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I robot cinesi alla conquista del mondo
di Vincenzo Comito
Complice il problema del progressivo invecchiamento della popolazione e le previsioni di drastico calo demografico, Pechino sta investendo molto per azzerare il divario tecnologico e diventare leader anche del settore della robotica
Premessa
Un’analisi anche sommaria degli sviluppi in atto nel settore della robotica presenta un rilevante interesse, permette, tra l’altro, di intravedere alcune tendenze importanti sul fronte dell’evoluzione tecnologica, nonché sulla gara tra i vari Paesi – in particolare sul ruolo sempre più ingombrante della Cina e dell’Asia – e infine accende un faro sull’influenza delle nuove macchine nel mondo del lavoro.
Per molti decenni le grandi promesse relative allo sviluppo della robotica sono andate per la gran parte deluse; nonostante qualche avanzamento, i singoli prodotti si presentavano sul mercato come molto costosi, ingombranti, rigidi, limitati in genere ad un solo compito. Così se pure è vero che il business è certamente cresciuto nel tempo, lo ha fatto meno di quanto ci si aspettasse. Le attese fantasiose dei media e dell’opinione pubblica in merito alle meraviglie dei robot, nonché quelle negative dei lavoratori e dei sindacati sulle conseguenze relative ai livelli di disoccupazione che l’introduzione di tali macchine avrebbe comportato non si sono, sino a ieri, materializzate che in misura molto ridotta.
Gli sviluppi tecnologici
Poi, lentamente, le cose hanno iniziato a cambiare. I robot si sono fatti sempre meno ingombranti, meno costosi, molto più flessibili e il mercato è progressivamente decollato. Ora le prospettive di sviluppo, con le conseguenze del caso, sembrano molto rilevanti.
Tradizionalmente è stato il settore industriale, a cominciare dall’auto, a fare la parte del leone sul mercato, mentre più di recente, accanto all’impiego in linea, i robot vengono sempre più utilizzati in attività sussidiarie, quali quelle del magazzinaggio e della logistica.
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VENEZUELA. Machado premio Nobel
Le voci dal Paese sotto assedio
di Geraldina Colotti
Un operaio italiano di grande esperienza, che vede le cose “dall’alto” perché, da scalatore professionista, fa lavori in quota, ha commentato l’attribuzione del Nobel alla golpista venezuelana, Maria Corina Machado, servendosi di un proverbio turco: “E gli alberi votarono ancora per l’ascia, perché l’ascia era furba e li aveva convinti che era una di loro, in quanto aveva il manico di legno” .
Identica saggezza si riscontra anche “dal basso”, qui in Venezuela: fermo restando che il termine “dal basso”, riferito alle classi popolari, farebbe inorridire gli storici che si dedicano al recupero della “historia insurgente”, intesa come scontro materialistico di interessi di classe, soggetta a vittorie e sconfitte, ma non al confinamento di chi produce la ricchezza nella categoria rassegnata di quelli “che stanno in basso”, giacché lottano per farsi potere popolare.
A certe latitudini dove i “dannati della terra” hanno la pretesa di governare, non è una sottigliezza ideologica: qui, una scure è una scure. Lo sanno i lavoratori argentini, che cercano di rovesciare la “motosega” calata sui diritti dal trumpista Milei. E lo sanno i lavoratori venezuelani, che ben intendono il programma politico della trumpista Machado, ammiratrice di Netanyahu, al quale ha pubblicamente chiesto di fare contro i chavisti, “lo stesso lavoro che ha fatto a Gaza”. Infatti, si sa che le bombe distinguono tra i bambini dei chavisti e quelli di opposizione, che si devono preservare…
E, infatti, il popolo identifica Machado, che da anni chiede e organizza violenze e “sanzioni”, con il personaggio della Sayona, una delle figure più famose e terrificanti del folklore venezuelano. Un’apparizione spettrale che fa parte delle leggende metropolitane e rurali del paese, rievocata a ogni apparizione di Machado sui palcoscenici internazionali per chiedere ai suoi padrini occidentali: “Più sanzioni”. Ovvero, più sofferenze da infliggere al popolo venezuelano per spingerlo a rinnegare il socialismo, a cui rinnova la fiducia da 26 anni.
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Il “piano di pace” di Trump è una truffa
di Fabrizio Marchi
A due anni dall’inizio della carneficina di Gaza l’attuale capo politico dell’impero occidentale (ma ricordiamo sempre che nell’Occidente non è la politica a comandare ma il capitale che sta dietro le quinte) ha deciso che Netanyahu e la sua banda di nazisti assassini, per ora, devono darsi una calmata e addivenire a degli accordi, con chi e perché, lo dirò fra poco. Ma è e sarà vera pace? La risposta è ovvia ed è no, perché si tratta di una trappola per i palestinesi.
Vediamo cosa c’è dietro questa “proposta di pace”.
Il Medio Oriente è un’area strategica per gli Stati Uniti, per questioni economiche, commerciali, energetiche e geopolitiche, di conseguenza non possono mollarla, costi quel che costi. Andiamo per ordine.
