di gran lunga il passaggio più difficile.
Il capoccione della Bundeswher dice che, seppure in tempi di iper-tecnologizzazione della guerra, oltre alle armi servono comunque gli uomini. Il suo piano è dunque quello di passare dai 180mila effettivi di oggi, a 292mila nel 2029, a 352mila nel 2035. Sostanzialmente un raddoppio.
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L’Epoca pericolosa del vittimismo assassino
di Andrea Zhok*
Quando si scopre che la maggioranza (73% secondo l’ultimo poll) della civile, colta, democratica popolazione israeliana supporta una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi non ci si può che chiedere: com’è possibile che ciò accada? Com’è possibile che qualcuno di fronte a manifeste, continue forme di prevaricazione e violenza nei confronti di soggetti innocenti (bambini, anziani, civili) continui a difendere serenamente queste attività?
La risposta è in effetti semplice: nel caso della popolazione israeliana si tratta di una popolazione che ha introiettato educativamente una visione di sé come vittime della storia, come soggetti fragili ed oppressi, che perciò hanno un implicito diritto di “autodifesa preventiva” a 360°.
In sostanza, essendo “noi” in credito con la storia e l’umanità, ci possiamo permettere ciò che altri non possono permettersi. La posizione di vittima esemplare ci pone in una insuperabile posizione di superiorità morale, che semplifica di molto ogni decisione: non devo soppesare torti e ragioni perché tutto ciò che faccio ricade per definizione sotto una forma di “legittima difesa preventiva”. Basta assumere che l’altro possa rappresentare, da un qualunque punto di vista, una minaccia per me, e io sono legittimato dal mio ruolo di vittima a ricorrere a qualunque forma di iniziativa soppressiva.
Una dinamica perfettamente analoga può essere scorta nelle legittimazioni “progressiste” che fioccano in questi due giorni dell’omicidio di Charlie Kirk.
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Finanza e Difesa: le due bolle che intrappolano l'Europa (e i conti pubblici dell'Italia)
di Alessandro Volpi
Il titolo di Oracle, in una sola seduta di Borsa, ha guadagnato il 40%, portando la capitalizzazione della società non lontana dai 1.000 miliardi di dollari. Era già salito del 45% nelle giornate precedenti. Da che cosa è dipesa una simile impennata? I numeri reali parlano di un fatturato di 57 miliardi di dollari, quattro in più rispetto al 2024 e di un utile netto di 12 miliardi, due in più dell'anno precedente. Numeri importanti, dunque, ma che forse non giustificano un'esplosione come quella registrata in pochissime sedute, su cui hanno pesato molto, invece, la sempre più stretta vicinanza a Trump e alle commesse del Pentagono, l'iniezione di liquidità dei fondi e l'accordo, poi annunciato, con OpenAI, che segna una sorta di cartello dell'Intelligenza artificiale che va da Larry Ellison a Peter Thiel, da BlackRock alla presidenza Trump e al suo progetto "Stargate".
Si tratta di una bolla finanziaria costruita sulla narrazione che gli Stati Uniti intendano puntare il proprio futuro sull'Intelligenza artificiale legata in primis alle strategie del Pentagono in antitesi all'affermazione cinese. La finanza guadagna sull'ipotesi di un conflitto tecnologico tra Usa e Cina: i beneficiari di tale scontro sono evidenti. Il principale azionista di Oracle è come detto Larry Ellison, con il 40%, che non a caso in due giorni è diventato l'uomo più ricco del mondo, seguito da BlackRock, Vanguard e State Street, proprietarie del 15% circa.
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Cina e dialettica marxista
di Salvatore A. Bravo
La Cina è sicuramento “il baluardo” che limita l’imperialismo a stelle e strisce. Guardare in direzione della Cina con le leggi della dialettica è necessario, poiché la dialettica marxista insegna che gli orientamenti della storia devono essere compresi e decodificati per orientare la rivoluzione e i mutamenti radicali in modo proficuo, e la Cina, a prescindere dalle opinioni personali, è la civiltà (socialista) con cui dovremo confrontarci. Non è solo una nazione immensa, quasi un continente nel continente asiatico, ma una civiltà-nazione con una identità e storia millenaria sopravvissuta al colonialismo cannibalico occidentale. Essa oggi è la civiltà che apre nuovi scenari politici, mentre l’occidente cerca di perpetuare il suo impossibile dominio:
“Il materialismo dialettico concepisce l’universo come “un movimento della materia, retto da leggi”, che si riflette nella nostra conoscenza, “prodotto superiore della natura” . Il pensiero è riflesso di questa realtà, ed è perciò anch’esso in un processo di continuo movimento e trasformazione. Al modificarsi della realtà materiale non può che corrispondere una trasformazione del pensiero. Essendo il nostro pensiero il riflesso della realtà materiale, noi possiamo arrivare alla comprensione oggettiva di questa. Il pensiero umano è espresso però da singoli individui, che non possono che avere una conoscenza relativa, limitata dal tempo e dallo spazio, oltre che dallo stato di sviluppo della società e delle sue forze produttive e scientifiche[1]”.
