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Sfere di sicurezza contro sfere di influenza
Una riconsiderazione dei confini delle grandi potenze
di Jeffrey D. Sachs
“Vorrei sostenere che le grandi potenze hanno ragione ad affermare una “sfera di sicurezza” nei rispettivi vicinati che le altre grandi potenze non dovrebbero violare, come ad esempio nessun allargamento della NATO all’Ucraina e nessuna base militare russa in Messico, ma che ciò è diverso da una “sfera di influenza” che potrebbe implicare il “diritto” degli Stati Uniti di interferire negli affari interni (non di sicurezza) del Messico o della Russia di interferire negli affari interni (non di sicurezza) dell’Ucraina. Sto pensando, in sostanza, a una Dottrina Monroe generalizzata e reciproca, ma non a un Corollario Roosevelt.”
Avvertenza: Alla fine dell’articolo potete leggere uno scambio di idee e considerazioni del Prof. Jeffrey Sachs con il Prof. John Mearsheimer.
Pochi concetti nelle relazioni internazionali sono così controversi come quello di “sfere di influenza”. Dalla spartizione coloniale del XIX secolo alla divisione dell’Europa durante la Guerra Fredda, le grandi potenze hanno ripetutamente rivendicato il diritto di intervenire nella politica, nell’economia e negli accordi di sicurezza dei loro vicini. Tuttavia, questo linguaggio familiare confonde due nozioni molto diverse: la legittima necessità delle grandi potenze di prevenire un accerchiamento ostile e la pretesa illegittima delle grandi potenze di interferire negli affari interni degli Stati più deboli. La prima è meglio descritta come una sfera di sicurezza, la seconda come una sfera di influenza.
Riconoscere questa distinzione è più che semantico. Chiarisce ciò che dovrebbe essere accettato come legittimo nella politica mondiale e ciò a cui si dovrebbe resistere. Aiuta anche a rivalutare dottrine storiche come la Dottrina Monroe e la sua successiva reinterpretazione nel Corollario Roosevelt, e fa luce sui dibattiti contemporanei tra Russia e Cina da un lato e Stati Uniti dall’altro in materia di sicurezza nazionale.
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Tutti con la Sumud Flottilla, contro i cacasenno e i provocatori
di Fulvio Grimaldi
Testo dell’appello sulla questione del podcast Radio Gaza de L’Antidiplomatico indirizzata alla direzione della testata.
INVIARE LE PROPRIE FIRME A
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Una, cento, mille flottiglie
Mentre in tutto il mondo si mobilitano milioni di persone per sostenere la Sumud Flottilla e da Gaza le voci di giornalisti, militanti della Resistenza, a partire dal FPLP, medici e comuni Gazawi si levano voci a favore di questa straordinaria iniziativa, Radio Gaza, in L’Antidiplomatico, opera un’azione di sabotaggio e delegittimazione dell’impresa.
Ricordando che intorno alla Flottilla , per supportarla si sono mobilitati artisti famosi, intellettuali, attivisti e cittadini sensibili alla causa palestinese,
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Reclutamento
di Leonardo Mazzei
La portata del piano di riarmo tedesco è enorme. Ma altrettanto gigantesca è la sua sottovalutazione. In tanti, sottolineando giustamente la difficoltà di adeguare le dimensioni della Bundeswher alla montagna di armi di cui verrà rifornita, concludono che alla fine tutto finirà in una bolla di sapone. Più esattamente in una mera operazione economica, utile a tener su l’economia in una fase in cui boccheggia, ma del tutto inadeguata al fine di far riemergere l’antica potenza militare di Berlino. Davvero stanno così le cose? Ne dubitiamo assai.
Ieri l’altro, il giornale Politico ha reso pubblico un promemoria classificato redatto dal capo dell’esercito tedesco, il tenente generale Alfons Mais, che espone il progetto di raddoppio degli effettivi entro il 2035. Il tutto “con l’obiettivo di diventare l’esercito dominante in Europa”. Così, tanto per cominciare.
In realtà i numeri di questo promemoria non rappresentano una novità, ma il fatto che qualcuno abbia deciso di renderlo pubblico un significato di sicuro ce l’ha. La svolta militarista ha bisogno dei suoi tempi e di un’ampia preparazione nella società, nella cultura e nella politica, ma la direzione di marcia è tracciata. E mentre si lavora alla conquista del consenso, sempre più si ragiona sui piani di reclutamento. Di gran lunga il passaggio più difficile.
Il capoccione della Bundeswher dice che, seppure in tempi di iper-tecnologizzazione della guerra, oltre alle armi servono comunque gli uomini. Il suo piano è dunque quello di passare dai 180mila effettivi di oggi, a 292mila nel 2029, a 352mila nel 2035. Sostanzialmente un raddoppio.
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L’Epoca pericolosa del vittimismo assassino
di Andrea Zhok*
Quando si scopre che la maggioranza (73% secondo l’ultimo poll) della civile, colta, democratica popolazione israeliana supporta una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi non ci si può che chiedere: com’è possibile che ciò accada? Com’è possibile che qualcuno di fronte a manifeste, continue forme di prevaricazione e violenza nei confronti di soggetti innocenti (bambini, anziani, civili) continui a difendere serenamente queste attività?