La Palestina è, diciamo così, l’ultima “stazione” dell’IMEC (India-Middle East-Europe Economic Corridor), meglio conosciuta come “Via del Cotone”. La “Via del Cotone” è una grande rete di infrastrutture, ferrovie, porti, strade, pipeline, gasdotti, corridoi digitali ed elettrici che parte dall’India e arriva fino all’Europa passando, appunto, per la Palestina e da lì in Europa. Un progetto gigantesco finalizzato, oltre che alla crescita economica e commerciale dei paesi interessati, al trasporto di una enorme quantità di merci dall’India, come dicevo, fino all’Europa. Gli stati che hanno promosso questo progetto sono Stati Uniti, Unione Europea, Francia, Germania, Italia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
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Ciò che precede
Appunti intorno a Finché la vittima non sarà nostra di Dimitris Lyacos
di Andrea Carnevale
La tempesta primordiale
L’Angelus Novus di Klee è per Benjamin la figura della storia che avanza inesorabile, sospinta dalla tempesta primordiale, e distrugge inevitabilmente ad ali spiegate ogni cosa. Il suo volto guarda all’indietro, capace solo di contemplare le macerie che si lascia alle spalle. Finché la vittima non sarà nostra pare evocare proprio questa figura. Pare soltanto però, perché l’Angelo della storia di Benjamin è una metafora, il nuovo libro di Lyacos —salvo che per un unico aspetto, su cui occorrerà tornare — no.
Il lettore inizia così a cercare nel caleidoscopio delle categorie letterarie quella, o quelle, entro cui poter inserire l’opera per riuscire a definirla: distopia, favola nera, opera mondo… Nomi della letteratura. Ma Finché la vittima non sarà nostra gli scappa via, è uno strano liquido che, appena lo si prova a versare in qualche contenitore letterario, si rapprende, si solidifica, si oppone.
Più facile allora concentrarsi sul contenuto. E qui non si può sbagliare: l’opera ha per oggetto e tema la violenza. Facile. No, difficile: quale violenza? Nelle diverse inquadrature, nell’autonomia (che non è indipendenza) dei capitoli, la violenza messa in scena da Lyacos (in un procedere assemblato che è insieme testimonianza e rappresentazione) progredisce infatti reinventando sé stessa: dal cannibalismo all’omicidio religioso, dalla guerra dall’esilio e dalla tortura fisica alla rarefatta coercizione della Legge, dalla disciplina carceraria e dall’isolamento al massacro industriale e al lavoro forzato.
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La “democrazia” occidentale va al patibolo
di Dante Barontini
Zitto zitto, quatto quatto, è saltato il tappo che conteneva il malessere sociale nella gabbia della passività E altrettanto in silenzio – ufficiale, per lo meno – è saltato il mantra che descriveva il “guardino occidentale” come “democrazie” contrapposte, soprattutto sul piano valoriale, alle “autocrazie”.
Ci avete fatto caso? Non c’è più un ospite di talk show che provi ad avventurarsi su questo terreno paludoso…
il “merito” – si fa per dire – è del veloce scivolamento delle istituzioni occidentali, al di qua e al dà dell’Atlantico.
In Gran Bretagna il governo sedicente “laburista” di Starmer do la caccia agli attivisti per la Palestina arrestando sia in strada a che a casa, anche quando vivono ormai in carrrozzella.
In Francia il banchiere Macron, forse sulla porta d’uscita dall’Eliseo, ha fatto sempre caricare qualsiasi protesta con grande profusione di flashball ad altezza d’uomo e manganellate come se piovesse.
In Italia si risparmia sulle flashball, ma per nulla sulle manganellate, al punto che gli agenti di polizia si colpiscono spesso tra loro ma comunque rimediano qualche giorno di “malattia” grazie a medici e superiori compiacenti.
In Germania le cose non vanno meglio, con un plus idologico paranazista che anticipa l’arrivo al potere dei nazisti veri (ormai al 30% nei sondaggi), che si troveranno un mega-riarmo già apparecchiato per ricreare “il più forte esercito d’Europa”.
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Ecco perché Ursula Von Der Leyen doveva essere sfiduciata
di Umberto Franchi
Le mozioni di sfiducia presentate il 6 ottobre con le motivazioni sono due: la prima, sui dazi in quanto è stata firmata la resa commerciale dell’Europa; la seconda in quanto la Commissione Europea presieduta dalla Von Der Leyen è complice nel genocidio commesso a Gaza dagli Israeliani.
Ma vediamo razionalmente la storia di ciò che è avvenuto e le motivazioni.
DAZI USA
Allo stato attuale non è chiaro se la guerra commerciale voluta da Trump abbia come fine la nuove barriere commerciali protezionistiche per arginare la concorrenza mondiale o anche come mezzo di intimidazione internazionale al fine di altri obbiettivi politici. Sta di fatto che le potenze giunte ai patti con Trump come l’Unione Europea, il Giappone, Cora del Sud, ed in parte la Gran Bretagna (ma non la Cina) , hanno ceduto alle sue principali richieste e subiscono un significativo aumento dei dazi , uscendo dal confronto con gli USA con “le ossa rotte”.
La storia dei dazi da quando Trump è diventato Presidente, ha visto: prima ad aprile, la dichiarazione di guerra commerciale “Liberation Day”, ma al primo panico finanziario aveva proclamato una tregua di tre mesi.
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Dopo le grandissime giornate di lotta del 3 e 4 ottobre
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Dopo le grandissime giornate di lotta del 3 e 4 ottobre: ora bisogna continuare e andare fino in fondo, per dare maggior forza alla resistenza del popolo palestinese e buttare giù dalle piazze il governo Meloni
Molti, per prime le organizzazioni palestinesi, hanno fatto ricorso al termine “storico” per definire le magnifiche giornate di lotta del 3 e 4 ottobre. Forse è prematuro. Ma lo sciopero generale politico – vero! – per la Palestina proclamato inizialmente dal SI Cobas, e poi assunto dalla Cgil e dall’Usb, e i giganteschi cortei di Roma e Milano segnano con certezza un grande risveglio sociale e politico.