La dialettica ci insegna che le fasi di rottura causate dalle contraddizioni conducono a salti qualitativi, poiché nella contraddizione si afferma un innalzamento qualitativo generale della coscienza dei dominati. Tale coscienza non è assimilabile all’opinione personale, ma alla constatazione dell’inevitabilità dei processi storici in corso. Questi ultimi non sono mai “semplici segmenti” separati dalla totalità della storia, ma trovano la loro oggettiva ragion d’essere nell’immanenza olistica e trasformatrice della storia:
“Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante[2]”.
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La bolla dell’AI sull’orlo dell’esplosione. Gli USA si ritirano dall’Asia per risolvere i guai a casa?
OttoParlante - La newsletter del Marru (8/09/25)
di Giuliano Marrucci
La costruzione di un Nuovo Ordine Globale non è un pranzo di gala. Ed ecco, così, che dopo aver passato un’intera settimana a celebrare le magnifiche sorti e progressive della leadership cinese – che tra SCO, parate, Power of Siberia 2 e chi più ne ha più ne metta, ha raggiunto una serie straordinaria di traguardi storici – è bene iniziare la settimana con una lunga disamina di tutti i dubbi e di tutti i nodi insoluti che rimangono da sciogliere; e mettetevi pure comodi, perché l’elenco è decisamente lunghino e, vista la mole, probabilmente anche un po’ caotico.
Il punto di partenza migliore è il dibattito che è nato su X tra alcuni degli osservatori (e sostenitori) più attenti e lucidi dell’ascesa del Nuovo Ordine Multipolare: a dare il via è stato il solito Arnaud Bertrand (se non lo fate già, seguitelo su X: in assoluto uno dei profili più informativi e interessanti dell’intera piattaforma) che, partendo da un articolo su Politico, ha lanciato la più stimolante delle provocazioni: “Gli USA”, afferma, “si stanno effettivamente ritirando dall’Asia”. La riflessione nasce dalle indiscrezioni sull’ultima bozza della nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono: Il piano del Pentagono dà priorità alla patria rispetto alla minaccia cinese, titola con enfasi Politico; e questo “segna un netto distacco dalla prima amministrazione Trump, che puntava a scoraggiare Pechino”.
Secondo l’articolo, appunto, “Una bozza della più recente Strategia di difesa nazionale” porrebbe “le missioni nazionali e regionali al di sopra della lotta contro avversari come Pechino e Mosca”; “Un cambiamento radicale rispetto alle recenti amministrazioni”, sottolinea Politico, “incluso il primo mandato del presidente Trump, durante il quale lo stesso documento definì Pechino il più grande avversario degli Stati Uniti”. L’aspetto divertente è che, oggi come durante il Trump 1.0, il responsabile del documento è sempre lo stesso: Elbridge Colby. Per chi segue Ottolina, una vecchia conoscenza: ne avevamo parlato qui ormai 3 anni fa, in occasione della pubblicazione del suo libro Strategy of denial, che avevamo definito il Mein Kampf degli USA. Secondo Arnaud la motivazione è chiara: “Ora che è al potere ha accesso a informazioni di intelligence reali, e deve aver capito quando sarebbe stato vano ogni sforzo.
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Francia e Gran Bretagna, due populismi a confronto
di Nico Maccentelli
Uno dei cavalli di battaglia degli atlantisti che santificano le attuali (false) democrazie liberali è spalare merda sulle opposizioni qualificandole come populiste e sovraniste. In realtà c’è una bella differenza tra forze politiche che rilanciano il sovranismo populista nel nome dei valori occidentali, e forze che ritengono che in Europa, l’UE sia una gabbia e ponga dei diktat ai parlamenti e alle popolazioni che non possono più decidere autonomamente cosa sia meglio sul piano economico e sociale, per non parlare della politica estera.