La risposta è in effetti semplice: nel caso della popolazione israeliana si tratta di una popolazione che ha introiettato educativamente una visione di sé come vittime della storia, come soggetti fragili ed oppressi, che perciò hanno un implicito diritto di “autodifesa preventiva” a 360°.
In sostanza, essendo “noi” in credito con la storia e l’umanità, ci possiamo permettere ciò che altri non possono permettersi. La posizione di vittima esemplare ci pone in una insuperabile posizione di superiorità morale, che semplifica di molto ogni decisione: non devo soppesare torti e ragioni perché tutto ciò che faccio ricade per definizione sotto una forma di “legittima difesa preventiva”. Basta assumere che l’altro possa rappresentare, da un qualunque punto di vista, una minaccia per me, e io sono legittimato dal mio ruolo di vittima a ricorrere a qualunque forma di iniziativa soppressiva.
Una dinamica perfettamente analoga può essere scorta nelle legittimazioni “progressiste” che fioccano in questi due giorni dell’omicidio di Charlie Kirk.
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Finanza e Difesa: le due bolle che intrappolano l'Europa (e i conti pubblici dell'Italia)
di Alessandro Volpi
Il titolo di Oracle, in una sola seduta di Borsa, ha guadagnato il 40%, portando la capitalizzazione della società non lontana dai 1.000 miliardi di dollari. Era già salito del 45% nelle giornate precedenti. Da che cosa è dipesa una simile impennata? I numeri reali parlano di un fatturato di 57 miliardi di dollari, quattro in più rispetto al 2024 e di un utile netto di 12 miliardi, due in più dell'anno precedente. Numeri importanti, dunque, ma che forse non giustificano un'esplosione come quella registrata in pochissime sedute, su cui hanno pesato molto, invece, la sempre più stretta vicinanza a Trump e alle commesse del Pentagono, l'iniezione di liquidità dei fondi e l'accordo, poi annunciato, con OpenAI, che segna una sorta di cartello dell'Intelligenza artificiale che va da Larry Ellison a Peter Thiel, da BlackRock alla presidenza Trump e al suo progetto "Stargate".
Si tratta di una bolla finanziaria costruita sulla narrazione che gli Stati Uniti intendano puntare il proprio futuro sull'Intelligenza artificiale legata in primis alle strategie del Pentagono in antitesi all'affermazione cinese. La finanza guadagna sull'ipotesi di un conflitto tecnologico tra Usa e Cina: i beneficiari di tale scontro sono evidenti. Il principale azionista di Oracle è come detto Larry Ellison, con il 40%, che non a caso in due giorni è diventato l'uomo più ricco del mondo, seguito da BlackRock, Vanguard e State Street, proprietarie del 15% circa.
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Cina e dialettica marxista
di Salvatore A. Bravo
La Cina è sicuramento “il baluardo” che limita l’imperialismo a stelle e strisce. Guardare in direzione della Cina con le leggi della dialettica è necessario, poiché la dialettica marxista insegna che gli orientamenti della storia devono essere compresi e decodificati per orientare la rivoluzione e i mutamenti radicali in modo proficuo, e la Cina, a prescindere dalle opinioni personali, è la civiltà (socialista) con cui dovremo confrontarci. Non è solo una nazione immensa, quasi un continente nel continente asiatico, ma una civiltà-nazione con una identità e storia millenaria sopravvissuta al colonialismo cannibalico occidentale. Essa oggi è la civiltà che apre nuovi scenari politici, mentre l’occidente cerca di perpetuare il suo impossibile dominio:
“Il materialismo dialettico concepisce l’universo come “un movimento della materia, retto da leggi”, che si riflette nella nostra conoscenza, “prodotto superiore della natura” . Il pensiero è riflesso di questa realtà, ed è perciò anch’esso in un processo di continuo movimento e trasformazione. Al modificarsi della realtà materiale non può che corrispondere una trasformazione del pensiero. Essendo il nostro pensiero il riflesso della realtà materiale, noi possiamo arrivare alla comprensione oggettiva di questa. Il pensiero umano è espresso però da singoli individui, che non possono che avere una conoscenza relativa, limitata dal tempo e dallo spazio, oltre che dallo stato di sviluppo della società e delle sue forze produttive e scientifiche[1]”.
La dialettica ci insegna che le fasi di rottura causate dalle contraddizioni conducono a salti qualitativi, poiché nella contraddizione si afferma un innalzamento qualitativo generale della coscienza dei dominati. Tale coscienza non è assimilabile all’opinione personale, ma alla constatazione dell’inevitabilità dei processi storici in corso. Questi ultimi non sono mai “semplici segmenti” separati dalla totalità della storia, ma trovano la loro oggettiva ragion d’essere nell’immanenza olistica e trasformatrice della storia:
“Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante[2]”.
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La bolla dell’AI sull’orlo dell’esplosione. Gli USA si ritirano dall’Asia per risolvere i guai a casa?