La solidarietà con la Palestina e – in misura assai minore – con la resistenza del popolo palestinese è diventata finalmente un fenomeno di massa. Anzitutto in una nuova generazione di giovani e giovanissimi fino a poco tempo fa apparentemente del tutto passivi, atomizzati, apolitici. In gran parte giovane proletariato candidato a precarietà e assenza di futuro: figli/e dell’immigrazione e italiani doc, che sempre più si sentono immigrati in quella che è, sulla carta d’identità, la “loro” terra. E poi settori significativi della classe lavoratrice salariata – oltre i facchini della logistica, ferrovieri, portuali, autisti dei trasporti locali, operai/e e impiegati/e dell’industria (non in prima fila, però), docenti delle scuole (molti), infermieri e medici, dipendenti di enti pubblici. Accanto a loro, e trainati da loro, settori di “popolo”, inclusi singoli elementi di quelle classi medie accumulative che sono schierate in forza con il governo e i poteri costituiti filo-sionisti.
Ciò che ha unito questa variegata composizione sociale è un mix di conscio e di inconscio. Il rifiuto consapevole del genocidio in corso a Gaza a opera del governo e dell’esercito di Israele in quanto inumano. L’ammirazione, ma non sempre consapevole, della forza, del coraggio, della dignità, del popolo palestinese. Il sentimento ancora meno consapevole, se ci riferiamo alla maggioranza dei manifestanti, di appartenere al mondo degli oppressi – che i settori più coscienti del movimento hanno espresso con il “siamo tutti palestinesi”, cogliendo l’unità di destino tra il popolo palestinese e gli sfruttati delle metropoli europee e occidentali.
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L’Europa e la giungla
di Carlos X. Blanco
Proponiamo la traduzione in italiano del’articolo di Carlos X. Blanco, pubblicato originariamente in spagnolo sul numero 452 della rivista El Viejo Topo-
I paesi occidentali dormono, e questo sonno è il pisolino che precede la notte più lunga: la notte dell’estinzione.
Dormono, il che significa disconnessione dalla realtà. Il pisolino è profondo, poiché quasi tutti si trovano di fronte a immagini che soppiantano la realtà, immagini che assomigliano a “una” realtà ma che in ultima analisi li allontanano da essa. Ma soprattutto, molte minacce e molti pericoli incombono su di loro.
I paesi occidentali si sono addormentati con la tranquillità che deriva dalla consapevolezza che qualcuno veglia su di loro. Quel qualcuno, l’Impero della Bandiera Stellata con le Strisce, non ha mai protetto noi europei in nessun momento. Quell’impero è nato rubando terre, attaccando paesi e massacrando popoli [vedi A. Scassellati, El Imperio Oculto: El expansionismo criminal estadounidense, Ratzel, 2025, anche in italiano qui]. Soltanto l’alienazione dei popoli sconfitti e colonizzati, e diversi decenni di propaganda e di violazione delle menti, spiegano perché la sorveglianza armata e la protezione dei “vecchi europei” furono interpretate come ciò che in realtà significava occupazione militare e subordinazione in tutti gli altri ambiti (politici, economici e culturali).
Quindi, il lettore mi permetterà di continuare con la metafora. Forse i paesi d’Europa, ormai convertiti all'”Occidente”, in senso stretto, non si sono addormentati? Forse è meglio svegliarsi e verificare cosa è realmente accaduto: che qualcuno ci ha versato un narcotico nel bicchiere.
L’Europa turbolenta e criminale delle “potenze” è andata in pezzi nella lunga guerra civile del 1914-1945. Gli imperi europei hanno sprecato milioni di vite e rovinato la gioventù di diverse generazioni in trincee e campi di battaglia, lande desolate e cimiteri dove il nazionalismo è diventato un sostituto mortale della religione.
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La bolla dell’intelligenza artificiale sta per scoppiare
di Andrea Daniele Signorelli
“Siamo entrati in una fase in cui gli investitori, nel complesso, sono eccessivamente entusiasti nei confronti dell’intelligenza artificiale? Secondo me, assolutamente sì”, ha affermato il fondatore di OpenAI Sam Altman. Parole non dissimili sono arrivate da Mark Zuckerberg, secondo il quale “è certamente una possibilità” che si stia formando una grande bolla speculativa. Da ultimo, anche Jeff Bezos ha rilasciato dichiarazioni simili.
Quando le stesse persone che, tramite le loro risorse, stanno favorendo lo sviluppo e la diffusione di una tecnologia si preoccupano della situazione finanziaria, significa che il rischio, come minimo, è concreto – anche perché le loro aziende risentirebbero più di ogni altra dei rovesci causati dallo scoppio di una bolla.
D’altra parte, basta osservare i numeri: per il momento le immense quantità di denaro che sono state investite per l’addestramento e la gestione dei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM – Large Language Model) non stanno producendo risultati economici degni di nota. Peggio ancora: non è per niente chiaro quale possa essere un modello di business sostenibile per ChatGPT e i suoi compagni, e ci sono anche parecchi segnali che indicano come tutto l’hype (non solo finanziario) nei confronti dell’intelligenza artificiale potrebbe rivelarsi una colossale delusione (come indicano le ricerche secondo cui le aziende che hanno integrato l’intelligenza artificiale non hanno visto praticamente alcun effetto positivo).
Se le cose andassero così, all’orizzonte non ci sarebbe solo lo scoppio di una gigantesca bolla speculativa, ma la fine – o almeno il drastico ridimensionamento – di una grande promessa tecnologica, che fino a questo momento non sembra essere sul punto di lanciare una “nuova rivoluzione industriale”.
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Gaza: la Pax Americana
di Alex Marsaglia
In queste ore le abilità diplomatiche di Trump, che avevamo già visto durante il suo primo mandato sulla questione coreana, si sono nuovamente rivelate. Dopo aver messo assieme una coalizione di Stati arabi di peso per il Medio Oriente tra cui Qatar, Egitto e Turchia e aver portato al tavolo delle trattative Hamas e Israele sui 20 punti proposti è riuscito a ottenere la firma sulla prima fase di attuazione dell’accordo.