Che l’Unione Europea abbia condotto con la sua politica economica i suoi paesi aderenti alla crisi, abbia imposto parametri liberisti e penalizzato stato sociale, salari, pensioni e che dulcis in fundo con la politica estera NATO abbia portato a un’escalation bellica preparata da tempo, dal 2014 con il golpe di Euromaidan, è un dato di fatto che difficilmente i media a libro paga di Bruxelles e della finanza anglosassone possono dissimulare. Oltre che una “pallottola spuntata” nella macelleria ucraina vediamo che anche la propaganda militarista lo è, con sparate del tutto grossolane sulla “Russia che ci minaccia”.
È per questo che il populismo sovranista ha gioco forza nel proporre alternative che spesso non sono. Non è un’alternativa per esempio la forza di massa che si è riversata nelle strade di Londra (1) con tutto il suo carico islamofobico e razzista che fa da corollario a una visione nazionalista aderente alle suggestioni suprematiste dell’antica Inghilterra, quale paese colonizzatore per eccellenza.
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Guerra o pace l’Ucraina ci presenta il conto: nel 2026 più di 120 miliardi di spesa militare
di Gianandrea Gaiani
Meno di un mese dopo che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commissionato agli Stati Uniti 90 miliardi di ordini per armi, munizioni ed altri equipaggiamenti militari che pagheranno, consenzienti, gli alleati europei, ieri il ministro della Difesa di Kiev, Denys Shmyhal (nella foto sotto), ha reso noto che l’Ucraina ha bisogno di oltre 100 miliardi di euro per finanziare la sua difesa nel 2026.
A scanso di equivoci, l’ex premier del governo ucraino, ha precisato che tale somma sarà necessaria sia in caso la guerra continui sia nel caso si arrivi a un accordo di pace.
“Se la guerra continua, avremo bisogno di almeno 120 miliardi di dollari per il prossimo anno”, ha affermato, visto che gli sforzi di pace restano in una fase di stallo. Anche se i combattimenti cessassero, “avremo bisogno di una somma leggermente inferiore” per “mantenere il nostro esercito in buone condizioni” in caso di un nuovo attacco russo, ha aggiunto alla conferenza annuale sulla strategia europea.
Il ministro non ha specificato quanto di questa somma l’Ucraina sarà in grado di finanziare con risorse proprie, che di fatto non esistono dal momento che l’Ucraina sarebbe già in bancarotta secondo gli standard finanziari comuni e sopravvive grazie ai donatori internazionali.
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Politeismo italiano
di Geraldina Colotti
Più di un secolo fa, il sociologo Max Weber spiegò con autorevolezza come l’individuo moderno fosse destinato al cosiddetto «politeismo dei valori». Queste riflessioni famose, anche se non necessariamente persuasive, servivano a delineare la situazione nuova di società disincantate, costrette a convivere con l’assenza di baricentri ideologici assoluti e col proliferare di dilemmi etici e normativi inevitabilmente drammatici.
Nessun dramma, però, sembra affliggere l’odierno politeismo italiano, che nel 2025 ha segnato un notevole salto di qualità con la morte e la santificazione di Pippo Baudo e di Giorgio Armani.
«Santo subito!», gridavano i più sfrenati fedeli cattolici, dopo la morte di Karol Wojtyla, papa scenografico e reazionario. Come possiamo constatare, l’esperienza non è andata perduta, vista l’ondata di selvaggio conformismo che si è scatenata all’indomani della scomparsa del «re» della televisione e del «re» della moda.
Notiamo che questi «re» sono monarchi dell’apparenza. Baudo «scopriva» i cantanti, facendoli apparire a Sanremo per dischiudere loro le porte del successo. Armani «copriva» attori e politici, facendoli apparire nella miscela di stile e originalità che conferiva loro eleganza e sicurezza.
Notiamo anche un’altra cosa. Questi sovrani dell’esteriorità hanno imposto la loro supremazia solo a partire dagli anni Ottanta. Anni di simulazione portata all’eccesso, anni di narcisismo compulsivo, anni (bisogna dirlo) di controrivoluzione.