OttoParlante - La newsletter del Marru (8/09/25)
di Giuliano Marrucci
La costruzione di un Nuovo Ordine Globale non è un pranzo di gala. Ed ecco, così, che dopo aver passato un’intera settimana a celebrare le magnifiche sorti e progressive della leadership cinese – che tra SCO, parate, Power of Siberia 2 e chi più ne ha più ne metta, ha raggiunto una serie straordinaria di traguardi storici – è bene iniziare la settimana con una lunga disamina di tutti i dubbi e di tutti i nodi insoluti che rimangono da sciogliere; e mettetevi pure comodi, perché l’elenco è decisamente lunghino e, vista la mole, probabilmente anche un po’ caotico.
Il punto di partenza migliore è il dibattito che è nato su X tra alcuni degli osservatori (e sostenitori) più attenti e lucidi dell’ascesa del Nuovo Ordine Multipolare: a dare il via è stato il solito Arnaud Bertrand (se non lo fate già, seguitelo su X: in assoluto uno dei profili più informativi e interessanti dell’intera piattaforma) che, partendo da un articolo su Politico, ha lanciato la più stimolante delle provocazioni: “Gli USA”, afferma, “si stanno effettivamente ritirando dall’Asia”. La riflessione nasce dalle indiscrezioni sull’ultima bozza della nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono: Il piano del Pentagono dà priorità alla patria rispetto alla minaccia cinese, titola con enfasi Politico; e questo “segna un netto distacco dalla prima amministrazione Trump, che puntava a scoraggiare Pechino”.
Secondo l’articolo, appunto, “Una bozza della più recente Strategia di difesa nazionale” porrebbe “le missioni nazionali e regionali al di sopra della lotta contro avversari come Pechino e Mosca”; “Un cambiamento radicale rispetto alle recenti amministrazioni”, sottolinea Politico, “incluso il primo mandato del presidente Trump, durante il quale lo stesso documento definì Pechino il più grande avversario degli Stati Uniti”. L’aspetto divertente è che, oggi come durante il Trump 1.0, il responsabile del documento è sempre lo stesso: Elbridge Colby. Per chi segue Ottolina, una vecchia conoscenza: ne avevamo parlato qui ormai 3 anni fa, in occasione della pubblicazione del suo libro Strategy of denial, che avevamo definito il Mein Kampf degli USA. Secondo Arnaud la motivazione è chiara: “Ora che è al potere ha accesso a informazioni di intelligence reali, e deve aver capito quando sarebbe stato vano ogni sforzo.
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Francia e Gran Bretagna, due populismi a confronto
di Nico Maccentelli
Uno dei cavalli di battaglia degli atlantisti che santificano le attuali (false) democrazie liberali è spalare merda sulle opposizioni qualificandole come populiste e sovraniste. In realtà c’è una bella differenza tra forze politiche che rilanciano il sovranismo populista nel nome dei valori occidentali, e forze che ritengono che in Europa, l’UE sia una gabbia e ponga dei diktat ai parlamenti e alle popolazioni che non possono più decidere autonomamente cosa sia meglio sul piano economico e sociale, per non parlare della politica estera.
Che l’Unione Europea abbia condotto con la sua politica economica i suoi paesi aderenti alla crisi, abbia imposto parametri liberisti e penalizzato stato sociale, salari, pensioni e che dulcis in fundo con la politica estera NATO abbia portato a un’escalation bellica preparata da tempo, dal 2014 con il golpe di Euromaidan, è un dato di fatto che difficilmente i media a libro paga di Bruxelles e della finanza anglosassone possono dissimulare. Oltre che una “pallottola spuntata” nella macelleria ucraina vediamo che anche la propaganda militarista lo è, con sparate del tutto grossolane sulla “Russia che ci minaccia”.
È per questo che il populismo sovranista ha gioco forza nel proporre alternative che spesso non sono. Non è un’alternativa per esempio la forza di massa che si è riversata nelle strade di Londra (1) con tutto il suo carico islamofobico e razzista che fa da corollario a una visione nazionalista aderente alle suggestioni suprematiste dell’antica Inghilterra, quale paese colonizzatore per eccellenza.
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Guerra o pace l’Ucraina ci presenta il conto: nel 2026 più di 120 miliardi di spesa militare
di Gianandrea Gaiani
Meno di un mese dopo che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commissionato agli Stati Uniti 90 miliardi di ordini per armi, munizioni ed altri equipaggiamenti militari che pagheranno, consenzienti, gli alleati europei, ieri il ministro della Difesa di Kiev, Denys Shmyhal (nella foto sotto), ha reso noto che l’Ucraina ha bisogno di oltre 100 miliardi di euro per finanziare la sua difesa nel 2026.
A scanso di equivoci, l’ex premier del governo ucraino, ha precisato che tale somma sarà necessaria sia in caso la guerra continui sia nel caso si arrivi a un accordo di pace.
“Se la guerra continua, avremo bisogno di almeno 120 miliardi di dollari per il prossimo anno”, ha affermato, visto che gli sforzi di pace restano in una fase di stallo. Anche se i combattimenti cessassero, “avremo bisogno di una somma leggermente inferiore” per “mantenere il nostro esercito in buone condizioni” in caso di un nuovo attacco russo, ha aggiunto alla conferenza annuale sulla strategia europea.