La Pax Americana
I principali punti riguardano lo scambio di prigionieri, il cessate il fuoco con il ritiro delle forze dell’IDF sulla linea gialla all’interno della Striscia di Gaza e l’apertura di cinque canali umanitari. Hamas e Israele cercano di portare a casa rivendicazioni vittoriose, con la prima che annuncia di non rinunciare alla libertà, indipendenza e autodeterminazione della Palestina, anche se Israele che si attesterà sulla “linea gialla” avrà derubato metà della terra palestinese di Gaza. Viceversa Netanyahu ha definito l’accordo una “vittoria nazionale e morale”, ma in questa prima fase non ha ottenuto né lo scioglimento di Hamas né il controllo su Gaza City e deve ancora far passare il piano di pace sotto l’ala oltranzista del suo governo. Insomma, come da 77 anni a questa parte, la pace da queste parti sembra soltanto una tregua dell’opera di colonizzazione israeliana che prosegue di missione in missione.
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Tendenze della guerra globale: la depurazione dei fronti interni negli Stati Uniti e in Palestina
di Antiper
Esiste oggi un riconoscimento quasi unanime sul fatto che il dominio strategico – economico, finanziario, militare, culturale – del Nord Globale [1] stia per finire e che stia nascendo una nuova configurazione multipolare del sistema-mondo. Si tratta di uno scenario da incubo per l’imperialismo che su quel dominio aveva fondato la propria capacità di contrastare la tendenza storica al declino del saggio di profitto nei settori produttivi.
In una prima fase la cosiddetta “globalizzazione” aveva permesso al Nord Globale di conservare alti livelli di rendita finanziaria e di consumo di massa, nonché di contrastare la sovrapproduzione di merci e capitali che si era manifestata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 e che aveva concorso a spingere Nixon verso il famoso “shock” del 1971.
Ma alcune aree del Sud Globale sono riuscite a sfruttare le opportunità derivanti dalle delocalizzazioni occidentali per far crescere le proprie economie e la propria indipendenza (politica, tecnologica…). L’esempio della Cina è eclatante.
Con il Nord Globale che declina e il Sud Globale che emerge la crisi dell’imperialismo accelera e con essa accelera la tendenza a ricorrere alla guerra come estrema ratio per conservare il proprio dominio. Quando infatti non si riesce più a dominare con le buone diventa inevitabile tentare di dominare con le cattive. L’avanzata della NATO verso la Russia si spiega come mossa preventiva in un’ottica di guerra per la distruzione di una potenza che dopo la fase servile degli anni ’90 aveva deciso di ricostruire la propria potenza politica.
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L’arte di governo è eludere le responsabilità
di comidad
Al di là dei contesti radicalmente diversi, si può riconoscere lo schema ricorrente, l’invarianza; che in questo caso è la cosiddetta “arte di governo”, ovvero l’eludere le proprie responsabilità tramite il vittimismo, la contrapposizione pseudo-ideologica e la gazzarra da talk-show. L’arte di governo è trasversale ai vari governi e ai differenti schieramenti politici, che convergono nella pratica di non precisare i confini tra lecito e illecito. La trasparenza della contestazione e della sanzione dell’eventuale illecito viene sostituita con una generica colpevolizzazione dei cittadini, con la quale giustificare pressioni indebite, terrorismo psicologico e discriminazioni. In epoca psicopandemica si è costruito su queste basi di incertezza giuridica e linguistica una sorta di virtuale obbligo vaccinale, la cui attuazione è stata condotta con strumenti arbitrari di limitazione dei diritti civili. Persino quando l’obbligo vaccinale è stato apparentemente proclamato per legge, si è però continuato nella farsa di voler estorcere la firma al “consenso informato”, negando la somministrazione del siero a coloro che volevano aderire all’obbligo manifestando chiaramente il proprio dissenso. L’ossimoro dell’obbligo che presuppone il consenso, è stato però avallato e santificato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 14/2023, per cui si è creata una sorta di giurisprudenza in funzione dell’irresponsabilità del governo e della colpevolizzazione generica del cittadino comune. Lo schema funziona all’incontrario del famoso aforisma dell’Uomo Ragno, perché più potere si ha e più si riesce a scaricare sugli altri ogni responsabilità.
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Da una debacle all’altra: forse si apre il confronto nel M5S
di Gerardo Lisco
Dalla crisi dei consensi al Sud alla chiusura oligarchica: il Movimento 5 Stelle di fronte al proprio modello organizzativo.
Un movimento nato dal marketing politico
Una riflessione sul voto delle regionali in Calabria non può prescindere da un’analisi del Movimento 5 Stelle. Il movimento fondato come una pura e semplice operazione di marketing dal duo Grillo-Casaleggio nasce da una costola di Italia dei Valori e, come ha spiegato Antonio Di Pietro in un’intervista rilasciata a l’Espresso, è destinato — salvo sterzate dell’ultimo momento — a fare la stessa fine.
Il M5S, stando ai dati elettorali, si presenta come un movimento politico meridionale, il che non equivale a dire “meridionalista”. È passato dal 25,55% delle politiche del 2013 al 15,43% del 2022, perdendo in nove anni circa la metà degli elettori: da 8,7 a 4,3 milioni di voti.
Dalla crescita al Mezzogiorno al crollo nazionale
Nel 2013 il M5S registrava una percentuale omogenea in tutte le circoscrizioni, raramente al di sotto del 20%, con una media intorno al 25%. Il quadro cambia radicalmente nel 2018: al Nord il movimento conferma i dati del 2013, mentre nel Mezzogiorno supera il 40%, con punte prossime al 50%.