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Sumud, ora e sempre
di Augusto Illuminati
Il proditorio attacco israeliano con drone alle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla testimonia non solo il terrorismo sionista ma il rilievo oggettivo che quell’iniziativa umanitaria ha per internazionalizzare il conflitto e manifestare forme concrete di solidarietà e coinvolgimento
Sumud, resilienza un cazzo, resistenza piuttosto, sforzo di perseverare o, come si diceva quando una lingua comune dell’Occidente esprimeva l’impulso rivoluzionario marrano, conatus, per cui ogni cosa in suo esse perseverare conatur, fa valere la sua essenza attuale. La lenta e un po’ scompigliata partenza della Global Sumud Flotilla e il suo avvicinamento contrastato a Gaza segnano un salto di qualità nell’impegno solidale di un movimento internazionale e anticoloniale.
Un balzo di scala non solo rispetto alla passività complice dei governi occidentali, in primo luogo di quello italiano, ma anche rispetto a precedenti manifestazioni di piazza, raccolta di aiuti e boicottaggio dei movimenti e dello stesso movimento italiano che solo a luglio aveva raggiunto livelli paragonabili con quelli europei, superando anteriori divisioni e incertezze. Naturalmente la spinta è venuta dal precipitare della situazione sul fronte di Gaza e della Cisgiordania, essendo la politica israeliana sempre più determinata dal ricatto parlamentare delle formazioni più estremiste e dalla spinta sociale dei coloni e delle bande dei “ragazzi delle colline”, feroci e disadattati che fanno da braccio armato sussidiario e provocatorio ai coloni inquadrati nell’esercito e nella polizia di Ben Gvir.
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La scomparsa della circolazione e la logica del capitale
di Robert Kurz e Samuele Cerea
Il seguente testo è solo una parte di un lungo saggio di Robert Kurz dal titolo Geld ohne Wert [it: “Denaro senza valore”] (Horlemann Verlag, 2012). Esso rappresenta il lascito teorico e l’ultimo contributo organico dell’autore nella direzione di un notevole tentativo (iniziato già a metà degli anni Ottanta) di ricostruire la critica dell’economia politica e di formulare una teoria radicale della crisi del capitalismo. Ci limitiamo qui a fornire alcune succinte coordinate.
Il fulcro della trattazione è naturalmente la questione del denaro e del suo valore, sapientemente declinata attraverso un confronto con l’antichità e l’età medioevale in cui il denaro non aveva affatto il ruolo centrale che riveste nella modernità con la sua universalizzazione del capitalismo e delle relative categorie. Sottolineando la natura storicamente e logicamente differente del denaro nella modernità capitalistica rispetto alle epoche premoderne, Kurz imposta la questione della sua funzione sociale negli ultimi secoli e ne mette in luce gli elementi di crisi.
In secondo luogo, l’accento viene posto sulla necessità di analizzare la società capitalistica come un intero. Di conseguenza Kurz conduce una critica serrata al cosiddetto “individualismo metodologico”1 che caratterizza l’approccio utilizzato da Marx ne Il capitale ma anche e soprattutto le correnti neo-marxiste più recenti (in particolare la cosiddetta Neue-Marx-Lektüre di Michael Heinrich).
Nello specifico il testo che presentiamo prende in esame la categoria della “circolazione” mettendone in luce la natura illusoria. Se intesa come uno scambio generalizzato di merci prodotte da produttori indipendenti con la mediazione dal denaro, essa non ha mai avuto luogo storicamente; infatti nelle società premoderne non vi era alcuna produzione universale di merci mentre nella modernità capitalistica il denaro non media affatto lo scambio di merci differenti ma costituisce un fine in sé, in ossequio alla logica fondamentale del sistema. Questa idea ha piuttosto il suo luogo d’elezione nella visione ideologica della teoria economica ufficiale (quella del “velo del denaro”). Nella realtà le merci vengono realizzate, vendute e consumate ma non “circolano”.
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«Perché l’Iran non può avere armi nucleari e Israele sì?»
di Emmanuel Todd
Dal Giappone, l’antropologo francese analizza la questione nucleare iraniana e i doppi standard occidentali
L'autore de «La sconfitta dell’Occidente» sfida i pregiudizi occidentali sull’Iran. Con una lettura controcorrente, Emmanuel Todd sostiene che, come il Giappone, anche l’Iran potrebbe dotarsi di armi nucleari senza destabilizzare la regione. Lo studioso avverte che l’approccio unilaterale di Israele e degli Stati Uniti distorce la percezione e ostacola la comprensione del Paese erede dell’Impero persiano, che vanta oltre 2.500 anni di storia.
l punto di vista di un esperto su un tema di attualità.