Il ministro non ha specificato quanto di questa somma l’Ucraina sarà in grado di finanziare con risorse proprie, che di fatto non esistono dal momento che l’Ucraina sarebbe già in bancarotta secondo gli standard finanziari comuni e sopravvive grazie ai donatori internazionali.
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Politeismo italiano
di Geraldina Colotti
Più di un secolo fa, il sociologo Max Weber spiegò con autorevolezza come l’individuo moderno fosse destinato al cosiddetto «politeismo dei valori». Queste riflessioni famose, anche se non necessariamente persuasive, servivano a delineare la situazione nuova di società disincantate, costrette a convivere con l’assenza di baricentri ideologici assoluti e col proliferare di dilemmi etici e normativi inevitabilmente drammatici.
Nessun dramma, però, sembra affliggere l’odierno politeismo italiano, che nel 2025 ha segnato un notevole salto di qualità con la morte e la santificazione di Pippo Baudo e di Giorgio Armani.
«Santo subito!», gridavano i più sfrenati fedeli cattolici, dopo la morte di Karol Wojtyla, papa scenografico e reazionario. Come possiamo constatare, l’esperienza non è andata perduta, vista l’ondata di selvaggio conformismo che si è scatenata all’indomani della scomparsa del «re» della televisione e del «re» della moda.
Notiamo che questi «re» sono monarchi dell’apparenza. Baudo «scopriva» i cantanti, facendoli apparire a Sanremo per dischiudere loro le porte del successo. Armani «copriva» attori e politici, facendoli apparire nella miscela di stile e originalità che conferiva loro eleganza e sicurezza.
Notiamo anche un’altra cosa. Questi sovrani dell’esteriorità hanno imposto la loro supremazia solo a partire dagli anni Ottanta. Anni di simulazione portata all’eccesso, anni di narcisismo compulsivo, anni (bisogna dirlo) di controrivoluzione.
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Sumud, ora e sempre
di Augusto Illuminati
Il proditorio attacco israeliano con drone alle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla testimonia non solo il terrorismo sionista ma il rilievo oggettivo che quell’iniziativa umanitaria ha per internazionalizzare il conflitto e manifestare forme concrete di solidarietà e coinvolgimento
Sumud, resilienza un cazzo, resistenza piuttosto, sforzo di perseverare o, come si diceva quando una lingua comune dell’Occidente esprimeva l’impulso rivoluzionario marrano, conatus, per cui ogni cosa in suo esse perseverare conatur, fa valere la sua essenza attuale. La lenta e un po’ scompigliata partenza della Global Sumud Flotilla e il suo avvicinamento contrastato a Gaza segnano un salto di qualità nell’impegno solidale di un movimento internazionale e anticoloniale.
Un balzo di scala non solo rispetto alla passività complice dei governi occidentali, in primo luogo di quello italiano, ma anche rispetto a precedenti manifestazioni di piazza, raccolta di aiuti e boicottaggio dei movimenti e dello stesso movimento italiano che solo a luglio aveva raggiunto livelli paragonabili con quelli europei, superando anteriori divisioni e incertezze. Naturalmente la spinta è venuta dal precipitare della situazione sul fronte di Gaza e della Cisgiordania, essendo la politica israeliana sempre più determinata dal ricatto parlamentare delle formazioni più estremiste e dalla spinta sociale dei coloni e delle bande dei “ragazzi delle colline”, feroci e disadattati che fanno da braccio armato sussidiario e provocatorio ai coloni inquadrati nell’esercito e nella polizia di Ben Gvir.
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La scomparsa della circolazione e la logica del capitale
di Robert Kurz e Samuele Cerea
Il seguente testo è solo una parte di un lungo saggio di Robert Kurz dal titolo Geld ohne Wert [it: “Denaro senza valore”] (Horlemann Verlag, 2012). Esso rappresenta il lascito teorico e l’ultimo contributo organico dell’autore nella direzione di un notevole tentativo (iniziato già a metà degli anni Ottanta) di ricostruire la critica dell’economia politica e di formulare una teoria radicale della crisi del capitalismo. Ci limitiamo qui a fornire alcune succinte coordinate.
Il fulcro della trattazione è naturalmente la questione del denaro e del suo valore, sapientemente declinata attraverso un confronto con l’antichità e l’età medioevale in cui il denaro non aveva affatto il ruolo centrale che riveste nella modernità con la sua universalizzazione del capitalismo e delle relative categorie. Sottolineando la natura storicamente e logicamente differente del denaro nella modernità capitalistica rispetto alle epoche premoderne, Kurz imposta la questione della sua funzione sociale negli ultimi secoli e ne mette in luce gli elementi di crisi.
In secondo luogo, l’accento viene posto sulla necessità di analizzare la società capitalistica come un intero. Di conseguenza Kurz conduce una critica serrata al cosiddetto “individualismo metodologico”1 che caratterizza l’approccio utilizzato da Marx ne Il capitale ma anche e soprattutto le correnti neo-marxiste più recenti (in particolare la cosiddetta Neue-Marx-Lektüre di Michael Heinrich).