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Contro il militarismo e la logica del nemico, la nostra parte non è già data
di Fabio Ciabatti
∫connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00
Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”. Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente”, assumono particolare rilievo in considerazione della tragica scelta che deve affrontare Hamas, insieme alle altre formazioni armate palestinesi, di fronte al cosiddetto piano di pace di Trump: continuare la lotta armata facendo proseguire l’immane carneficina o arrendersi per interrompere il supplizio che comunque proseguirà, anche se, presumibilmente, con tempi più lunghi e modalità meno feroci. La resistenza palestinese sembra davvero trovarsi di fronte a una drammatica impasse. E allora, per non lasciarsi bloccare in questo vicolo cieco può essere utile adottare uno sguardo diverso nei confronti della coraggiosa lotta della popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) con l’obiettivo di prefigurare possibili via di fuga dal tragico stallo a cui sembra destinata. Anche perché bisognerà in qualche modo approfittare delle condizioni tutt’altro che ideali in cui si trova oggi lo stato sionista, lacerato da profonde contraddizioni interne e investito da una diffusa condanna internazionale.
Certo, di fronte a un genocidio, ci si può legittimamente chiedere se sia possibile mantenere uno sguardo lucido sugli aspetti critici della resistenza palestinese senza divenire complici dei carnefici israeliani. O senza scadere in un eurocentrismo che solidarizza con i popoli oppressi solo finché non si ribellano perché, con i mezzi a loro disposizione, raramente lo possono fare rispettando il preteso bon ton occidentale. Sicuramente, non teme di andare controcorrente rispetto all’opinione diffusa nella sinistra, compresa quella radicale, l’autore collettivo che ha dato alle stampe il testo qui recensito. Si tratta di ∫connessioni precarie, un’area politica che assume come obiettivo centrale della sua analisi e della sua attività pratica la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo che è sottoposto all’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo.
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Contro il diritto internazionale
di Jacques Bonhomme
1. Il diritto internazionale come ideologia
Il diritto, nel senso più lato della parola, e guardando alla società borghese, non è soltanto ideologia. Pašukanis, per esempio, ha mostrato, in relazione al mondo storico della borghesia, la necessaria cooperazione del diritto con le forme economiche fondamentali del contratto proprietario, dello scambio delle merci e della disumanizzazione capitalistica del lavoratore, rivestito dell’uguaglianza delle merci in quanto merce forza-lavoro, la merce più importante, quella che deve produrre il valore delle merci. Perciò il diritto, fin dagli inizi della società borghese, è stato coessenziale alla produzione di valore, ossia di plusvalore attraverso plus-lavoro. Per questo Pašukanis fa rientrare il diritto nell’economia politica, e, contemporaneamente, lo sottrae alla sfera dell’ideologia, dove era stato confinato da interpretazioni frettolose, schematiche e soprattutto riduttive del materialismo storico. Questa accorta e lungimirante comprensione del pensiero di Marx sul diritto, non è rimasta isolata e marxisti molto diversi tra loro come l’ultimo Lukács e Toni Negri, ne hanno raccolto l’eredità, il primo in modo indiretto e seguendo un proprio cammino, il secondo in modo più esplicito. Sembra quindi assodato che quanto già sapevano, seppur senza un ampio sviluppo tematico, Marx e Lenin, e cioè che il diritto e lo Stato sono fattori organizzativi interni ai rapporti di produzione capitalistici, sia divenuto nella prassi e nel pensiero dei movimenti antimperialisti del Novecento, a seconda dei casi più o meno permeati dal marxismo, un’acquisizione ben assimilata. In conclusione, il diritto eccede l’ideologia in quanto è, insieme allo Stato, nel quale confluisce e dal quale procede, uno strumento materiale del dominio di classe, sia nazionale che internazionale.
Ma il diritto è anche ideologia, è una delle forme originarie dell’ideologia borghese, è scaturito dal modello delle dichiarazioni del XVIII secolo, e perciò è ideologia in quanto contraffazione del particolare interesse di classe borghese attraverso i fini e gli ideali generali – o universali – dell’homme e del citoyen.
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Homo homini lupus?
di Roberto Fineschi*
Smotrich avrebbe dichiarato: “Il diritto internazionale non si applica agli ebrei. Questa è la differenza tra il popolo eletto e gli altri”.
Si tratta evidentemente di una dichiarazione suprematista, atteggiamento già di fatto praticato nello sterminio in atto, ma qui c’è un passo in più: rivendicare formalmente di essere al di sopra di una legge uguale per tutti significa rinnegare l’universalismo, ovvero il pari diritto di individui e popoli a un trattamento analogo di fronte a essa.
Si rinnega in sostanza la civiltà del diritto, uno dei risultati più avanzati del mondo democratico prodotto dall’Occidente.
È il motivo per cui non si concede il termine genocidio: l’olocausto (in questa prospettiva alla quale fortunatamente molti ebrei non aderiscono) non è un crimine contro l’umanità, ma un crimine contro gli ebrei, una prevaricazione contro un popolo in quanto tale, non in quanto espressione del genere umano. Dunque, per coerenza, lo stesso crimine perpetrato verso altri non è lo stesso crimine perché non è l’atto in sé che conta, ma il soggetto contro cui viene perpetrato.
Senza girargli intorno: è semplicemente la legge del più forte e il “diritto” è di chi riesce a imporla.
Questo modo di ragionare ha ovviamente delle controindicazioni: se qualcuno volesse ripagare con la stessa moneta un domani a che cosa ci si potrebbe appellare per dire che non è giusto? Perché gli altri dovrebbero muoversi in difesa degli offesi? In base a quale criterio condannare chi in passato non si è mosso in difesa degli offesi se ciò dipende non dal principio ma dalla particolarità di chi subisce violenza?
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Piano di pace, piano di resa o piano della disperazione?
Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=0e-Ihl2BeO4
https://youtu.be/0e-Ihl2BeO4
(Nel video inquadrature alternative alla vulgata sul Piano di Pace)
L’etichetta che invita a comprare è “Piano di pace”, la sostanza dentro all’involucro è “Piano di resa incondizionata”, il nocciolo della proposta è “Piano della disperazione”.
Hamas e le altre componenti della Resistenza hanno ovviamente dato disponibilità al “Piano di Pace”. Non farlo avrebbe potuto far pensare che il loro è un cinico accanimento sulla guerra a spese dell’olocausto in atto del loro popolo. E’ palese, con Hamas, l’esistenza di una formazione bicefala, con una dirigenza, da anni a Doha, incline ad ascoltare con attenzione gli indirizzi dell’emiro che la ospita, e i più autonomi successori di Hanijeh e Sinwar sul campo di battaglia a Gaza (presenti con minore evidenza anche in Cisgiordania). Consapevoli, questi ultimi, di essere il fattore determinante perché il piano sia stato innescato, se non dalla disperazione, da un’urgenza di sopravvivenza del progetto sionista, con relative ripercussioni sul futuro del Grande Israele e, più in là, della restaurazione colonialista nell’area e in generale.
Il piano del trinomio Trump-Netanyahu-Blair arriva a poca distanza da quando, secondo la delicata definizione euro-atlantica, Israele stava terminando il “lavoro sporco” a Gaza e in giro per il Medioriente.
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“Chi c'è dietro, chi c'è dietro?” L'Algoritmo del Sospetto: 10 passaggi per dimostrare che il gatto ti sta manipolando
di Geraldina Colotti
In un eccellente libro intitolato La era del conspiracionismo (L'Epoca del complottismo), Ignacio Ramonet analizza, in prospettiva storica e attuale, come le teorie complottiste, diventate potenti armi ideologiche e politiche, stiano sempre più occupando spazio. A favorirle, sono le reti sociali, terreno fertile per la veloce diffusione di fake news che, con il loro continuo bombardamento, alimentano l'ossessione e il fanatismo dei dietrologi: per loro, c'è sempre “qualcosa dietro” e, va da sé che loro sanno sempre chi sia.
Smontare la granitica convinzione di un terrapiattista dimostrandogli che la terra è rotonda, è fatica di Sisifo, giacché ti dirà che la scienza è frutto di un grande complotto, eccetera eccetera. La società statunitense, dice Ramonet, concentrandosi soprattutto sull'assalto al Campidoglio del primo governo Trump, è stato lo scenario più propizio per questa vecchia strategia, e il presidente Trump il suo artefice.
Al proposito, però, l'Italia non ha nulla da invidiare, essendosi allenata sul tema per tutto il grande ciclo di lotta degli anni '70. Già prima del 1973 – quando, dopo il golpe in Cile contro Allende, Berlinguer riconobbe la Nato e lanciò il “compromesso storico” con la Democrazia cristiana – il Pci chiamava “fascisti rossi” i movimenti studenteschi e operai che ne contestavano, dall'estrema sinistra, l'autorità. Era, ovviamente, un modo per delegittimare politicamente e moralmente chi metteva in questione la “stabilità democratica” che il Partito comunista più forte d'Europa andava assumendo come dogma.
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Una nuova politica estera per l’Europa
di Jeffrey Sachs
1. Russia, storia di una minaccia inventata
L’economista di Columbia University smonta la narrazione occidentale della Russia come potenza espansionista
L'Europa è intrappolata in una crisi di sicurezza ed economica, guidata dalla paura di Russia e Cina e dalla dipendenza dagli Stati Uniti. In questa prima puntata del suo saggio «Una nuova politica estera per l’Europa», il professor Jeffrey Sachs sfida la narrazione della Russia come minaccia esistenziale per l’Europa. Ricostruendo gli episodi chiave della storia russa, dall’attacco alla Prussia orientale nel 1914 all’invasione dell’Ucraina del 2022, mostra come la percezione di un’«aggressività russa» sia storicamente distorta. E sostiene che le azioni di Mosca erano dettate da motivazioni difensive, non imperialistiche
L’Unione Europea ha bisogno di una nuova politica estera fondata sui veri interessi economici e di sicurezza del continente. Oggi l’Europa si trova in una trappola economica e di sicurezza in gran parte auto-inflitta: ostilità pericolosa con la Russia, diffidenza reciproca con la Cina e una vulnerabilità estrema nei confronti degli Stati Uniti. La politica estera europea è ormai guidata quasi interamente dalla paura di Russia e Cina — una paura che ha prodotto una dipendenza di sicurezza dagli Stati Uniti.
La subordinazione dell’Europa a Washington deriva quasi esclusivamente dal timore, ingigantito, della Russia: un timore amplificato dai Paesi dell’Est con una forte impronta russofoba e da una narrazione distorta della guerra in Ucraina. Convinta che la minaccia alla propria sicurezza venga innanzitutto da Mosca, l’Ue sacrifica tutti gli altri aspetti della propria politica estera – economia, commercio, ambiente, tecnologia e diplomazia – agli interessi statunitensi. Ironia della sorte, si stringe a Washington proprio mentre gli Stati Uniti diventano più deboli, instabili, erratici, irrazionali e persino pericolosi nel loro approccio verso l’Europa, fino a minacciarne apertamente la sovranità (come avvenuto con il caso della Groenlandia).
Per tracciare una nuova politica estera,
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“Per chi suona la campana”: etica ed epica di un capolavoro della letteratura mondiale
di Eros Barone
«Tu vai spesso dietro le loro linee» disse Karkov. [...] «Preferisco il fronte» aveva detto Robert Jordan. «Più si è vicini al fronte e migliore è la gente.» «E ti piace startene dietro le linee fasciste?» «Moltissimo. Abbiamo della gente in gamba là.» «Ebbene, cerca di capire che anche loro debbono egualmente avere la loro gente in gamba dietro le nostre linee. Noi li troviamo e li fuciliamo, e loro trovano i nostri e li fucilano. Quando stai dietro le linee loro, devi sempre pensare a quante persone loro debbono aver mandato dalla parte nostra.» «Ci ho pensato.»