Quella che segue è la traduzione in italiano di un’intervista rilasciata di recente in Giappone. Il fatto di esprimermi regolarmente in Giappone su questioni geopolitiche (da almeno 20 anni) mi ha aiutato a sviluppare una visione del mondo de‑occidentalizzata, una coscienza geopolitica non narcisistica. Come si vedrà, è stata la mia riflessione di lunga data sull’eventuale acquisizione dell’arma nucleare da parte del Giappone a portarmi a un atteggiamento piuttosto sereno di fronte alla questione iraniana.
Le democrazie europee non vanno bene. Non possono più essere descritte come pluraliste per quanto riguarda l’informazione geopolitica. La possibilità di esprimermi sui grandi media giapponesi mi ha permesso di sfuggire al divieto che in Francia pesa su qualsiasi interpretazione non conforme alla linea occidentalista. Le reti di Stato (France‑Inter, France‑Culture, France 2, France 3, La 5, France‑Info eccetera) sono agenti particolarmente attivi – e incompetenti – del controllo dell’opinione geopolitica.
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Lettere dal Sahel XX
di Mauro Armanino
Il figlio della ricchezza
Niamey, giugno 2025. Questo sembra essere il significato del suo nome, Edwin, migrante liberiano sepolto oggi nel cimitero cristiano di Niamey sotto il sole. In inglese antico, ‘Figlio della Ricchezza’ o della Prosperità. Morto nell’ ospedale universitario della capitale dopo che Medici Senza Frontiere prima e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni poi, si occupino della sua malattia. Troppo tardi e a 32 anni Edwin ha terminato un viaggio e iniziato l’altro, l’ultimo, verso una terra sconosciuta. La famiglia, informata dell’accaduto, ha chiesto di poter vedere per foto il suo volto e la video della sepoltura.
Era in Algeria e, certamente espulso e deportato, ha raggiunto Assamaka, la prima città nigerina passata la frontiera desertica dell’Algeria. Malato è stato condotti ad Arlit, chiamata piccola Parigi molti anni fa, Agadez il polo migrante e, viste le peggiorate condizioni di salute, l’ospedale di Zinder, prima capitale del Niger. Da lì il vano tentativo di tenerlo in vita nell’ospedale universitario di Niamey. La prima migrazione di Edwin si è fermata tra la sabbia e il vento del Sahel e, da martedì scorso, ha continuato con quella più impegnativa di tutte giacché non si trova in nessuna carta geografica.
Edwin, ‘Figlio della Ricchezza’, secondo l’etimologia classica del nome. Figlio dunque come non mai quando, stamane, nudo come alla nascita, il corpo offerto per l’ultimo segno di rispetto, la pulizia, prima di essere posto nel feretro di legno.
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La proiezione militare di Israel
di Gaetano Colonna
In Europa si cammina sul filo del rasoio di uno scontro diretto fra Nato e Russia, che qualcuno a quanto pare vuole assolutamente. Nel frattempo, lo Stato di Israele, sicuro oramai della impunità derivante dall’impotenza delle organizzazioni internazionali e del persistente cieco appoggio da parte degli Stati Uniti d’America, sta quindi sfruttando a fondo il momento favorevole per affermarsi come una forza politico-militare egemone in un’area che va oramai dal Golfo Persico fino al Mediterraneo centrale
Per rendersene conto, basta ricostruire gli avvenimenti svoltisi in circa 72 ore, tra l’8 e il 10 settembre scorsi: un arco di tempo nel quale Israele ha attuato con discreto successo ben sei distinte operazioni militari, alcune della quali proiettate a migliaia di chilometri di distanza.
1) Striscia di Gaza: lunedì 8 settembre, 67 persone vengono uccise e gli ospedali ricevono 320 feriti, tra cui 14 persone, uccise mentre cercavano di procurarsi generi di prima necessità; altre 6 persone – tra cui 2 bambini – muoiono per cause legate alla carestia. Martedì, altre 83 persone vengono uccise e 223 ferite.
Israele continua poi il suo attacco su Gaza City, prendendo di mira grattacieli, distruggendo infrastrutture e costringendo i residenti ad abbandonare le loro case, lasciando molti senza un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
Dal suo inizio, le operazioni di guerra di Israele su Gaza hanno ucciso almeno 64.656 persone, tra le quali almeno 404 sono morte di fame. Migliaia di altre persone risultano disperse sotto le macerie e si ritiene siano morte.
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