Nello specifico il testo che presentiamo prende in esame la categoria della “circolazione” mettendone in luce la natura illusoria. Se intesa come uno scambio generalizzato di merci prodotte da produttori indipendenti con la mediazione dal denaro, essa non ha mai avuto luogo storicamente; infatti nelle società premoderne non vi era alcuna produzione universale di merci mentre nella modernità capitalistica il denaro non media affatto lo scambio di merci differenti ma costituisce un fine in sé, in ossequio alla logica fondamentale del sistema. Questa idea ha piuttosto il suo luogo d’elezione nella visione ideologica della teoria economica ufficiale (quella del “velo del denaro”). Nella realtà le merci vengono realizzate, vendute e consumate ma non “circolano”.
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«Perché l’Iran non può avere armi nucleari e Israele sì?»
di Emmanuel Todd
Dal Giappone, l’antropologo francese analizza la questione nucleare iraniana e i doppi standard occidentali
L'autore de «La sconfitta dell’Occidente» sfida i pregiudizi occidentali sull’Iran. Con una lettura controcorrente, Emmanuel Todd sostiene che, come il Giappone, anche l’Iran potrebbe dotarsi di armi nucleari senza destabilizzare la regione. Lo studioso avverte che l’approccio unilaterale di Israele e degli Stati Uniti distorce la percezione e ostacola la comprensione del Paese erede dell’Impero persiano, che vanta oltre 2.500 anni di storia.
l punto di vista di un esperto su un tema di attualità.
Quella che segue è la traduzione in italiano di un’intervista rilasciata di recente in Giappone. Il fatto di esprimermi regolarmente in Giappone su questioni geopolitiche (da almeno 20 anni) mi ha aiutato a sviluppare una visione del mondo de‑occidentalizzata, una coscienza geopolitica non narcisistica. Come si vedrà, è stata la mia riflessione di lunga data sull’eventuale acquisizione dell’arma nucleare da parte del Giappone a portarmi a un atteggiamento piuttosto sereno di fronte alla questione iraniana.
Le democrazie europee non vanno bene. Non possono più essere descritte come pluraliste per quanto riguarda l’informazione geopolitica. La possibilità di esprimermi sui grandi media giapponesi mi ha permesso di sfuggire al divieto che in Francia pesa su qualsiasi interpretazione non conforme alla linea occidentalista. Le reti di Stato (France‑Inter, France‑Culture, France 2, France 3, La 5, France‑Info eccetera) sono agenti particolarmente attivi – e incompetenti – del controllo dell’opinione geopolitica.
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Lettere dal Sahel XX
di Mauro Armanino
Il figlio della ricchezza
Niamey, giugno 2025. Questo sembra essere il significato del suo nome, Edwin, migrante liberiano sepolto oggi nel cimitero cristiano di Niamey sotto il sole. In inglese antico, ‘Figlio della Ricchezza’ o della Prosperità. Morto nell’ ospedale universitario della capitale dopo che Medici Senza Frontiere prima e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni poi, si occupino della sua malattia. Troppo tardi e a 32 anni Edwin ha terminato un viaggio e iniziato l’altro, l’ultimo, verso una terra sconosciuta. La famiglia, informata dell’accaduto, ha chiesto di poter vedere per foto il suo volto e la video della sepoltura.
Era in Algeria e, certamente espulso e deportato, ha raggiunto Assamaka, la prima città nigerina passata la frontiera desertica dell’Algeria. Malato è stato condotti ad Arlit, chiamata piccola Parigi molti anni fa, Agadez il polo migrante e, viste le peggiorate condizioni di salute, l’ospedale di Zinder, prima capitale del Niger. Da lì il vano tentativo di tenerlo in vita nell’ospedale universitario di Niamey. La prima migrazione di Edwin si è fermata tra la sabbia e il vento del Sahel e, da martedì scorso, ha continuato con quella più impegnativa di tutte giacché non si trova in nessuna carta geografica.
Edwin, ‘Figlio della Ricchezza’, secondo l’etimologia classica del nome. Figlio dunque come non mai quando, stamane, nudo come alla nascita, il corpo offerto per l’ultimo segno di rispetto, la pulizia, prima di essere posto nel feretro di legno.
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La proiezione militare di Israel
di Gaetano Colonna
In Europa si cammina sul filo del rasoio di uno scontro diretto fra Nato e Russia, che qualcuno a quanto pare vuole assolutamente. Nel frattempo, lo Stato di Israele, sicuro oramai della impunità derivante dall’impotenza delle organizzazioni internazionali e del persistente cieco appoggio da parte degli Stati Uniti d’America, sta quindi sfruttando a fondo il momento favorevole per affermarsi come una forza politico-militare egemone in un’area che va oramai dal Golfo Persico fino al Mediterraneo centrale
Per rendersene conto, basta ricostruire gli avvenimenti svoltisi in circa 72 ore, tra l’8 e il 10 settembre scorsi: un arco di tempo nel quale Israele ha attuato con discreto successo ben sei distinte operazioni militari, alcune della quali proiettate a migliaia di chilometri di distanza.