Ernest Hemingway, “Per chi suona la campana”, cap. XVIII, Milano 1985.
Tutta l’opera di Hemingway è una critica della società: egli ha risposto ad ogni spinta morale del tempo, così come si fa sentire alla base dei rapporti umani, con una sensibilità che quasi non ha eguali [...]
Edmund Wilson, “La ferita e l’arco”, Milano 1973.
Ernest Hemingway amava profondamente la Spagna e la considerava come la sua seconda patria. Questa predilezione spiega l’intensità dei sentimenti con cui partecipò, fin dal luglio 1936, alla guerra civile spagnola, schierandosi ai primi posti tra i sostenitori della repubblica, come molti altri antifascisti americani ed europei. Nel corso di quella drammatica vicenda egli fu anche testimone dell’aspra lotta politica, ideologica e personalistica che divideva gli esponenti del governo repubblicano, i capi militari, i partiti e i rappresentanti delle forze internazionali che partecipavano alla guerra. Il romanzo “Per chi suona la campana”, scritto nel 1940, non narra soltanto un episodio significativo di quella vicenda militare, ma rispecchia anche i motivi politici e morali che, secondo l’autore, ne avevano segnato il cattivo andamento. Tuttavia, benché questi aspetti siano oggetto di una ricostruzione attenta e puntuale, il romanzo attinge il suo significato pregnante alla luce di una prospettiva ideale più ampia, fin quasi a configurarsi, per la carica simbolica che lo anima, come una vera e propria allegoria.
Una concisa sintesi della narrazione si rende perciò necessaria. Mentre in Spagna infuria la guerra civile, Robert Jordan, un giovane professore americano, si arruola come volontario nell’esercito repubblicano.
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Baran e Sweezy e il Potere operaio
di Leo Essen
Che cosa sono i costi di produzione socialmente necessari quando la differenza tra fabbricazione e vendita è cancellata? Se il limite posto dai costi è variabile, persino aleatorio, indefinibile, cosa sono i prezzi se non cartellini arbitrari; che sono l’interesse, il surplus, le valute, i cambi e le bilance commerciali?
La struttura del capitalismo monopolistico, dicono Baran e Sweezy (Il capitale monopolistico), è tale che un volume continuamente crescente di surplus non si potrebbe smaltire attraverso canali privati: in mancanza di altri sbocchi, il surplus non sarebbe prodotto affatto.
La situazione in cui una parte del surplus prodotto non trova impiego profittevole è quella del capitalismo concorrenziale. In esso un eccesso di capitali che non trova condizioni favorevoli di valorizzazione produce disoccupazione e disimpego di impianti.
Il sistema del laissez-faire – la concorrenza – produce una quantità di capitali superiore alle possibilità di valorizzazioni offerte dal mercato. Fino al 1870 questo capitale in eccesso veniva distrutto. Il mercato poteva riprendere il suo regolare funzionamento solo dopo questa distruzione.
In condizioni di laissez-faire il mercato è una struttura autonoma indipendente dal desiderio e dalla volontà dei partecipanti. La concorrenza conduce i prezzi al limite dei costi socialmente necessari alla produzione della merce. C’è un limite indipendente oltre il quale il mercato boccia le offerte. Questa struttura indipendente determina contemporaneamente l’impiego dei fattori – lavoratori, clienti, fornitori, proprietari – e la distribuzione dei prodotti.
Dopo il 1870, e in maniera decisiva dopo la Grande Depressione (1873-1896), il sistema dei prezzi rappresenta un limite per la valorizzazione. I prezzi che il mercato impone alle imprese, e sotto i quali esse non possono scendere, non sono più sostenibili. Il mercato boccia il mercato. Meglio non produrre affatto che produrre in perdita. A meno che non si trovi un metodo per ingannare il mercato e superare la concorrenza.
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Perù in fiamme, Bolouarte sotto accusa: contestata all’ONU e nelle piazze
di Geraldina Colotti
All’ottantesima Assemblea Generale dell’Onu, la rappresentante del Perù, Dina Bolouarte, ha concluso il suo intervento a microfoni spenti. Guasto tecnico o sordina intenzionale? Intanto, fuori dal Palazzo di Vetro, si facevano sentire i peruviani risiedenti a New York. Come molti concittadini immigrati in altri paesi, i peruviani che vivono negli Stati uniti non hanno perso occasione per protestare contro quella che considerano non la presidente, ma un’”usurpatrice”, che governa dal 7 dicembre del 2022, a seguito di un “golpe istituzionale” contro il maestro Pedro Castillo. L’ex presidente è tutt’ora in carcere e i manifestanti, che hanno denunciato la dura repressione subita dal 2022 a oggi, inalberavano le foto delle oltre 80 vittime e chiedevano la liberazione di Castillo.
Altri feriti – giornalisti e giovani manifestanti – si sono aggiunti in questi giorni a Lima, a seguito dei violenti scontri con la polizia, che ha duramente contrastato la manifestazione del movimento “Generazione Z”. A scendere in piazza sono stati i ragazzi cresciuti nell’era digitale che si organizzano attraverso piattaforme virtuali, innalzando simboli culturali come la bandiera di One Piece. La bandiera di One Piece, o Jolly Roger, è l’emblema del protagonista dell’omonima serie manga e anime giapponese, creata da Eiichiro Oda. Nella serie, è il simbolo della ciurma di pirati guidata da Monkey D. Luffy. Indica libertà, avventura e ribellione contro il potere costituito dal governo mondiale, che i pirati li considera criminali.