1) Striscia di Gaza: lunedì 8 settembre, 67 persone vengono uccise e gli ospedali ricevono 320 feriti, tra cui 14 persone, uccise mentre cercavano di procurarsi generi di prima necessità; altre 6 persone – tra cui 2 bambini – muoiono per cause legate alla carestia. Martedì, altre 83 persone vengono uccise e 223 ferite.
Israele continua poi il suo attacco su Gaza City, prendendo di mira grattacieli, distruggendo infrastrutture e costringendo i residenti ad abbandonare le loro case, lasciando molti senza un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
Dal suo inizio, le operazioni di guerra di Israele su Gaza hanno ucciso almeno 64.656 persone, tra le quali almeno 404 sono morte di fame. Migliaia di altre persone risultano disperse sotto le macerie e si ritiene siano morte.
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Sui meccanismi di occultamento delle responsabilità del Neoliberalismo
di Pier Paolo Caserta
Uno degli aspetti e tra le capacità più notevoli dell’ideologia neoliberale è non solo l’essere stata completamente interiorizzata dai subalterni, costituendo così un elemento attivo di modellizzazione dell’immaginario (con conseguente impossibilità di pensare una reale alternativa di sistema), ma anche di deviare continuamente le responsabilità dei danni prodotti dal Modello verso aspetti periferici, fuorvianti se non del tutto erronei, a salvaguardia del Modello stesso. La Scuola e la Sanità pubbliche, ossia due settori vitali per la tenuta della Democrazia, e che proprio perciò sono stati oggetto di un attacco profondo e pluridecennale, forniscono ottimi esempi del funzionamento del meccanismo.
Sul piano della Sanità, si prenda pure il caso paradigmatico dell’emergenza pandemica, quando l’enfasi sui comportamenti individuali, virtuosi o viziosi, servì a deviare l’attenzione dalle responsabilità maggiori alla base dell’impatto della pandemia, imputabili allo smantellamento della sanità pubblica e allo straripare degli interessi privati. Per esempio, se non mantieni posti di terapia intensiva in esubero quando “non servono”, poi non te li ritroverai quando servono di più. Questo basterebbe a mostrare come la spesa pubblica debba farsi carico di costi che il privato non ha interesse a sostenere, a tutela dei diritti, dell’accessibilità ai servizi di base, e della salute pubblica. Per le stesse ragioni, tutte le campagne populiste e antipolitiche contro gli “sprechi” nel settore pubblico sono sempre state organiche all’ideologia neoliberale, perché contribuiscono a preparare la giustificazione per il trasferimento di risorse dal pubblico al privato.
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I droni e le "urgenze" della storia secondo il Corriere
di Fabrizio Poggi
«L'urgenza delle scelte» scrive il signor Danilo Taino nell'editoriale del Corriere della Sera del 11 settembre, in prima pagina sotto il titolone «Raid in Polonia, Putin sfida la NATO», che dà direttamente conto della visione del foglio di regime euro-atlantico a proposito della vicenda dei droni – addirittura privi di carica esplosiva, dice la stessa Procura polacca – caduti in territorio polacco, forse persino là dirottati da precise interferenze radioelettroniche. E, in fondo, per «quanto allarmante possa apparire» scrive la polacca Gazeta Wyborcza, «un attacco con un drone non è sufficiente per scatenare una guerra con la Russia. Nessuno è rimasto ucciso o ferito... non è sufficiente per provocare un conflitto aperto con la Russia». E il Comandante delle Forze NATO in Europa, Alexus Grynkewich: «Se i droni fossero stati centinaia, si sarebbe applicato l'articolo 5, ma al momento non è del tutto chiaro cosa sia successo nello spazio aereo polacco».
L'imbarazzo delle scelte, invece che «l'urgenza», vien da chiosare sfogliando le altre pagine, fino all'undicesima, dello stesso giornale, alla vana ricerca di qualcosa che non somigli troppo alle pure e semplici veline lanciate da Bruxelles per convincere i lettori della malvagità di un “regime autocratico”, assetato di guerra contro le immacolate democrazie europee spinte, come ricordato meno di una settimana fa dal presidente della Repubblica italiana, da quelli che sono i “fondamentali” del liberal-europeismo: «percorso di pace, affermazione dei diritti, standard di vita», ecc.
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L’instabilità mondiale si sposta verso l’emisfero occidentale
di Roberto Iannuzzi
La Cina è inarrivabile. L’Occidente frana dall’interno. L’ex superpotenza USA dispiega la propria residua forza militare, e quella dei suoi alleati in crisi, in America Latina, Europa e Medio Oriente
Mentre al vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) di Tianjin il gigante cinese si è posto nettamente alla guida del mondo non occidentale, Stati Uniti e paesi europei sono alle prese con crescenti crisi politiche, economiche e sociali al proprio interno.
Militarmente, Washington si sta concentrando in primo luogo sul continente americano, scaricando sugli europei i costi di un conflitto ucraino sempre più fallimentare, e lasciandosi trainare dal disastroso avventurismo israeliano in un Medio Oriente sempre più in fiamme.
Arroccamento americano
Questa realtà potrebbe presto trovare conferma nella nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono. Una bozza del documento è attualmente allo studio del Segretario alla Difesa Pete Hegseth.
Secondo indiscrezioni, essa antepone per la prima volta la protezione del suolo nazionale e del continente americano all’esigenza di contrastare avversari come Russia e Cina.
Sebbene il documento possa ancora subire modifiche, si tratta per molti versi di una tendenza già in atto.
Il Dipartimento della Difesa ha inviato navi da guerra ed aerei F-35 nei Caraibi, ed ha mobilitato migliaia di uomini della Guardia Nazionale per mantenere l’ordine a Washington e Los Angeles, in un paese sempre più frammentato e diviso (come conferma il recente assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk).
Se questa realtà trovasse riscontro nel nuovo documento del Pentagono, si tratterebbe di uno stravolgimento rispetto alla Strategia di Difesa Nazionale del 2018, sotto la prima amministrazione Trump, la quale poneva al primo posto il contenimento della Cina.
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“Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo
Giuditta Mosca intervista Jathan Sadowski
Vivere le tecnologie come se fossero qualcosa che cade dall’alto ci rende passivi e ci limita a considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, scritto dal ricercatore americano Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle dinamiche di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.
Chi è Jathan Sadowski
Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione.
L’era del capitalismo tecnologico
Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali.
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Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio
di Paolo Lago
Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, i teatri, le prigioni, le colonie, le fiere, le biblioteche. Alla fine della conferenza, Foucault definisce però la nave come “eterotopia per eccellenza”: la nave è un “frammento di spazio fluttuante, un luogo senza luogo, che vive per sé, che è chiuso su se stesso e che, nello stesso tempo, è abbandonato all’infinito del mare”2; è “anche la più grande riserva di immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza barche i sogni si inaridiscono, lo spionaggio prende il posto dell’avventura e la polizia quello dei corsari”3.
L’immagine della nave come “contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, come “riserva di immaginazione”, come una specie di scrigno di sogni scaturiti da un immaginario libero e liberato prende corpo in questi giorni nella Global Sumud Flotilla, partita carica di aiuti umanitari pochi giorni fa alla volta della Striscia di Gaza con l’intento di rompere il blocco israeliano. Sono tante imbarcazioni a vela che assumono una dimensione quasi mitica nel loro movimento sulla superficie del mare alla volta della Striscia.
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L'”incidente polacco”, un Tonchino in salsa europea
di Francesco Piccioni
A 24 ore di distanza, con qualche elemento concreto in più (le dichiarazioni e la propaganda li lasciamo agli arruolati), possiamo provare a sintetizzare l’analisi dell’”incidente polacco” – i droni, forse russi, che hanno sconfinato sul confine orientale di Varsavia – e ipotizzare cosa è effettivamente accaduto.
Dal che, come sempre, discende un briciolo di valutazione politica.
Gli “elementi concreti” vengono forniti da fonti militari (alcune della Nato, altre bielorusse) e da analisti militari sperimentati, tipo Analisi Difesa per quanto riguarda l’Italia.
Partiamo dalle cose relativamente certe.
I droni erano di tipo “Gerbera”, che un sito molto “europeista-militarista” descrive così: “I droni Gerbera appartengono alla categoria degli UAV tattici, progettati per missioni di ricognizione, sorveglianza e potenzialmente anche attacco. Sebbene la documentazione ufficiale sia limitata, analisti militari occidentali hanno identificato questo modello come parte della nuova generazione di droni russi, sviluppata con l’obiettivo di contrastare le difese aeree convenzionali e di operare in scenari di conflitto ibrido.”
In pratica sono droni senza carica esplosiva (anche se in qualche misura potrebbero portarla), utili sia per acquisire informazioni sulla disposizione del nemico, sia come “esca” per attirare i missili anti-missile delle difese avversarie.
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La flottiglia, spettacolo che assolve
di Pasquale Liguori
La coerenza politica passa spesso per la minoranza. Se n’ebbe prova all’indomani del 7 ottobre, quando affermare il carattere resistente di quell’atto significava esporsi all’isolamento e al disprezzo di una massa compatta che ne decretava la demonizzazione come “terrorismo”. Si era in pochi, quasi invisibili. Lo si constata di nuovo oggi, dopo due anni di genocidio reso possibile dall’indifferenza occidentale e dalla complicità diretta con il sionismo: proprio mentre si coagula un consenso di massa che condanna tardivamente i massacri, si può scegliere di restare altrove. Non per masochismo né per culto delle passioni tristi, ma per coerenza. È fondamentale la forza dei movimenti di massa, ma non va confuso il clamore con la lotta: quando degenerano in rituali di autoassoluzione, è doveroso starne fuori. Molti compagni di allora, che condividevano la solitudine della prima minoranza, oggi si sono riversati anima e corpo in questa ondata solidale che qui si critica. Li si può rispettare, ma sarebbe disastroso lasciarsi trascinare: resta dunque salutare permanere nella minoranza che non si lascia sedurre dalle illusioni.
Potremmo scorgere, infatti, nel clamore di questi giorni, il tempo della negazione spettacolare della resistenza. La Global Sumud Flotilla non sostiene la lotta, non rafforza la resistenza: è messa in scena.