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Il flop di DSP
di Fabrizio Marchi
Un mio amico appartenente a quella che fu l’area cosiddetta “sovranista” mi ha chiesto quali sarebbero le ragioni, secondo il mio punto di vista, dell’ultimo flop elettorale di DSP (la formazione guidata da Marco Rizzo e Francesco Toscano), nel caso specifico nella regione Calabria dove ha ottenuto circa lo 0,9% (c’è anche da considerare che è la regione di Francesco Toscano dove infatti era candidato). Questa di seguito è stata la mia risposta che ho pensato di rendere pubblica.
Qualche settimana fa ho ascoltato su Facebook un brevissimo video/spot di Marco Rizzo in cui testualmente diceva:”Ma quale invasione della Russia, qui l’invasione è quella degli immigrati!”.
Ora, posso capire l’esigenza della sintesi, di lanciare un messaggio breve ed efficace che faccia presa sull’elettorato ma questa è una frase che potrebbe stare in bocca al più inveterato leghista o a qualsiasi catenaccio di estrema destra, anche di un militante di Casapound o di Forza Nuova.
Un comunista o un socialista dovrebbero entrare un po’ più nel merito e spiegare quali sono le cause strutturali dell’immigrazione, e cioè lo sfruttamento e il saccheggio a cui sono sottoposti i paesi della periferia del mondo a opera dei paesi ricchi, cioè sostanzialmente dell’Occidente a guida USA ma anche di altri, penso ad esempio al Qatar o all’Arabia Saudita che vivono anch’essi sullo sfruttamento dei lavoratori immigrati oltre che dai proventi del petrolio.
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Migranti e capitale
di Alberto Giovanni Biuso
Il significato del marxismo come analisi volta a comprendere la realtà e come spinta rivoluzionaria a trasformarla sta anche e specialmente nel rifiuto costante che Marx oppose a ogni prospettiva moralistica e sentimentale, proponendosi invece di pervenire a una comprensione quanto più oggettiva e fredda del divenire storico e dei conflitti tra le classi.
Das Kapital rappresenta il vertice di questa intenzione che è stata ed è feconda non in quanto ‘scientifica’, aggettivo che ricorre spessissimo nei testi marxiani ma che ne mostra la dipendenza dal clima positivistico dell’epoca, bensì in un fitto ragionare e argomentare, fondato su una miriade di dati statistici, di analisi sociologiche, di resoconti evenemenziali. Tutti trasformati poi in categorie generali dell’economia politica.
C’è nel Capitale una sezione che affronta un argomento centrale per comprendere il funzionamento e gli obiettivi del modo di produzione capitalistico. Si tratta della VII sezione del I libro, più esattamente del § 3 del capitolo n. 23. Il titolo del capitolo è La legge generale dell’accumulazione capitalistica (Das allgemeine Gesetz der kapitalistichen Akkumulation), quello del paragrafo è Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva (Progressive Produktion einer relativen Übervölkerung oder industriellen Reservearmee).
In queste poche ma fondamentali pagine Marx applica la distinzione tra capitale costante (i macchinari e le materie prime) e capitale variabile (la forza lavoro, gli operai) alla relazione tra il plusvalore e i cicli di maggiore o minore impiego della forza lavoro, individuando in tale relazione una delle fonti più importanti dell’accumulazione capitalistica.
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Due anni, la Storia
di Enrico Tomaselli
Oggi sono passati due anni da quel fatidico 7 ottobre 2023, e ora che con il piano Trump si apre uno spiraglio – non ancora di pace per il Medio Oriente, ma forse di tregua per Gaza – si può fare un bilancio, anche se certamente non ancora definitivo. E poiché si tratta di una questione assai articolata e complessa, questo primo bilancio sarà diviso per comodità in due parti. In questo articolo esaminerò, sia sotto il profilo politico che militare, questi due anni di guerra, e soprattutto cosa ne emerge; in un articolo successivo invece esaminerò la vexata questio del via libera calcolato, da parte del governo israeliano, affinché l’attacco palestinese fungesse da giustificazione per il successivo genocidio. E cercherò di farlo non a partire da una posizione preconcetta – pro o contro questa tesi – ma da un esame quanto più oggettivo possibile, e sottolineo possibile, delle informazioni certe di cui a oggi disponiamo. Per il momento, mi limito a osservare che, se davvero l’operazione Al Aqsa Flood ha potuto essere messa in atto grazie a una decisione del governo di Tel Aviv, possiamo oggi affermare, con tutta evidenza, che in tal caso si sarebbe trattato della decisione più folle, più errata e più controproducente dell’intera storia di Israele.
Una delle cose che scrissi, nell’immediatezza dell’attacco palestinese del 7 ottobre, fu che quella operazione rappresentava la definitiva sconfitta politica del progetto sionista; e che, a quel punto, restava soltanto da attendere la sconfitta militare. Che, a due anni esatti di distanza, e anticipata da due fondamentali passaggi (il conflitto con Hezbollah, settembre-novembre 2024, e il conflitto con l’Iran, giugno 2025), è ora arrivata. Nell’arco di questo biennio, Israele ha semplicemente fatto a pezzi il progetto sionista, lo ha sbriciolato in un modo che rende semplicemente impossibile rimettere insieme i pezzi, e quando la spinta cinetica del conflitto si arresterà, la società israeliana sarà semplicemente squassata sino alle fondamenta dall’onda d’urto di questi due anni.Quando le formazioni combattenti della Resistenza palestinese lanciano l’attacco, il contesto geopolitico regionale – e non solo, ma questo al momento, lo lasciamo da parte – è caratterizzato fondamentalmente da due elementi.
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