Guy Debord, esordendo ne La società dello spettacolo, avvertiva: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Ed è proprio ciò che accade.
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Progetto economico alternativo
di Emiliano Brancaccio
Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, quella parola è in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron
«A causa di una rivolta sociale il Museo d’Orsay è chiuso» e i turisti non potranno ammirare le opere di Courbet. Per questa ironica serrata, il grande pittore rivoluzionario avrebbe guardato con simpatia il movimento che ieri ha paralizzato Parigi al grido «blocchiamo tutto».
Alcuni distruttori senza criterio, certo. Ma soprattutto giovani, tantissime donne, molti immigrati, e drappi rossi a volontà.
Si dice che il movimento sia nato dalle file della destra sovranista attiva sui social. Sarà, ma ieri si è vista poco. I «bloccanti», li chiameremo così, sono portatori di un linguaggio sovversivo in cui il termine «nazione», in senso repubblicano e molto francese, di certo non manca. Ma la parola chiave dei rivoltosi è un’altra: «Uguaglianza». Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron, alle quali i post-fascisti che siedono all’Assemblea nazionale vorrebbero dare sostegno più apertamente di quanto possano oggi ammettere.
La protesta è rivolta in primo luogo contro il programma anti-sociale che Macron sta cercando di imporre al paese. Oltre una quarantina di miliardi di tagli, da selezionare alla solita maniera: blocco delle pensioni e delle prestazioni sociali, stop alle assunzioni statali, scasso della sanità pubblica e, guarda caso, abolizione della festa dell’8 maggio per la vittoria contro il nazifascismo.
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Critica dell’economia politica e strategia della rivoluzione socialista nel pensiero di Lenin
di Eros Barone
Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune delle più grandi città del mondo. Questo sarebbe l’impiego più «giusto» e più evidentemente edificante che si possa fare dell’oro per le generazioni che non hanno scordato come per l’oro furono massacrati dieci milioni di uomini e altri trenta furono storpiati nella «grande» guerra «liberatrice» del 1914-1918… Chi vive tra i lupi impara a ululare. E in quanto a sterminare tutti i lupi, come converrebbe in una società umana ragionevole, ci atterremo al saggio proverbio russo: «Non vantarti quando parti per la guerra ma quando ne ritorni»…
V. I. Lenin, L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo, 6-7 novembre 1921.
1. La specificità del capitalismo russo
Parlare della teoria economica di Lenin può apparire un po’ singolare se si considera la sterminata letteratura concernente il grande rivoluzionario russo. Lenin è infatti assai più noto come politico e come filosofo, che non come economista, e i motivi di questa differenza non sono certamente addebitabili al fatto che la produzione di scritti economici sia di minor valore, ma nascono dal segno più marcato che egli impresse in certi settori, anziché in altri: è il caso per Lenin, ovviamente, della politica. Eppure Lenin aveva esordito proprio come economista e nella sua produzione pubblicistica i primi dieci anni di lavoro intellettuale furono largamente dominati dagli studi economici. Sennonché la ragione del tardivo riconoscimento tributato agli scritti economici sembra quanto mai significativa: si è scambiata l’analisi dell’economia russa, che occupa un posto centrale in quegli scritti, per una indagine di storia locale con scarsi addentellati teorici generali. È vero, invece, proprio il contrario: quell’analisi costituisce la parte scientificamente più robusta dell’intera opera di Lenin, quella in cui, soprattutto, opera con gran forza una metodologia scientifica.
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La "Critica del Programma Gotha": un manifesto 2.0 !!
di Gabriel Teles
Nel 1875, Karl Marx scrisse un documento unico. Non si trattava di un trattato filosofico o di un saggio giornalistico,bensì di una critica approfondita, chirurgica, schietta e, ancora oggi, rimasta spesso trascurata. Mi riferisco alla "Critica del programma di Gotha", scritta come fosse una lettera-commento al progetto di unificazione, dei socialisti tedeschi, attorno a un programma comune. A prima vista, potrebbe sembrare quasi un episodio minore nella traiettoria del pensiero marxiano. Tuttavia, come sostiene il marxista indiano Paresh Chattopadhyay, si tratta di un vero e proprio «secondo Manifesto del Partito Comunista»: più maturo, meno pamphlet, ma non per questo meno rivoluzionario. Per comprendere la portata di questa formulazione, è necessario tornare al contesto. Nel 1875, i seguaci di Marx e i seguaci di Ferdinand Lassalle - una figura centrale dello Stato tedesco e del socialismo riformista - cercarono di fondere le loro organizzazioni nel neonato Partito Socialista Operaio di Germania (in seguito SPD, acronimo di Partito Socialdemocratico di Germania). Il programma che avrebbe sintetizzato questa fusione, era stato scritto per lo più da dei lassalliani, e recava in sé profondi segni di un socialismo statalista, legalista e conciliante. Marx, dopo aver letto il testo, rispose con la "Critica del programma di Gotha", inviato tramite una lettera a Wilhelm Bracke, ma che non venne mai pubblicato integralmente per tutto il corso della sua vita, e venne reso noto pubblicamente soltanto nel 1891. Ciò che Marx offriva in quel testo, non era solo una critica congiunturale.
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